22 aprile 2010

Le «falle fatali» dell’evoluzione

Continua il dibattito sul libro di Piattelli Palmarini e Fodor dedicato agli errori dei neodarwinisti. Crolla il primato della «selezione naturale». Interviene Facchini
di Fiorenzo Facchini
Chi pensasse che l’opera di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor, Gli errori di Darwin, in uscita in questi giorni da Feltrinelli, metta in discussione l’evoluzione (e alcuni si sono af­frettati a dirlo) sbaglierebbe di grosso; altrettanto chi pensasse che potesse leggersi in chiave crea­zionista. Gli autori stessi si preoc­cupano di chiarire che le loro criti­che non vanno confuse con posi­zioni creazioniste o del «disegno intelligente» e si dichiarano atei convinti. Il merito dell’opera è di a­vere sollevato questioni scientifi­che sul neodarwinismo sviluppan­do il dibattito sui meccanismi bio­logici della evoluzione della vita.
Una discussione che è sempre ri­masta aperta, ma troppo spesso deviata dalla presentazione dell’e­voluzione in alternativa alla crea­zione, una posizione da cui molti faticano a schiodarsi. La critica de­gli autori non riguarda il fatto del­l’evoluzione, ma il ruolo della sele­zione naturale che è centrale nel pensiero di Darwin, mentre non dovrebbe considerarsi tale. A metà del secolo scorso c’è stata l’elabo­razione della teoria sintetica della evoluzione (o neodarwinismo) alla luce delle scoperte della genetica che vede nelle mutazioni le varia­zioni spontanee di cui parlava Darwin, dovute a errori nella repli­cazione del Dna e dell’Rna, quindi a eventi casuali. Si è affermato il paradigma evolutivo che riconosce quattro grandi fattori della evolu- zione: le mutazioni, la selezione naturale, il drift genetico, il flusso genico, e attribuisce un ruolo guida alla selezione naturale. Tutto que­sto ben si adatta alla genetica delle popolazioni – come ha richiamato anche di recente Luigi Cavalli Sfor­za sulla «Repubblica» – ed è un modello valido nello studio delle variazioni che si osservano nel­l’ambito della specie e per la for­mazione di nuove specie o per se­guire i cambiamenti nel mondo dei batteri. La sua estensione per spiegare tutto il processo evolutivo, compresa la formazione dei grandi
phila evolutivi, appare una sempli­ficazione eccessiva e ha sempre sollevato in non pochi scienziati delle riserve. C’è la dimensione tempo, che pone dei limiti alla for­mazione di caratteri complessi con la pura casualità delle mutazioni, sia pure vagliate dalle mutevoli condizioni ambientali. C’è la con­vergenza dello sviluppo di certe strutture in serie evolutive lontane nello spazio e nel tempo che viene messa in evidenza nella storia della vita sulla terra. Le riserve trovano una conferma alla luce delle sco­perte della biologia evolutiva dello sviluppo (evo-devo), cioè dagli stu­di degli effetti di modificazioni ge­netiche praticate sperimentalmen­te nel corso dell’ontogenesi di varie specie. Le nuove ricerche portano l’attenzione sulla costanza di certe strutture (ad esempio il numero delle zampe nelle diverse specie di scolopendre è sempre dispari), sul­la identificazione di geni regolatori non di proteine, ma di strutture complesse (geni master), che com­paiono più volte in modo conver­gente e indipendente nel corso dell’evoluzione (come per lo svi­luppo dell’occhio o per i segmenti del corpo negli Artropodi come nei Vertebrati). Si osserva una notevole invarianza dei mattoni genetici della evoluzione. Vi sarebbero vin­coli imposti da correlazioni di svi­luppo. Il successo per la sopravvi­venza avrebbe dei limiti che non sono solo quelli ambientali di ordi­ne selettivo, ma so­no precedenti, im­posti dalla struttura interna dell’organi­smo. Non tutto è casuale nel senso comunemente in­teso, non tutto è re­golato dalla sele­zione naturale.
Dunque la selezio­ne naturale non a­vrebbe avuto un ruolo guida, come sostenuto dal neodarwinismo, non potrebbe es­sere più vista come il demiurgo della evoluzione. Questa posizione è chiaramente illustrata nel volu­me di Piattelli Palmarini e Fodor al­la luce di varie ricerche di biologia evolutiva dello sviluppo e di altri studi compiuti negli ultimi anni.
Gli studiosi riconoscono anche che la selezione non è in grado di spie­gare programmi comportamentali innati complessi, come quelli di certi insetti, e neppure la morfoge­nesi. Si dimostrano aperti ad altre vedute (quali l’epigenesi e le possi­bili interazioni fra organismi e am­biente) e non esitano a parlare di 'falle fatali' della teoria della sele­zione naturale. Un sasso nello sta­gno gettato da due scienziati co­gnitivisti di formazione darwiniana con grande coraggio e onestà intel­lettuale, pur sapendo di andare controcorrente nel sollevare criti­che severe alla teoria della selezio­ne naturale, ritenuta da gran parte dei neodarwinisti come spiegazio­ne adeguata di tut­to il processo evo­lutivo. Per la verità anche altri, fra cui chi scrive, hanno più volte espresso l’opinione che il neodarwinismo ri­chieda delle inte­grazioni, se ci si porta oltre la mi­croevoluzione. La discussione riguar­da il ruolo della se­lezione naturale o, se si vuole, la dimensione adattati­va, che non può essere l’unica chiave di lettura e non sarebbe neppure il fattore più importante dell’evoluzione, anche se non è mai stato negato dai darwinisti che nella evoluzione possano formarsi caratteri senza un valore adattati­vo. Secondo lo zoologo Alessandro Minelli (fra i maggiori esperti italia­ni in questo campo), le nuove ve­dute di evo-devo non sono un’alter­nativa alla teoria della evoluzione per selezione naturale, giacché la selezione naturale lavora su ciò che è possibile e i limiti al possibile so­no dettati dalle leggi biologiche dello sviluppo (cfr. Il Sole 24 Ore , 18 aprile). Nessuno può negare che la selezione abbia avuto un ruolo im­portante, Ma esso viene ridimen­sionato alla luce dei nuovi studi. La selezione non è stata l’unico moto­re della evoluzione o forse si è rea­lizzata con intensità diverse nel corso dell’evoluzione in relazione alle novità genetiche emerse nel­l’ontogenesi (che possono deter­minare anche nuovi corsi evoluti­vi), un ruolo che comunque si è svolto su quello che veniva offerto dallo sviluppo ontogenetico e con adeguate interazioni tra fattori in­terni e esterni. Chi poi volesse uti­lizzare le nuove vedute per conte­stare l’evoluzione o per aprire a in­terventi creazionisti per la com­plessità delle strutture si mettereb­be fuori strada. La crescita della complessità delle forme di vita va spiegata con gli strumenti conosci­tivi che la scienza ci offre e se non siamo pienamente soddisfatti si dovrà riconoscerlo e ricercare an­cora. Modalità nuove e vincoli di sviluppo, regole d’ordine, auto-or­ganizzazione: una natura da sco­prire nel suo funzionamento che si è realizzata nel tempo per delle sue potenzialità e con razionalità.
Ma anche le potenzialità e la razio­nalità della natura richiedono una causa adeguata che non può essere nella natura, una prospettiva che Fodor e Piattelli Palmarini non considerano, anzi escludono, ma di cui non si può fare a meno se si allarga la riflessione a un piano di ordine filosofico.
«Avvenire» del 22 aprile 2010

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