30 aprile 2010

Chi dà i voti (e li sbaglia)

La crisi della Grecia
di Massimo Gaggi
«La grande crisi della finanza globale? Il frutto dell’esplosione di un sistema finanziario- ombra cresciuto come un gigantesco party alcolico senza regole» pieno di ragazzi ubriachi «fatti entrare dalle agenzie di "rating" che all’ingresso distribuivano carte d'identità false». Così Paul McCulley di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, descrive le genesi di una tempesta che, nel 2008, ha portato l’intero sistema creditizio mondiale sull’orlo dell’autodistruzione. I colpevoli sono molti, ma un ruolo particolare l’hanno avuto strane creature private con una funzione pubblica: le agenzie che con i loro voti decretano l’affidabilità di un titolo obbligazionario emesso da una società, ma anche dei titoli del debito pubblico di decine di Stati sovrani. Dovevano essere giudici competenti e imparziali e invece hanno promosso (a raffica) e bocciato (quasi mai) sulla base più della loro convenienza privata che di valutazioni oggettive. Due anni fa, concedendo il massimo dei voti alle obbligazioni-salsiccia di moda a Wall Street, hanno aperto la strada verso il disastro. Oggi, con bocciature intempestive del debito di alcuni Paesi europei, rischiamo di rendere ingestibile una crisi che da Atene si sta già propagando fino alla penisola iberica. Bocciature, peraltro, dettate più da una volontà di autoconservazione e dal timore di essere accusati di inerzia che dal cambiamento di dati che erano e sono sotto i loro occhi.
Un downgrading ha senso se l’agenzia, grazie alla sua professionalità, a una superiore capacità d’analisi, capisce in anticipo che la posizione di un Paese si sta deteriorando. Intervenire quando i numeri sono già noti in tutta la loro gravità e il mercato ha già reagito, chiedendo maggiori interessi sui titoli di Stato emessi da Paesi con conti pubblici in disordine, aumenta solo la confusione e rischia di vanificare i tentativi dei governi di correre ai ripari. Un giudizio competente e indipendente sull’affidabilità degli investimenti sicuramente serve, ma si può continuare a lasciare una funzione pubblica tanto delicata nelle mani di società private che le gestiscono in modo così irresponsabile? Non è certo il caso di nazionalizzare questa funzione, ma non conforta di certo vedere le banche centrali o agenzie federali come la Sec (l’istituto che vigila sulla Borsa Usa)—che sicuramente dispongono di professionalità interne e autorevolezza superiori a quelle delle agenzie di «rating»—affidarsi a loro per i giudizi sulla base dei quali vengono selezionati gli investimenti più rilevanti. Certo, lo fanno in base alle regole che i governi si sono dati e che sono rispecchiate anche dagli accordi di Basilea. Forse è ora di prendere atto che non è più possibile tenere in piedi un sistema di «rating » diffusosi a partire dagli anni 70, limitandosi a piccoli correttivi.
Da anni si discute dei conflitti d’interesse che affliggono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, i tre oligopolisti del «rating». All’inizio di questo decennio la legge americana Sarbanes-Oxley ha cercato di regolarli più strettamente dopo lo scandalo Enron i cui titoli venivano ancora giudicati un buon investimento quattro giorni prima della sua bancarotta. Correttivi inutili, vista la facilità con la quale l’aurea «tripla A» è stata concessa ancora nel 2006-2007 a una marea di emissioni di titoli basati su mutui «subprime», ad alto rischio. La Commissione del Congresso Usa che venerdì scorso ha «torchiato» in un’audizione i capi di queste agenzie, accusati di aver anteposto il profitto e il volume del giro d’affari delle loro società al rigore delle analisi, ha accertato che il 93 per cento dei titoli che avevano ricevuto il massimo voto di affidabilità, sono stati declassati a «spazzatura». La gravità della crisi del debito sovrano di un numero crescente di Stati richiede un monitoraggio serio e azioni di stabilizzazione, non l'agitazione di agenzie che sembrano muoversi, ormai, come variabili impazzite.
