07 maggio 2010

Francesco & i Trovatori

di Franco Cardini
«Vedi, ho là cento compa­gni. Dacci Isotta e che appartenga a tutti noi! Il male accende i nostri desideri. Dal­la ai tuoi lebbrosi...». Non è detto che il giovane Francesco, che sognava di diventar cavaliere, abbia mai letto pa­rola per parola e rigo per rigo quella terribile pagina del troviere norman­no Béroul, che nella seconda metà del XII secolo aveva scritto un Tristan in versi del quale ci resta solo un lungo frammento, più o meno di 4500 ver­si. Non è neppure sicuro che l’abbia mai finito, quel poema.
Del resto, a parte le due note versioni di Thomas e poi di Goffredo di Stra­sburgo, la storia di Tristano e d’Isotta era stata più volte raccontata, dal Gal­les alla Germania, e molti di quei rac­conti sono andati perduti. Ma si trat­tava di rifacimenti e di variazioni di una leggenda antica e celebre, alla quale certo nuovi e più forti e dram­matici colori dovevano essere stati ag­giunti proprio da quando, in seguito all’intensificarsi dei traffici e dei pel­legrinaggi (e non solo, come oggi si a­ma ripetere, «alle crociate»!...), lebbra e lebbrosari erano divenuti sempre più frequenti.
Chissà che in quel famoso cum essem in peccatis, nimis mini videbatur a­marum videre leprosos del Testamen­tum non vibri ancora in qualche mo­do la memoria d’un sentimento che a noi moderni sfugge, d’un tempo nel quale il giovane Francesco aveva a­borrito la vista di quei miserabili am­malati non solo per un ovvio e com­prensibile misto di paura e di repul­sione, ma anche per qualcosa di for­se più simile all’odio e al disprezzo nei confronti del «re dei lebbrosi» Yvain e dei suoi sventurati compari, coloro che nel racconto di Béroul osano spe­rare di avventarsi con i loro ripugnanti moncherini coperti di stracci luridi sul corpo candido e profumato della Bionda Signora e possederla a turno, ancora e ancora.
Quale giovane aspirante cavaliere non avrebbe sognato di trovarsi là, di sgo­minare quei ripugnanti infelici, d’af­frontare lo stesso sovrano che l’umi­liazione per l’adulterio aveva reso spietato rimproverandogli il suo di­sonore, di liberare la bella? Ma allora il bacio di Francesco al lebbroso ac­quista un valore ancor più intenso e profondo: vincendo se stesso, la pau­ra, la repulsione, Francesco vince an­che l’ombra di un’ostilità inespressa, la scia dei suoi sogni di ragazzo.
Questa «via cavalleresca alla santità», in Francesco, costituisce un tema che alcuni anni fa mi aveva molto attrat­to e sul quale, di quando in quando, mi capita di desiderar di tornare; o di rammaricarmi per non aver il tempo di farlo. È appunto la «via» che sem­bra dominare l’episodio della Vita beati Francisci di Tommaso da Cela­no nel quale Francesco, praeter mo­rem suum, quia curialissimus erat, cuidam pauperi postulanti ab eo e­leemosynam exprobrasset, ma subi­to se n’era pentito rendendosi conto che magni vituperii fore magnique de­decoris petenti pro nomine tanti Regis subtrahere postulata. Egli aveva ne­gato l’elemosina a un povero che gliel’aveva domandata nel nome di Dio: un atto che contrastava con la sua abituale curialitas, e ch’era anzi degno di vituperium e di dedecus. Par­te necessaria della curialitas era la lar­gitas, la liberalitas, la generosità che si trova nei poemi epici del tempo, co­me largesse, inseparabile compagna di prouesse, cioè di probitas, del co­raggio. Sono i valori cortesi-cavalle­reschi, che a proposito di questo pas­so di Tommaso da Celano hanno con­sentito a Chiara Frugoni di riflettere molto giustamente che «in questa fa­se della vita Francesco non è mosso dalla compassione per i più deboli ma dal codice morale dei suoi nobili a­mici, puntigliosamente preso a mo­dello»: un’osservazione che Marco Bartoli riprende e approfondisce ri­tenendo probabile che Francesco co­noscesse - per averli letti o più pro­babilmente ascoltati recitare - quei precetti che si trovano in poemi come il Garin le Lorrain, che cioè ad esem­pio «è col donare che un uomo di va­lore viene in alto pregio». Anche il do­no della veste al povero cavaliere, al­tro episodio-chiave della conversio del santo, rientra quanto meno formal­mente in questa tipologia dell’ele­mosina cortese». D’altronde, c’è almeno un altro testo francescano nel quale il truce «re dei lebbrosi» di Béroul sembra tornar a insidiare direttamente Francesco, a metterlo alla prova. È il capitolo XXV dei Fioretti, quello del lebbroso «sì im­paziente e sì incomportabile e pro­tervo » che «isvillaneggiava di parole e di battiture sì sconciamente chiun­que lo serviva» e «vituperosamente bestemmiava Cristo benedetto e la sua santissima madre Vergine Maria»: Francesco conquista questo povero tanto perfido con la bontà e la dol­cezza ancor prima che con il miraco­lo, giacché il tocco delle sue mani ne monda le piaghe.
Si tratta di una pagina tanto intensa quanto complessa, dal momento che la malvagità del lebbroso è, in effetti, un segno di possessione demoniaca: per cui la scena della cura e della la­vanda del corpo del perfido infermo è, al tempo stesso, un esorcismo. E il vero miracolo divino, ancor più di quello manifestatosi attraverso le ma­ni del santo, sta nel pentimento e nel­la salvezza di un’anima che sembra­va irrimediabilmente perduta. Al di là dell’aspetto propriamente materiale del servizio, cioè della cura fisica e del­la lavanda del corpo, sono la carità e la dolcezza profuse durante il suo cor­so a ottenere un miracolo duplice, la guarigione dalle piaghe e quella, più difficile e preziosa, dal peccato.
Che l’esperienza della povertà sia cen­trale nella vocazione di Francesco, è cosa tanto certa quanto nota. Quello delle sue nozze con Madonna Povertà è un tema di straordinaria pregnanza nella mistica e nella tradizione fran­cescana, legittimato dallo splendido trattatello De sacro commercio beati Francisci cum domina Paupertate e dall’XI canto del Paradiso dantesco e celebrato da opere pittoriche di gran­de significato.
«Avvenire» del 6 maggio 2010

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