12 maggio 2010

Best seller: la ricetta per il successo

Ecco gli ingredienti necessari per scalare le classifiche letterarie
di Roberto Cicala
Nell’oceano dell’editoria di lingua italiana ogni anno salpano oltre 55 mila va­scelli di carta e inchiostro, tra no­vità e ristampe, di cui soltanto po­chi approdano all’agognato porto della top ten delle classifiche. L’esperienza insegna che non esistono ricette preconfezionate di marke­ting con cui determinare a tavolino un successo: altrimenti i grandi gruppi, potendo investire molto, non sbaglierebbero un colpo. Inve­ce sbagliano, forse più di tutti. Allo­ra che cosa unisce Moccia a Flau­bert? E Pippi Calzelunghe a Il nome della rosa? Dal Seicento del Candi­do di Voltaire, la cui fortuna novecentesca è spesso affidata a edizio­ni d’arte tipografica, al Nome della rosa di Eco che in un primo tempo aveva pensato per il suo manoscrit­to a un’edizione di poche copie nu­merate per i tipi raffinati di Franco Maria Ricci, ogni caso svela un ri­svolto diverso del mondo librario.
Ogni edizione è un prototipo a sé di cui in partenza non si conosce il destino: gli ingredienti e le dosi del­la ricetta cambiano sempre. Una volta è vincente l’immagine di co­pertina, come è stato detto per i due occhi che fissano il lettore dalla sovraccopertina del romanzo del­l’esordiente Paolo Giordano; altre volte è il titolo azzeccato a incurio­sire e La solitudine dei numeri pri­mi è esempio anche di quest’aspet­to paratestuale affidato spesso al­l’editore. E pensare che un titolo può essere modificato dopo il suc­cesso del film tratto dall’opera: è quanto avvenuto per Arancia mec­canica, così intitolata dopo il film di Kubrick, mentre in precedenza il romanzo di Bur­gess era Un’arancia a orolo­geria (traduzione di A Clockwork Orange). Sem­pre per i titoli si potrebbe ricordare il caso del Giova­ne Holden di Salinger, così tradotto dall’originale The Catcher in the Rye («Colui che prende nella segale»). Il boom dei giovani scrittori è altro fenomeno importante nel creare casi editoriali: basti cita­re Brizzi con Jack Frusciante è usci­to dal gruppo sebbene non sia una novità degli ultimi anni; dopotutto anche Bonjour Tristesse della Sagan negli anni Cinquanta fu scritto a 18 anni. Non si può certo dimenticare il caso Saviano con il suo realismo di denuncia a metà strada tra nar­rativa e reportage e, per autori arri­vati al successo soltanto nella ma­turità, Bufalino e Camilleri, que­st’ultimo con il genere giallo, altro filone suscitatore di casi. Comun­que tutte queste opere – da Il gabbiano Jonathan Livingston (rifiuta­to negli Stati Uniti da 18 editrici pri­ma della pubblicazione) il cui volo nei cieli italiani, nella collana Bur, è da decenni inarrestabile, come quello più recente degli Aquiloni di Hosseini, a Il Piccolo Principe dalle grandi tirature – sono, come diceva Calvino delle Città invisibili, «come i sogni, costituite di desideri e di paure». Qui sta il segreto delle sto­rie che abbiamo amato in edizione rilegata e non ci stanchiamo di ri­leggere nelle ristampe in brossura, dove spesso finiscono per vendere anche grazie alle letture a scuola: si pensi a Il Gattopardo oppure a La chimera di Vassalli ambientata in un Seicento vicino e al tempo stes­so distante dal capolavoro di Man­zoni, anch’egli convinto che «da tante cose dipende la celebrità dei libri», che possono anche essere profetici, com’è avvenuto con il Grande Fratello di 1984 di Orwell.
Ogni volume nasconde un mistero.O una magia, come naturalmente Harry Potter: il maghetto di Hogwarts ha battuto ogni record quando nel 2007 i suoi fan hanno fatto balzare al primo posto della classifica italiana, non era mai suc­cesso, l’edizione in lingua inglese: 24 mila copie nei primi due giorni di uscita e poco meno la settimana successiva, rubando la scena al Cacciatore di aquiloni con un’impresa neppure riuscita al Codice da Vinci. Sono successi che creano mode e fanno scattare meccanismi curiosi: l’importante è avere quel li­bro e talvolta è un po’ meno impor­tante leggerlo. La letteratura deve così sottostare alle leggi di un mer­cato librario che sta cambiando: sempre più concentrato e alla cac­cia di best seller internazionali alla portata di sempre meno editori, come ha rilevato di recente Giulia­no Vigini sulla rivista Vita e Pensiero. La verità è che l’editoria può rafforzarsi e creare più qualità soltanto a patto di avere una solida base di lettori: è ciò che manca al­­l’Italia, dove ancora la metà degli a­bitanti non legge neppure un libro l’anno e la vendita della maggior parte dei volumi di deve a un ri­stretto numero di lettori cosiddetti forti. Eppure, so­prattutto nell’ambiente ac­cademico, un grande suc­cesso popolare spesso non viene perdonato; ne ha fat­to le spese anche Susanna Tamaro con Va’ dove ti por­ta il cuore e chissà perché si usa più benevolenza per ex comici come Faletti, che piace a tutte le età. Come è giusto che sia, perché il li­bro appartiene alla società di chi lo legge, parola di Vittorini, che come editor ha difeso sempre i diritti dei lettori. Da altra prospettiva la Bur­bery nella sua Eleganza del riccio cerca di «difendere l’idea che la cul­tura non è proprietà esclusiva di al­cuni, bensì di tutti». Se l’importan­te è leggere, verbo che non dovreb­be mai essere pronunciato all’im­perativo – lo si ripete spesso citan­do Pennac, anche se da noi l’ha scritto prima Rodari –, la promo­zione dei libri deve valere, senza pregiudizi, tanto per i best seller quanto per i libri da poche centi­naia di copie.
«Avvenire» del 12 maggio 2010

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