«Corriere della Sera» del 30 aprile 2010

Tutti gli errori di Onfray su Freud

Bernard-Henri Lévy contro le critiche «ridicole» al maestro della psicanalisi
di Bernard-Henri Lévy
La polemica fra gli intellettuali dopo l’uscita del libro pieno di accuse all’autore dell'«Interpretazione dei sogni»
Michel Onfray si lamenta di ricevere critiche senza essere letto? Ebbene, l’ho quindi letto. L’ho fatto sforzandomi di mettere da parte, per quanto possibile, i vecchi cameratismi, le amicizie comuni, come anche la circostanza — ma questo era evidente — che entrambi siamo pubblicati dallo stesso editore. A dir la verità, sono uscito da questa lettura ancora più costernato di quanto lasciassero presagire le recensioni di cui, come tutti, ero venuto a conoscenza. Non che per me, come invece per altri, l’«idolo» Freud sia intoccabile: da Foucault a Deleuze, a Guattari e ad altri ancora, molti se la sono presa con lui e io, pur non essendo d’accordo, non ho mai negato che abbiano fatto avanzare il dibattito. E nemmeno sono il risentimento anti-freudiano, la collera, addirittura l’odio, come ho letto qua e là, a suscitare il mio disagio alla lettura del libro Crépuscule d’une idole.
L’affabulation freudienne (Grasset): si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell’ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l’ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d’une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose; e di adottare — il che è forse la cosa più grave — il famoso «punto di vista del cameriere», di cui nessuno ignora, a partire da Hegel, che raramente sia la persona più adatta a giudicare un grand’uomo o, peggio ancora, una grande opera... Banale: come unico esempio, cito la piccola serie di libri (Zwang, Debray-Ritzen, René Pommier) ai quali Onfray ha l’onestà di rendere omaggio, oltre ad altri testi, alla fine del volume, che già difendevano la tesi di un Freud corruttore dei costumi e foriero di decadenza.
Riduttivo: ci vuole un bel fegato per sopportare, senza ridere o senza spaventarsi, l’interpretazione quasi poliziesca che Onfray dà del bel principio di Nietzsche, che pure conosce meglio di chiunque altro, secondo cui una filosofia è sempre una biografia criptata o mascherata (grosso modo: se Freud inventa il complesso di Edipo è per dissimulare i pensieri pieni di rancore che nutre nei confronti del suo gentile papà e per riciclare le turpi pulsioni che prova verso sua mamma). Puerile: il rimpianto di non aver trovato, nelle «seimila pagine» delle opere complete di Freud, la «schietta critica del capitalismo» che avrebbe riempito di soddisfazione Michel Onfray, creatore dell’università popolare di Caen. Pedante: le pagine in cui Onfray si chiede con gravità quali debiti inconfessabili il fondatore della psicanalisi avrebbe contratto, ma senza volerlo riconoscere, verso Antifone di Atene, Artemidoro, Empedocle o verso l’Aristofane del Simposio di Platone. Ridicolo: è la pagina in cui, dopo oscure considerazioni sul probabile ricorso di Freud all’onanismo, poi un non meno curioso tuffo nei registri degli alberghi, «la maggior parte lussuosi», dove il viennese avrebbe protetto, per anni, i suoi amori colpevoli con la cognata, Onfray, trascinato da uno slancio da poliziotto della Buoncostume, finisce con il sospettarlo di aver messo incinta la suddetta cognata che, all’epoca, era giunta a un età in cui questo tipo di lieto evento si verifica, salvo nella Bibbia, molto raramente.
