21 aprile 2010

Quando la medicina abbraccia il mistero della persona

La lezione degli stati vegetativi
E' accaduto a tre famiglie di persone in stato ve­getativo: un team medico che lavora in un centro di avanguardia per gli studi sul coma, in Belgio, è venuto in Italia, e per di più completa­mente a titolo gratuito, su richiesta dei familiari di persone per le quali le diagnosi erano ' senza speranza', per esaminarne le condizioni. Risul­tati? Qualcuno sorprendente, complessivamen­te un’esperienza preziosa. Dovrebbe sempre funzionare così, il rapporto medico-paziente, nel ventunesimo secolo, quel­lo del poderoso progresso medico-scientifico: u­na corretta informazione sui media, il contatto dei familiari con gli specialisti, l’arrivo degli stu­diosi, l’applicazione di protocolli medici inno­vativi, e qualche volta anche una diagnosi più a­deguata. Sempre, comunque, uno scambio pro­ficuo di conoscenze fra gli addetti ai lavori, dagli studiosi del settore a chi si occupa dell’assisten­za quotidiana. Nessuna guarigione improvvisa, intendiamoci, ma nuove diagnosi e soprattutto un approccio diverso nei confronti di persone che, nella mi­gliore delle ipotesi, sono ben curate ed assistite nel quotidiano ma ' abbandonate' scientifica­mente. D’altra parte, per quale motivo un giova­ne studioso di medicina do­vrebbe impegnarsi a osser­vare e capire le condizioni di una persona che da quat­tordici anni ( come uno dei tre pazienti visitati) non dà segni di consapevolezza di sé? Persone con cui non si riesce a comunicare, a sta­bilire un contatto? Che illu­stri scienziati non esitano a definire «vegetali», «né mor­ti né vivi » , con una « vita ar­tificiale » , e potremmo con­tinuare nell’elenco, tanto lungo quanto offensivo di e­spressioni ed epiteti buoni solo a descrivere una vita non più degna di essere vissuta, e quindi an­cor meno di essere compresa, studiata e accom­pagnata?
Il motivo è semplice, e lo hanno ben capito co­loro che hanno incontrato medici e studiosi ( co­me quelli venuti dal Belgio, ma non solo) che di questo si occupano: quelle in stato vegetativo so­no innanzitutto persone, pienamente persone. E come tali vanno trattate.
Esseri umani in uno stato ancora poco cono­sciuto, dei quali sappiamo solo che con loro non riusciamo a stabilire un contatto come si fa abi­tualmente: con la parola, lo sguardo, i gesti. Non siamo in grado di escludere ma neppure di ipo­tizzare, e tanto meno di immaginarne le sensa­zioni, i sentimenti, i pensieri, il grado di coscienza e di consapevolezza di sé.
Vegliano e dormono, respirano come noi, e il re­sto è mistero. Un mistero che nuove conoscen­ze stanno cercando di sondare, e i primissimi ri­sultati sono promettenti. Lo sviluppo delle neu­roscienze – di queste stiamo parlando – inizia ad aprire una finestra affacciata su un mondo fino­ra buio e inaccessibile, quello delle persone con gravi disturbi della coscienza, coloro che si tro­vano in stato vegetativo: la tecnologia e le cono­scenze necessarie per i nuovi percorsi di diagnosi sono a portata di chiunque intenda servirsene, non ci sono ostacoli insormontabili. Non si trat­ta di alimentare illusioni, ma di incoraggiare for­temente gli studi nel settore, perché solo da que­sti potranno venire – forse, un giorno – percorsi riabilitativi o modalità impreviste per relazio­narsi e comunicare con persone colpite da disa­bilità profonde ed estreme. Risultati che arriveranno solamente a condizio­ne che ci si ricordi sempre di avere di fronte uo­mini e donne come noi, vivi, con la nostra stes­sa dignità, tutta intera. Misteriosamente, in­comprensibilmente, ma pienamente persone.
«Avvenire» del 21 aprile 2010

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