22 aprile 2010

Leopardi tra l'Islanda e i vulcani

di Luigi Testaferrata
Evidentemente fu una delle pochissime cose che sfuggirono a Giacomo Leopardi quando, nel «soggiorno disumano, intra gli affanni» di Recanati scrisse fra il 21 e il 30 maggio 1824 l’operetta morale intitolata «Dialogo della Natura e di un Islandese». Se non gli fosse sfuggita, se in uno degli innumerevoli volumi che saccheggiava per liberarsi dalla noia del vivere avesse letto il nome del vulcano – Eyalafiallajokull – che dal 16 di questo aprile riempie di polveri nere l’Europa facendola apparire come un cimitero di aeroporti e di stazioni ferroviarie, chissà quante variazioni linguistico­filosofiche avrebbe inventato dentro la prosa desolata e dolente delle battute amarissime scambiate tra l’Islandese che cerca di sfuggirla e la Natura che lo perseguita.
L’unica volta che l’Islandese disperatamente in fuga parla della sua isola che lo costringe a cercare barlumi di pace in ogni parte del mondo è quando dice: «... le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degli incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi». Se, invece del quasi familiare e domestico nome di Ecla, Leopardi avesse avuto a disposizione quello di Eyalafiallajokull, che pare un urlo di guerra fatto apposta per creare spavento, chissà a quali toni micidiali avrebbe fatto arrivare la sua prosa costruita con parole in cui risuonano sempre le idee.
Ma fu soltanto un’occasione momentaneamente perduta. Bastò che dodici anni più tardi, nel 1836 quando era ospite dell’amico Ranieri nella villa Ferrigni di Torre del Greco, il «formidabil monte sterminator Vesevo» (Vesevo, non Vesuvio che sarebbe stato più dolce: e «formidabil sterminator»!) entrasse in attività, perché gli tornassero a mente le terribili giornate di quasi mille e ottocento anni prima quando Pompei e Ercolano sparirono sotto le nuvole di lapilli e di ceneri. Allora la potenza della natura gli apparve veramente incredibile, dal vocabolario con cui creò «La ginestra» scomparvero i nomi degli animali diurni e pacifici (armenti, volpi, augelli, agnelle, colombe, greggi, destrieri, passeri, cani) che avevano popolato le poesie e le prose precedenti ed entrarono violentemente i nomi degli animali notturni, lugubri, sotterranei (serpi, conigli selvatici, formiche, pipistrelli), l’unica verità gli apparve quella contenuta nel passo del Vangelo di Giovanni scelto come epigrafe del suo «canto» («E gli uomini amarono piuttosto le tenebre che la luce»), l’unica speranza fu quella di uscire dal buio e vivere nello splendore del sole, fuori dalla nuvola nera, come facevano le selve nelle ginestre nate sulle rovine.
«Avvenire» del 22 aprile 2010

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