Il complotto: come nel Codice da Vinci (ma la psicanalisi, secondo Onfray, non è forse l’equivalente di una religione?), il complotto è l’immagine vagheggiata di giganteschi «container» di archivi sotterrati, in particolare, nelle cantine della Biblioteca del Congresso a Washington, alle cui porte veglierebbero milizie di templari, freudiani cupidi, feroci, astuti come il loro venerato maestro. Infine, il punto di vista del cameriere: è il metodo, sempre bizzarro, che consiste nel partire dalle presunte piccole debolezze dell’uomo (l’abitudine freudiana di scegliere egli stesso — chissà perché! — il nome di battesimo dei figli «sulla base della propria mitologia personale»), dalle sue non meno presunte stranezze (sete di gloria, ciclotimia, aritmie cardiache, tabagismo, umore oscillante, piccole prestazioni sessuali, paura dei treni: non invento nulla, questo catalogo di «tare» si trova nel libro); eventualmente dai suoi errori (come la dedica a Mussolini, da sempre nota, ma che Onfray sembra scoprire e che, estratta dal contesto, lo fa sprofondare in uno stato di grande frenesia) per dedurne la non validità della teoria nel suo insieme. Onfray raggiunge il colmo quando, alla fine del libro, ricorre addirittura al testo di Paula Fichtl, cioè ai ricordi di colei che fu la cameriera, per cinquant’anni, della famiglia Freud e poi dello stesso Sigmund, per denunciare le relazioni dell’autore di Mosè e il monoteismo con il fascismo austriaco. Tutto questo è desolante. Mi riesce penoso, in tutti i sensi del termine, ritrovare in tale tessuto di banalità, più stupide che malvagie, l’autore di libri — fra gli altri Il ventre dei filosofi (Rizzoli, 1989) — che vent’anni fa mi erano parsi così promettenti. La psicanalisi, che ha visto ben altro, si rimetterà. Quanto a Michel Onfray, ne sono meno sicuro.
(traduzione di Daniela Maggioni)
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2010

Siamo tutti gattopardi

Sciascia narra lo sbarco degli americani in Sicilia, quando anche gli ex fascisti corsero a festeggiare la «repubblica stellata». Un vecchio vizio nazionale
di Leonardo Sciascia
La sera del 9 luglio 1943, nel caffè che ormai da mesi il proprietario apriva soltanto per amore della conversazione, altro non offrendo agli avventori che gazose, il signor Chiarenza, impiegato municipale, accese la radio, girò la lancetta velocemente cogliendo un orizzonte di note e di sillabe, d’improvviso la fermò su una parola italiana, una frase, un discorso. La voce era lontana, soffocata; sembrava galleggiare su un mare in tempesta. Ma quel che diceva della guerra, del fascismo, di Hitler sembrava abbastanza sensato, abbastanza vero. Il signor Chiarenza approvava muovendo la testa, gli altri si facevano attenti. Il più pronto a prendere coscienza di quel che stava accadendo fu il brigadiere. Una prontezza professionale. Si alzò e spense la radio con un colpo secco; girò terribile sguardo sulle facce degli avventori, lo fermò su quella, innocente e sorpresa, del signor Chiarenza. «Lei ha preso radio Londra» disse, sibilando collera. «Davvero? » fece il signor Chiarenza. «Radio Londra» disse ancora il brigadiere. «Non lo sapevo» disse l’altro. «Non lo sapeva, ma approvava» disse il brigadiere. «Per approvare, approvavo»; ammise il signor Chiarenza «però credevo fosse una stazione italiana». «Una stazione italiana!» il brigadiere quasi soffocava. «E le cose che ha sentito lei crede che potessero venire da una stazione nostra?». «Le abbiamo sentite tutti» precisò il signor Chiarenza. «Già» disse il brigadiere: e nella sua espressione la collera si ritirò per cedere alla preoccupazione, all’indecisione. «Se vuole» offrì con angelica comprensione il signor Chiarenza «posso rompere la radio». Il brigadiere si precipitò fuori. Così a R., paese a una ventina di chilometri dal mare di Porto Empedocle e a poco più da quello di Licata, qualche ora prima che le forze alleate mettessero piede sulle spiagge siciliane, il fascismo finiva.
