22 maggio 2010

Genocidio dei Galli il crimine commesso nel nome di Roma

Boris Johnson paragona il ruolo del potere antico a quello moderno della Ue. Con tante forzature
di Luciano Canfora
Un saggio dimentica le atrocità imperiali Una visione unilaterale. L'autore apprezza il processo di assorbimento del mondo britannico all'interno della costruzione dei conquistatori
Boris Johnson, sindaco di Londra dal 2008, ha scritto un libro divertente e intelligente: The Dream of Rome (ora edito in Italia da Garzanti, Il sogno di Roma, pp. 288, 19,60). Ha fatto ottimi studi a Oxford, nel campo della storia antica, ed ha trasformato quel prezioso bagaglio di conoscenze in alimento della sua originale riflessione politica. Poiché è consapevole dell'ostilità di cui la conoscenza storica, in particolare della storia antica, è oggetto da parte degli stolti, si è anche divertito a dedicare questo suo libro su Roma ad un ministro del governo laburista, tale Charles Clarke, autore di memorabili esternazioni contro «l'istruzione fine a se stessa», ovvero di auspici di «estinzione in Gran Bretagna dello studio delle lettere classiche». Johnson non solo padroneggia la materia storica che è argomento del suo libro (la costruzione imperiale romana), ma mostra in particolare buona competenza per quel che riguarda il processo di assorbimento del mondo celtico e del mondo britannico dentro la costruzione imperiale romana. Il capitolo più significativo è forse il VII: Conquistare le élites. Lì viene descritto bene, tra l'altro, il modo tollerante e volto soprattutto a integrare e a inglobare con cui i Romani hanno impostato il rapporto con i popoli su cui estesero man mano il loro dominio. Ben si comprende perciò l' ammirazione che Johnson destina al discorso di Claudio - documentato da una celebre epigrafe e rielaborato da Tacito negli Annali - intorno all'opportunità di concedere alle élites galliche l'accesso al Senato. Nulla di totalmente nuovo, si potrebbe dire, ma certo raccontato con efficacia e verve non comuni. Il difetto principale del libro, in quanto tentativo di ricostruzione storica, sta piuttosto nell' unilateralità di questa visione. Resta in ombra il carattere di rapina che sta alla base della spinta alla costruzione di un siffatto edificio imperiale, e resta in ombra anche il costo umano: che quasi sempre fu immenso, anche se questo aspetto non sembra interessare molto Johnson (p. 267). (Il genocidio gallico in particolare fu reso evidente da fonti quali Plutarco, Appiano e soprattutto Plinio il Vecchio: la entità del massacro aveva turbato già gli antichi, che pure non andavano per il sottile). E nel costo umano bisognerebbe includere anche la estirpazione di alcune civiltà, come quella celto-gallica, che non era necessariamente una civiltà «inferiore». Su questo punto Simone Weil, allora giovanissima, scrisse pagine molto efficaci in un saggio del 1940, intitolato significativamente Hitler e la politica estera dell' antica Roma («Nouveaux Cahiers» nr. 53). Esso si apriva con una riflessione di carattere molto generale ma ineludibile: «A farci orrore sono le conquiste da cui siamo minacciati; quelle che compiamo noi sono sempre belle». E ancora: «Noi conosciamo la storia romana solo attraverso i Romani stessi e i loro sudditi greci, costretti nella sventura, ad adulare i padroni ( ... ) Noi non possediamo la versione che avrebbero potuto darcene i Cartaginesi, gli Spagnoli, i Galli, i Germani, i Bretoni». «I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l' organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare con l'impiego meditato, calcolato, metodico della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita». E soprattutto Simone Weil poneva - nel suo saggio - una questione storicamente rilevante: le civiltà già esistenti in Occidente nelle aree conquistate da Roma sono state assassinate. Non si può negare - osservava - che la Gallia non fosse creativa sul piano culturale prima della conquista cesariana: «i druidi studiavano per venti anni, imparavano a memoria interi poemi sull' anima, la divinità, l' universo». È una visione controcorrente ma tutt' altro che trascurabile. Si oppone alla visione deterministica, la più comoda e la più frequentata, secondo cui tutto ciò che è accaduto doveva accadere. Essa però trascura che la stessa conquista del mondo mediterraneo e poi nordico da parte di Roma non fu frutto di un piano prestabilito e teleologicamente attuato di generazione in generazione, bensì un risultato che si venne man mano creando in una costante lotta di potenza, in cui prevalse la macchina bellica romana così profondamente intrecciata con il suo retroterra politico-istituzionale. A questo poi si aggiunga che i potentati in lotta alla fine della Repubblica hanno praticato la politica di conquista per finalità di crescita personale in vista di uno stravolgimento in senso autoritario del vecchio ordinamento cittadino. Dunque conviene discostarsi dalla visione deterministica, e troppo ammirativa, della marcia trionfale di Roma verso il dominio mondiale. Tale atteggiamento affiora, si sa, anche nelle menti più critiche e avvedute. Si pensi, per fare un solo esempio, alla premessa del saggio di Ortega y Gasset, dello stesso 1940, Del Imperio Romano, dove si legge una formulazione impregnata di mentalità deterministica: «La storia dell'Impero Romano è già il primo strato della storia d'Europa». Non daremo dunque troppa colpa al brillante e colto sindaco di Londra se ha abbracciato in modo così entusiastico e unilaterale la storia e il modello (quale egli se lo tratteggia) dell' impero romano. La domanda è però: perché lo ha fatto? Nelle pagine finali egli abbandona lo sforzo ricostruttivo per affrontare direttamente un argomento politico, tutto giocato intorno al parallelo tra impero romano e comunità europea. L'argomento, che gli sta sommamente a cuore, è l'ingresso della Turchia nella Ue come veicolo per un accomodamento tra mondo occidentale e islam (moderato). Ma nello svolgere il suo plaidoyer, Johnson esercita una forzatura. Roma realizzò, certo, una progressiva estensione della cittadinanza ma perché sospinta da lotte ferocissime (per es. la guerra sociale); e, comunque, di tale opera di cooptazione la premessa fu sempre la conquista militare, realizzata coi metodi che si sono prima ricordati. E quando, con l'editto di Caracalla, la cittadinanza fu estesa per lo meno a tutte le popolazioni urbane dell'impero, esso cominciò a scricchiolare. La Ue è sorta in tutt'altro modo. Né sembra, tutto sommato, troppo allettante prospettare agli altri che - bontà nostra - potremmo trattarli con la ritardata bonomia adottata a suo tempo dall' impero romano nei confronti dei popoli via via sottomessi.
«Corriere della Sera» dell'11 maggio 2010

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