12 maggio 2010

Ascesa e crisi della modernità

Esce oggi «Per l'alto mare aperto», una storia delle idee con incursioni nella letteratura, nella musica, nella pittura
di Cesare Segre
Il nuovo viaggio di Eugenio Scalfari: dagli illuministi a Nietzsche Novecento Sono Calvino e Montale gli ultimi bagliori di modernità, quelli che ancora illuminano il secolo alle nostre spalle
Davanti a un'opera sapientemente elaborata come Per l'alto mare aperto di Eugenio Scalfari (Einaudi), occorre rendere subito conto della sua struttura. Si tratta di cinque parti, che ritmano l'epoca analizzata da Diderot a oggi, con lo scopo di una «rivisitazione della Modernità, dal momento in cui ebbe inizio fino a quando reclinò la testa tra le braccia della follia», insomma dagli Enciclopedisti a Nietzsche. Di queste parti, due sono dedicate - climax - alla nascita della Modernità e al Romanticismo (14 capitoli), e due - anticlimax - al tramonto della Modernità, al Nichilismo e alla Rivoluzione (9 capitoli); l'ultima parte, concludendo questa storia, contiene, come una tragedia, «il gran finale» (2 capitoli). I capitoli in cui si distribuisce la materia delle cinque parti sono quasi sempre intitolati, ma con formule fantasiose, a scrittori e pensatori o ad opere e personaggi famosi, qualche volta a temi, come «la potenza di Eros» per Freud. L'epoca, insomma, è quella che si ascrive alla Modernità, o anche al Relativismo, dominata dallo spirito laico e dal pensiero libero, e che ha il suo culmine in Goethe, non a caso il più europeo degli autori qui studiati: Goethe «piantò a fondo» la Modernità «nel terreno affinché resistesse il più a lungo possibile alle intemperanze dell'animale e alla gelida evanescenza degli angeli». Meno si nomina l'Illuminismo, termine appropriato, se preso in senso stretto, solo per la fase iniziale del movimento, anche se continua ad essere un modo di vedere caratterizzante, e come tale evocato spesso da Scalfari. Il libro non è un saggio di storia delle idee in senso stretto, anche se la storia delle idee lo sostanzia. Si noti infatti che, sebbene si parli ampiamente di filosofi e filosofie, ci si occupa anche e più di opere letterarie, nelle quali le idee si concretizzano ed entrano in dialettica. Storia delle idee nella storia letteraria. Scalfari parla, a questo proposito, di «racconto del pensiero». Né mancano stimolanti allusioni alla musica e alla pittura. In più, un'immagine ricorrente più volte in queste pagine ci porta ben lontani dall'epoca affrontata: l'immagine di Atena e di Ulisse, soprattutto dell'Ulisse dantesco, già alluso nel titolo. E Ulisse, protetto da Atena, «rappresenta il mito dell'intelligenza, della fedeltà al proprio destino, del divino immanente nell'uomo e della sua capacità ed anzi della sua necessità di trascendersi per dare un senso alla propria vita». Un archetipo universale, che la Modernità ha cercato di realizzare. Torniamo ancora un momento alla struttura. Questo libro poteva scivolare verso la trattatistica. Scalfari, che sa abbandonarsi alla vocazione di scrittore, l'ha evitato ricorrendo, secondo i casi, a un ventaglio d'invenzioni schiettamente narrative: all'inizio c'è un lungo incontro e dialogo con l'ombra di Diderot, che si conclude con una visita al castello di Montaigne. Poco dopo, «assistiamo» al ritorno di Ulisse ad Itaca, e all' eccidio dei Proci; l'eroe rivela in sé quell'intreccio di grandezza e ferocia, d'intelligenza e animalità che in varia misura è comune a tutti noi. Più avanti, lo scrittore s' identifica con Marcel bambino, o narra in prima persona l'incontro di Swann con Odette. Alla letterarietà del volume partecipano poi le frequenti citazioni di brani di poesia. Per «movimentare un viaggio culturale già di per sé variegato», Scalfari crea spesso una suspense