E come tutti sentissero preciso avvertimento dell’ora che stava per scattare, non è possibile capire attraverso una giustapposizione di elementi concreti. Si sentiva, ecco tutto. E gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire comemai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati non fosse per tanti siciliani un segreto. Verso la mezzanotte, dai balconi e dalle terrazze del paese, tutti quelli che vi si attardavano per cogliere, dopo l’affocata giornata, i freschi refoli notturni, videro dalla parte di Licata il cielo farsi luminoso. Pareva che la luna si fosse schiantata alla marina, che continuasse a bruciare del suo tranquillo fuoco bianco sull’orlo dell’isola. Gli americani stavano sbarcando, ne fummo tutti certi. E si aveva il senso che quella luce lontana fosse come di una festa; che gli americani— gli zii, i nipoti, i cugini d’America — facessero splendere la volta notturna in gloria di quei santi neri e barbuti per i quali sempre avevano mandato, tra i foglietti delle lettere ai parenti o al parroco, il biglietto da cinque o da dieci dollari. L’alba spense quella luce. Ma dello sbarco degli americani ebbero certa notizia i carabinieri, i soldati. Le campane suonarono a martello, il banditore gridò per le strade lo stato di emergenza. Il cielo cominciò a vibrare del ronzio di un aereo: si avvicinava e svaniva, continuamente, senza che si riuscisse a scorgerlo; e finalmente, con un breve crepitio di mitraglia, comparve tra le case. Era di forma inconsueta, a due code (si chiamava, seppimo dopo, B 29): e doveva, per tutta una settimana, rappresentare una specie di legame tra il paese, isolato e ansioso, e la realtà della guerra, della invasione, della presenza americana. E che quella breve sventagliata di mitraglia avesse, al margine del paese, ucciso un carrettiere e ferito un bambino, i più erano disposti a considerarlo un errore: l’americano si era ingannato; dall’alto chi sa che gli era parso, quel carretto.
I soldati, intanto, non sapevano che fare. Ad ogni buon conto, si misero in giro a cercare vestiti. Bussavano con esitazione, timidamente chiedevano: si accontentavano di un pantalone, di una camicia; col caldo che c’era non avevano bisogno di giacca. Pensando ai figli lontani, ai mariti, ai fratelli — e che altrove, dovunque si trovassero, su loro si riversasse uguale pietà — le donne del paese tiravano fuori dagli armadi e dalle casse vestiti vecchi e nuovi. E il riconoscimento di coloro che appena avevano lasciato la divisa militare poteva essere fatto a fiuto, per il dolciastro odore di naftalina che quei vestiti emanavano. Quel giorno, nell’ora in cui tutti si sedevano per buttar giù le quattro forchettate di lasagne fatte in casa, si sentì per le strade la voce di un vecchio fascista, irreale, patetica, gridare: «Li abbiamo respinti, li abbiamo ributtati a mare». In ogni casa la notizia fu, con lievi varianti, commentata da un ironico e compassionevole: «Sì, con le corna che hai in testa». E scendendo infatti la controra, la sonnolenza e il silenzio che qui sempre succede al pasto meridiano, affiorò netto il tonfo delle cannonate: e non c’era dubbio, secondo quelli che avevano fatto una guerra, che quei colpi cadessero a non più di quindici chilometri, in linea d’aria. Del tutto rassicuranti furono poi le notizie che portò un venditore ambulante. Era scappato, all’alba, da Licata: un po’ a piedi, un po’ su un camion militare, era riuscito a tornare a casa. Pieno di stupore, quasi allucinato, raccontava di aver visto il mare, fin dove l’occhio arrivava, fitto di navi. Ripeteva: «Cornuto! E come voleva vincere?». Quelli che lo ascoltavano, quasi tutti sorridevano con approvazione; qualche fanatico, che ancora c’era, fingeva di non capire a chi quell’insulto fosse diretto. All’ospedale del paese, verso sera, arrivarono una ventina di feriti. Erano del X Bersaglieri, quasi tutti veneti. Il reggimento (o forse un solo battaglione) valorosamente aveva resistito a più di un urto, ma poi era stato annientato. I feriti, quasi tutti in grado di camminare, sembravano più smarriti che sofferenti. E avevano fame. Poi passarono i tedeschi: seduti per quattro sugli autocarri, l’arma al piede, zuppi di sudore ma immobili, impassibili. Venivano dalla parte di Aragona e andavano verso il fronte di Licata. La gente, preoccupata, contò gli autocarri: cinque, sei, un’automobile scoperta con due ufficiali. «Non ce la fanno... Ma vedi però che ordine».
