30 maggio 2010

Bisogna dire al verità ai malati?

di Ferdinando Camon
E’ giusto che il medico curante dica, al paziente inguaribile e ai suoi parenti stretti, che morirà entro pochi mesi? Il primario che m’ha sbattuto in faccia questa sgradevole verità mi ha spiegato: siamo obbligati per legge a dire la verità, se il paziente ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, perché se gli diciamo un’altra verità e lui viene a sapere la verità vera, può rivalersi su di noi per l’inganno.
Se un medico dice che questa è la nuova etica dei medici devo credergli. Tuttavia, dire la verità e dirla con termini netti, spietati, senza scampo, sarà deontologico ma non è umano.
Un mese fa una mia parente vien ricoverata per leucemia. Buon trattamento, buona sistemazione, e, ritengo, buone cure. Vado a parlare col primario. Prime sorprese: in portineria mi fermano, non è che dopo di me qualcun altro vorrà sapere? Io sono il fratello del marito, può darsi che anche il marito venga a informarsi. Ma non posso informarlo io? Va bene, lo informerò io, ditemi. Mandano a chiamare il primario. Molto preparato, eccellente medico. Mi domanda se la paziente è contenta che io venga a sapere. Dico: la paziente è qui, può domandarglielo. Ma io voglio sapere la diagnosi o la prognosi? Tutt’e due, soprattutto la prognosi, se la parente guarirà e tornerà a casa. Sta dritto davanti a me, a un metro di distanza. La sua comunicazione è la seguente: «Certamente», pausa, «questa malattia», lunga pausa prima della parola seguente, «ucciderà», pausa, «la signora», ultima pausa, «nel giro di pochi mesi». Mi guarda. Lo guardo, e lo vedo oscillare nel senso destra-sinistra. Sta svenendo, penso, quel che dice gli pesa. Ma sono io che oscillo, quel che sento mi pesa.
Lui è un medico, io uno scrittore. Come scrittore, peso le sue parole. Le più pesanti sono due: «certamente» e «ucciderà». Il «certamente» non lascia nessuno spazio né al dubbio né alla speranza: è così e basta. «Ucciderà» è un verbo attivo (molto diverso da «morirà»), qualcuno o qualcosa sta uccidendo qualcun altro. La frase «questa malattia ucciderà la signora» descrive il paziente come un condannato alla fucilazione appoggiato al muro, qualcuno sta per sparargli, nella scena non c’è nessun altro che si opponga. Né medico né scienza, niente. Il mio istinto è il rifiuto: «Ma scusi, verrà anche il marito, glielo dirà negli stessi termini?», «Siamo tenuti per legge a dire la verità, non possiamo lasciare confusione», «E se lo chiede la paziente?», «Se la signora vuol sapere, dobbiamo dirle tutto». Mi lascia. Fra poco metteranno nell’atrio un robot, tu digiti la domanda, e da una feritoia del monitor ritiri la risposta.
Ora il problema è mio, chiamo sul cellulare il marito e cerco di dire le stesse cose che m’ha detto il medico ma cerco altre parole: «È una malattia contro cui la medicina non può fare niente, ma i medici qui faranno di tutto». Lui capisce che è una lotta tra medici e malattia, e dice che si potrebbero trovare altre possibilità cercando altri medici, forse al San Raffaele… Gli spiego che non è un limite dei medici ma della scienza. Capisce, ma tuttavia vuol cambiare ospedale. Nel nuovo ospedale la chemio ha un’efficacia imprevista, i globuli bianchi scendono precipitosamente, parlo col nuovo primario: «Com’è la situazione?», «Ottima». Mi aggrappo alla loro deontologia che impone la verità, se la verità è ottima forse c’è qualche possibilità: «Scusi, previsioni?», «Pessime», «Speranze?», «Nessuna». Chiamo sul cellulare il medico di base: «Ma lei per una settimana diceva che si può fare questo e si può fare quello, negli ospedali dicono che non si può fare niente», «Loro parlano secondo la legge, io mi rifiuto di rassegnarmi». È durata un mese. Un giorno prima della fine la signora ebbe un sospetto, chiese spiegazioni, le dissero la verità. La notte dopo si spense. Se le avessero detto la verità un mese prima, nei termini in cui l’han detta a me, si sarebbe spenta un mese prima. Forse è vero che «questa malattia uccide il paziente nel giro di pochi mesi», ma se la nuova etica dei medici è questa (dire tutto subito, in forma chiara anche se brutale), da profano temo che questa etica uccida il malato nel giro di pochi giorni.
«La Stampa» del 30 maggio 2010

