03 maggio 2010

E Rimbaud «convertì» Claudel

di Davide Rondoni
Il poeta maledetto ha la faccia da mite impiegato. Come per un altro sberleffo alla facilità e banalità di schemi in cui tanta letteratura viene letta e riproposta da tromboni e maestrini. La foto di recente ritrovata ci mostra un Rimbaud trentenne, e il suo è un viso per nulla eccezionale. Un buon diavolo, sembra. Aveva lasciato perdere la poesia da un bel po’.
Secondo me lo fece perché il viaggio che aveva nella sua anima attraverso la esperienza della poesia (viaggio possibile a Dante) a lui era precluso da come era concepita ormai la letteratura intorno a lui e per sue inesplorabili prese di coscienza. Un altro elemento che continua a stupirci di Rimbaud (o almeno del Rimbaud ridotto, parziale e confezionato banalmente a iconcina di protestatari da hit-parade e da professori superficiali) è che fu a lui che il più cattolico dei poeti francesi venuti dopo, Paul Claudel, deve la sua conversione. Convertirsi leggendo Rimbaud è possibile, anzi è salutare. Ed è forse una lettura delle più profonde che il poeta dalle suole di vento ci offre. Lo mostra in più luoghi tra saggi e memorie colui che veniva chiamato - da lettori forse altrettanto superficiali di quelli che hanno ridotto Rimbaud a un freak di genio - «l’orso cattolico». E dicevano così per indicarne una specie di intrattabilità, una goffaggine, rispetto al suoi coevi e più amati, al così più moderno per i salotti Gide. Ma Claudel sapeva d’essere un fratello minore di Rimbaud.
D’essere anche lui della risma di coloro che l’antologia di Verlaine chiamò i «maledetti, ma sarebbe più esatto dire: assoluti». Lo si vede nella sua opera, nella poesia e nel teatro dove ha pagine di folgorante bellezza, memori della tensione e delle fiammate delle Illuminazioni e della Stagione all’Inferno. La sua conversione, racconta, nacque dalla presa di coscienza, di fronte a Dio, che «io ero io e Lui era lui». Una incommensurabilità, e una dignità assolute. Un confronto e un dramma. Anni di pregiudizio e di pigrizia, anche della critica cosiddetta cattolica (o che ad altri piace etichettare come tale), ha fatto poco conoscere in Italia le pagine di Claudel. I suoi bellissimi saggi sull’arte e la fede, attualissimi e sorprendenti, sono in buona parte non tradotti. Sia detto per inciso: non credo che esista la critica «cattolica». Piuttosto esiste in lettori cattolici la umiltà e la capacità di vedere il segno del mistero di Dio, l’abisso del guazzabuglio umano e la durezza del vivere tra idolatria e speranza in opere e vicende di poeti e scrittori. Il segno della inquietudine e della domanda umane. Fu questo a colpire Claudel in Rimbaud e a commuoverlo fino alla conversione. Il poeta de «L’Annuncio a Maria» fu educato da una famiglia rigorosa e severa sui dogmi del pensiero razionalista e ateo. L’incontro, la lettura di Rimbaud aprirono i suoi occhi su una dimensione di cui quel poeta diceva chiaramente all’inizio della Saison: «La carità è la chiave». In Rimbaud, come con Agostino e Pascal, si fa i conti con l’inquietudine per la presenza di un Alterità che lo costituisce e ne intesse le fibre più profonde. «J’est un autre» dice il giovane poeta, che non sopporta di imbarcarsi per un viaggio con Gesù Cristo «come un suocero», accusando così, al pari di quel che farà Claudel ogni riduzione della fede a moralismo e a dito alzato contro la vita. Da lettore critico, Claudel ha in seguito dedicato pagine importanti a Rimbaud, che come lui ebbe una sorella discussa e amatissima. Lo ha letto e fatto leggere offrendone una chiave sintetica, ancora la più esatta e fiammante, valevole per lui e forse per l’intera migliore poesia: «un mistico allo stato selvaggio».
«Avvenire» del 29 aprile 2010

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