Tornarono indietro che era già notte: evidentemente, avevano visto persa la partita. Da quella sera, per sei giorni di fila, non ci fu che il lontano tuonare delle cannonate e quell’aereo a due code che ogni tanto, per rompere la noia, scendeva a sgranare quattro colpi sempre oltre le ultime case: sui fichidindia, sui covoni di grano ammonticchiati nelle aie. La corrente elettrica non c’era più, nessuno si arrischiava a uscire dal paese: non si aveva notizia alcuna della guerra che dilagava nell’isola, soltanto il 14 (o il 15) uno era riuscito, da una radio a galena che aveva un soldato di passaggio, a sentire il bollettino di Roma: e che le forze d’invasione, superata la fascia costiera, si addentravano nella zona montuosa della Sicilia. E si era privi di tutto: di farina, non funzionando più i mulini; di verdura, ché gli orti erano appunto al margine del paese, dove il B 29 cercava bersagli; di frutta, grande risorsa che la stagione ci offriva per sopravvivere. Cominciavano a diventare cornuti gli americani, che non venivano. Il 16 luglio, di pomeriggio, gli americani finalmente apparvero. Fu davvero un’apparizione, quasi incredibile. All’estremità del corso, dove la facciata della Matrice lo chiude, davanti al caffè, una ventina di persone stava a godersi la striscia d’ombra che cominciava a cadere dalle case, e anche i carabinieri: ed ecco che all’altro estremo, nella deserta e abbagliante prospettiva, tenendosi al centro con un suo passo lento e guardingo, spuntò l’americano. Ai suoi lati, camminando sotto i balconi e coi fucili puntati alle imposte chiuse, c’erano altri soldati. Tutta la nostra attenzione era però incentrata su quello che camminava al centro: alto; il passo leggermente «fianchino», da cow boy; le braccia indolentemente scostate dal corpo, le mani quasi sospese: ma pronte, si sentiva, braccia e mani a scattare, a fare affiorare l’arma, il fuoco.
Gary Cooper quell’entrata non l’avrebbe fatta meglio. E per quei due o tre minuti che ci vollero perché la pattuglia arrivasse davanti al caffè, ci sentimmo come al cinema, che la visione sorgesse da uno schermo e magicamente penetrasse nella realtà. Gli americani puntarono i fucili sui carabinieri, che si erano alzati in piedi: la faccia pallida, affilata; lo sguardo sperso. Uno della pattuglia girò dietro a loro, con destrezza li disarmò delle pistole. Tutto si era svolto così velocemente, e in così attonito silenzio, che il grido di Gasparino Firetto «Viva la libertà!» fu come un crollo. Gasparino più volte aveva avuto a che fare coi carabinieri, piccole truffe, piccoli furti: e a vederli disarmare l’evviva alla libertà gli era venuto dal profondo. E il momento della sua più grande gioia stava per essere l’ultimo della sua vita, se il capo della pattuglia non avesse fermato il soldato che, credendo quel grido fosse di allarme, di resistenza, con una faccia improvvisamente stravolta di paura, fu sul punto di impiombarlo. Dal grido di Gasparino alla grande festa fu questione di minuti. Il corso si riempì di gente che pareva una domenica del tempo di pace, una grande bandiera a stelle e strisce ondeggiò sulla folla, cannate piene di vino la sorvolarono fino a raggiungere gli americani. «Viva la repubblica stellata!» gridò l’avvocato Calafato, con una voce che non aveva perduto timbro e forza da quando, sei anni prima, alla stazione, era riuscito a salire sul predellino del treno per gridare «Duce, per te la vita!» sotto lo sguardo fiero e paterno di Mussolini.