teoretica, analizzando coppie di scrittori-pensatori, come Diderot e Voltaire, oppure Tolstoj e Dostoevskij, o mettendo a confronto coppie di critici, come Sainte-Beuve e Fumaroli a proposito di Chateaubriand, o De Sanctis e Croce per Leopardi; o ancora filtrando la riflessione di un pensatore attraverso quella di un altro, come quando analizza Hegel tenendo conto di Kojève. Questi espedienti utilizzano, in varie forme, un metodo contrastivo che risulta spesso chiarificatore. L' ampia ricostruzione storica organizza analisi di singoli autori od opere in funzione del disegno generale, che si chiarisce progressivamente al lettore. Le «scoperte», per così dire, che ci vengono suggerite e illustrate dipendono appunto dall'incontro fra una parabola personale e una parabola generale. Un esempio eccellente è dato da Rilke, maestro nel «raccontare l'indescrivibile e l'indicibile», che rivela analogie inaspettate («spiazzanti», dice Scalfari) con Proust, con Joyce e con Kafka. Belle, ad esempio, le pagine sui Quaderni di Malte Laurids Brigge, «capolavoro difficilmente eguagliato di (...) vite strozzate, escluse, melanconiche, avvolte in un'aura di triste impotenza»; e anche luminosa anticipazione della Recherche. L'impegno speculativo, in un'opera d'assieme, ha un'intensità variabile. Al livello più alto, colpiscono, fra tante, le pagine su Marx, ben consapevoli degli «errori tragici» e delle «tragiche illusioni» inclusi nella sua eredità. Scalfari non ama Marx profeta, né Marx utopista; apprezza invece il filosofo, fondatore di un nuovo materialismo, e il suo modo di «leggere la storia e lo sviluppo delle società attraverso l'evoluzione delle forze produttive e del capitale»; perciò anche la sua capacità di raccontare le masse contadine inglesi alla conquista della terra, e la formazione di una classe politica campagnola, in lotta pro o contro i dazi sul grano e, nel secondo caso, su posizioni precocemente liberiste. Gli piace il Marx che celebra l' Assemblea Costituente nata dalla Rivoluzione francese e il trionfo della borghesia e apprezza persino Richelieu e Mazarino, per la difesa dello Stato centralista. E sullo Stato e sui suoi rapporti con la società civile cita affermazioni sorprendenti. Il «gran finale» dovrebbe naturalmente concludersi con Nietzsche. Scalfari invece aggiunge ancora un capitolo su Italo Calvino e su Montale, visti come «ultimi bagliori di modernità che hanno ancora illuminato il secolo che sta alle nostre spalle». Non è un «lieto fine», ma almeno una consolazione finale. Soltanto qualche cenno alle «invasioni barbariche» da cui il mondo d' oggi è devastato. Sarebbe interessante vedere i collegamenti fra il crepuscolo degli dèi di Nietzsche e l' atonia morale, la rassegnazione e il conseguente cinismo che stanno diventando gli atteggiamenti dominanti nel mondo contemporaneo. Ma questo, che dall' «alto mare aperto» ci farebbe precipitare nella Palude stigia, è un tema che interessa, con il suo teratologico sviluppo, il giornalista più che lo storico delle idee. E Scalfari, come giornalista, lo affronta quotidianamente.
Esce oggi in libreria il saggio di Eugenio Scalfari Per l'alto mare aperto (Einaudi, pp. 286, € 19,50), in cui l'autore ripercorre le tappe dell'affermazione e della crisi del pensiero moderno. Nato a Civitavecchia nel 1924, Eugenio Scalfari è uno dei personaggi di maggior spicco del giornalismo italiano. Nel 1955 fu tra i fondatori dell'«Espresso», di cui è stato direttore, e nel 1976 ha fondato «la Repubblica», che ha diretto per vent'anni, fino al 1996. È inoltre autore di diversi volumi, tra cui La sera andavamo in Via Veneto (Mondadori), Incontro con Io (Rizzoli), L'uomo che non credeva in Dio (Einaudi).
«Corriere della Sera» del 7 maggio 2010

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