25 aprile 2010

Come si trasforma il rivale politico in nemico assoluto

Una raccolta di saggi sulla «delegittimazione» attraverso l’uso strumentale dei valori nazionali e della vita privata
di Alessandro Gnocchi
Assuefatti ai colpi sotto la cintola tipici della nostra politica, si rimane di stucco nell’apprendere che fino al 1980 la parola «delegittimazione» non era contemplata dai dizionari della lingua italiana. Eppure la delegittimazione, che trasforma l’avversario in nemico, è la chiave di volta del dibattito pubblico almeno a partire dal 1992. Il termine diventa infatti lessico comune nei giornali in coincidenza con l’inchiesta Mani pulite. Non è un caso: la delegittimazione riflette lo stato di crisi politica, il conflitto istituzionale o l’incerta transizione di regime. In questo senso, pratiche delegittimanti sono sempre state nel ventaglio delle scelte degli uomini politici di ogni epoca. Ma in Italia il problema è quanto mai attuale, anche perché i tentativi di delegittimare il rivale hanno invaso un territorio a lungo considerato tabù dalle democrazie liberali: la sfera privata.
Queste e molte altre informazioni sono contenute in Il nemico in politica. La delegittimazione dell’avversario nell’Europa contemporanea, un lavoro a più mani curato da Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza per i tipi del Mulino (pagg. 240, euro 19). I saggi hanno un taglio accademico e sono molto vari. Nel complesso offrono una visione preoccupante: quando si gioca troppo con la retorica e per motivi di bottega partitica si spinge troppo il pedale della delegittimazione, di solito si ottengono risultati disastrosi: l’ingessamento della crisi istituzionale, come minimo; una atmosfera da guerra civile larvata e inespressa, come massimo. Da noi, c’è da temere, entrambe.
Cosa distingue l’«avversario» dal «nemico»? L’avversario rappresenta interessi dannosi per la comunità, ma non contrari ai suoi valori fondanti. Il nemico, invece, nega in modo palese o nascosto tali valori. A questo punto, come d’incanto, si chiarisce l’ossessione della sinistra per la sacra Costituzione, intoccabile per definizione, nonostante gli stessi padri costituenti (anche quelli del mondo comunista e azionista) la considerassero perfettibile e riformabile. La difesa della Carta è un’operazione retorica e simbolica. Vuol dire: voi altri del centrodestra volete toccare i valori su cui si fonda lo Stato, ergo le vostre posizioni sono «illegittime»; siete un pericolo per la democrazia e non dovreste governare. In un colpo solo si crea il nemico politico e, nascondendosi dietro al feticcio della Costituzione, si evita il «pericolo» di scoprire le proprie carte. Forse perché celano un bluff, un desolante vuoto di idee, oppure un disaccordo di fondo interno allo schieramento progressista.
Le tattiche per delegittimare l’avversario sono cambiate nel corso dei decenni. Nel primissimo dopoguerra, Democrazia cristiana e Partito comunista, pur guardandosi in cagnesco, si trattarono da avversari, e non da nemici. Fu la campagna elettorale del 1948 a radicalizzare la contrapposizione e a cambiare le carte in tavola. «L’obiettivo - scrive Cavazza - non era dimostrare gli errori delle reciproche scelte politiche ma sottolinearne l’alterità rispetto al sistema nel suo complesso». La Dc puntava sul legame dei comunisti con Mosca, contrario agli interessi della nazione. Il Pci puntava sul legame dei democristiani con gli Stati Uniti, giudicato contrario agli interessi della nazione. De Gasperi era definito «austriaco», «cittadino del Vaticano» e «succube dell’America». Togliatti era un servo dei russi agli ordini di Stalin.
Oggi la delegittimazione (che a noi, in Italia, sembra unilaterale: è la destra a subirla) passa attraverso la polemica sulla Costituzione, ma poggia anche su una novità: il giudizio moralistico sulle abitudini del leader, «reo» di atti indegni del ruolo ricoperto. A cosa è dovuto questo slittamento del dibattito? Fabrice D’Almeida, nel libro, lo spiega così: «L’indebolimento delle frontiere ideologiche abbassano il livello della contesa politica, consentendole di occuparsi anche di piccole questioni private». E poi c’è l’evoluzione tecnologica: telecamere e teleobiettivi ti raggiungono ovunque. Qualche responsabilità ce l’ha la politica stessa, che ha sposato il linguaggio della pubblicità offrendo agli elettori anche una rassicurante finzione di vita privata dei candidati.
Il fenomeno dello sputtanamento tramite intrusione nella sfera privata, con corollario di bufale spacciate dai media, è mondiale. D’Almeida ricorda i casi recenti riguardanti Clinton, Chirac, Sarkozy. Però «in Italia questo utilizzo tattico della denigrazione mediatica è corrente. Gli attacchi rivolti contro Silvio Berlusconi costituiscono un buon esempio». Anche in questo caso la persecuzione si rivela strumentale. E porta niente di buono. È l’istituzione, alla lunga, a uscirne logorata, non l’uomo che la incarna. E la crisi si ingarbuglia ancora di più. Chissà se anche alla Repubblica, quotidiano autoproclamatosi guardiano della pubblica morale, hanno ricevuto il libro.
«Il Giornale» del 25 aprile 2010

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