«Corriere della Sera» del 30 aprile 2010

Il minuscolo combattente

La storia del bambino abortito e sopravvissuto due giorni a Rossano Calabro, le domande dei medici e i limiti della legge
di Nicoletta Tiliacos
Il cappellano dell’ospedale va a pregare sul corpicino di un bambino abortito il giorno prima (un aborto “terapeutico” tardivo, alla ventiduesima settimana di gravidanza). Lo trova su un carrellino, in un angolo appartato del reparto maternità, coperto da un lenzuolino sanitario. Il lenzuolino si muove. Il prete lo spalanca, e quando vede che il bambino respira – addirittura sgambetta – chiama aiuto con tutta la voce che ha. Sembra l’inizio di un cupo romanzo d’appendice, il racconto molte volte ripetuto in questi giorni da don Antonio Martello, cappellano dell’ospedale civile Nicola Giannettasio di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Ma non è un romanzo d’appendice. E’ solo cronaca brutale e senza lieto fine, è la storia del breve passaggio tra i vivi di un bambino maschio, abortito da una madre alla sua prima gravidanza, dopo un’ecografia – una sentenza capitale – che mostrava una malformazione nel nascituro. Forse un difetto genetico del labbro e del palato, è stato scritto.
Quel bambino senza nome, trecento grammi di peso, è sopravvissuto due interi giorni all’aborto. Il primo giorno da solo, dato per morto, ancora sporco del sangue placentare che nessuno si cura di lavar via dal corpo di un feto abortito. Il secondo giorno nell’incubatrice del reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale dell’Annunziata di Cosenza, dove è stato portato dopo l’allarme del cappellano. Don Antonio Martello parla al Foglio con prudenza (“sono testimone nell’inchiesta”, spiega) ma conferma che sui tempi non ci possono essere dubbi: “L’intervento di interruzione di gravidanza è avvenuto alle tredici e trenta di sabato 24 aprile, e io sono salito in maternità domenica alle undici, quasi ventiquattro ore dopo. Quando ho chiamato aiuto e sono arrivati un pediatra e l’anestesista, che hanno praticato le prime cure, hanno constato a loro volta che il bambino respirava, che si muoveva, che il cuore batteva”. Qualcuno s’è forse fatto prendere la mano dal romanzo d’appendice, ed era circolata la voce che il sacerdote fosse stato avvisato in confessione di qualcosa di anomalo in atto nel reparto maternità del Giannettasio. Don Martello nega: “Ma no, sono stato solo avvisato, come è successo altre volte, del fatto che un bambino era stato abortito. Io vado sempre a pregare per i bambini abortiti e per i nati morti. Adesso, per esempio, arrivo dall’obitorio, dove ho benedetto un settimino nato morto. I genitori, disperati, hanno chiesto l’autopsia. Ma quello che ho visto accadere domenica scorsa non mi era mai capitato prima”.