2 commenti:

Fulvio Sguerso ha detto...

Mi sovviene che quando ero bambino, negli anni Cinquanta del secolo scorso, in famiglia venivano disapprovati quei medici che, diagnosticata una malattia mortale come un cancro, "lo dicevano un faccia" al povero malato o alla povera malata. Evidentemente si preferiva tenere all'oscuro il paziente circa la gravità del suo male "per non privarlo della speranza nella guarigione", speranza e fiducia che - come è noto - hanno di per sé una funzione terapeutica, se non altro dal punto di vista emotivo e psicologico. E i famigliari, ovviamente informati della gravità della malattia, dovevano fingersi fiduciosi e prodigarsi nel fugare timori ed eventuali sospetti che dovessero turbare l'animo del poveretto o della poveretta colpita dal male. L'esperienza vissuta da Camon, e da tanti in circostanze analoghe, ci pone di fronte a un grave e non facilmente decidibile problema "deontologico" in senso tretto, ed etico in senso generale. Certamente è condannabile la brutalità con cui, si spera in casi rarissimi, alcuni medici, magari tecnicamente irreprensibili ma freddamente disumani, informano circa i risultati di una biopsia così il paziente come i famigliari; ma come giudicare "l'inganno a fin di bene", o la "bugia pietosa" che nasconda la gravità della situazione all'interessato? E' vero che c'è modo e modo per comunicare anche una diagnosi infausta. Ma più che la diagnosi, la maggior cura e sensibilità umana ed empatica del medico riguarda la prognosi. "Quando il medico comunica la prognosi deve pensare che non sta parlando di ciò che è, ma di ciò che potrbbe essere: del futuro e delle aspettative della persona malata. La prospettiva cambia e il suo obiettivo deve essere di mantenere un benessere e una serenità compatibile con la situazione clinica." Ecco: questo dovrebbe essere il dovere del medico secondo Umberto Veronesi, e credo che su questo ci sia poco da discutere. Altro discorso è la preparazione e la capacità "empatica" innata di ciascun medico. E forse su questo varrebbe la pena di continuare il discorso.

Anonimo ha detto...

Mi trovi pienamente in accordo Fulvio. Personalmente ritengo che sia corretto e dovuto da parte di un medico dire la verità o, meglio, esprimere in modo veritiero la sua interpretazione al paziente. Se mi capitasse qualcosa del genere vorrei sincerità da parte dei dottori, fosse anche per potermi preparare alla morte (se mai sia possibile). Il problema sta nel come viene comunicata espressa la diagnosi. Spesso i medici hanno non poche difficoltà nell'esprimere attenzione, sensibilità, empatia e rispetto per il paziente; forse perché hanno paura dei loro sentimenti, forse per difesa o forse perché sono stati istruiti così. Poi si trovano talvolta medici che posseggono tali qualità, il ché fa molto piacere. Ritengo che un medico debba necessariamente essere sincero con il suo paziente, ma che in questa sincerità debba necessariamente anche essere "umano", dunque rispettarne la sensibilità e la sofferenza, dunque trovare un modo per far si che il paziente non si scoraggi, anzi, magari riuscire a stimolarne la forza e la speranza: non necessariamente di vita o di guarigione, magari anche solo di accettazione della malattia e di rivalutazione della situazione.
Matteo Simonitti