Come è stato possibile? A ventidue settimane, dicono i neonatologi, non sgambetta nessuno, e i segnali di vitalità sono così minimi che può riconoscerli solo un esperto. Un bambino di ventidue settimane di norma non ha gli alveoli polmonari, l’aria non può entrargli nei polmoni e quindi non potrebbe respirare da solo, senza aiuto e senza essere accudito e soccorso. Non per un intero, lunghissimo giorno, ma nemmeno per un’ora. Tanto che, quando incombe un parto (nel caso di un parto) così prematuro, per aumentare le speranze che il bambino sopravviva bisogna somministrare cortisone alla mamma nelle ore precedenti il parto, Il cortisone aiuta il nascituro a sviluppare i polmoni, nei quali va messa subito una sostanza particolare che li fa dilatare e favorisce la respirazione.
Claudio Fabris, direttore della cattedra di Neonatologia dell’Università di Torino, che ha sede all’ospedale Sant’Anna, e presidente della Società italiana di neonatologia fino al 2009, spiega che “proprio in considerazione della pur labile possibilità di sopravvivenza a ventidue settimane gestazionali, molte aziende sanitarie, compreso l’ospedale Sant’Anna, si sono date regolamentazioni interne che vietano gli aborti terapeutici dopo quel periodo”. La stessa cosa succede dal 2004, per esempio, alla clinica Mangiagalli di Milano, anche se sia il Tar sia il Consiglio di stato hanno respinto l’atto di indirizzo della Lombardia che voleva garantire in tutti gli ospedali della regione il limite di ventidue settimane e tre giorni come termine massimo per praticare l’aborto. Dice ancora il professor Fabris che “ancora sei o sette anni fa, la sopravvivenza a ventidue settimane gestazionali non esisteva. Oggi succede, raramente ma succede. Il censimento nei reparti italiani di terapia intensiva neonatale aveva registrato, nel 2005, cinque nati vivi di ventidue settimane senza nessun sopravvissuto. Nel 2006 erano stati dieci con un sopravvissuto. Nel 2007, nessun sopravvissuto su tredici nati, mentre nel 2008 c’è stata una sopravvivenza del dodici per cento su quarantuno nati di ventidue settimane. Come si vede, i numeri sono estremamente esigui. Ma abbiamo l’obbligo di trattare il neonato in estrema prematurità come qualsiasi persona in condizioni di rischio e dobbiamo assisterlo adeguatamente”.
La cosa, piaccia o no, vale anche per i bambini abortiti quando già potrebbero sopravvivere, ed è proprio questo (lo ha dimostrato da solo) il caso del bambino di Rossano Calabro. Non c’è bisogno di interpretazioni ardite o tendenziose. La legge 194 sull’aborto dice che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 (cioè quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ndr) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Dunque, se c’è possibilità di vita autonoma del feto – e a ventidue settimane quella possibilità esiste, sia pure in un numero limitato di casi di una casistica già estremamente limitata – l’unica circostanza in cui sarebbe lecito procedere all’interruzione di gravidanza è in presenza di un grave pericolo di vita per la madre (non basta un generico pericolo per la salute fisica e psichica, come avviene per l’aborto fino alla dodicesima settimana) e comunque va garantito il tentativo di salvare la vita del bambino.
Quindi, se pure l’interruzione della gravidanza non fosse evitabile perché ne va della vita della madre, rimane il dovere, i medici che eseguono l’intervento sono tenuti ad “adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. E’ scritto nella legge, che non ha messo limiti temporali precisi proprio per lasciare spazio a progressi medici che di anno in anno possono rendere possibile una sopravvivenza un tempo impensabile. Un documento firmato nel febbraio del 2008 dai direttori delle cliniche di Ostetricia e Ginecologia delle facoltà di Medicina delle quattro università romane (La Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il Campus Biomedico), afferma che “con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e, quindi, all’assistenza sanitaria”. Significa che se un feto nasce vivo dopo un’interruzione di gravidanza, il neonatologo deve intervenire per rianimarlo, “anche se la madre è contraria, perché prevale l’interesse del neonato”. La madre, naturalmente, ha tutto il diritto di abbandonare il neonato alla nascita (diritto garantito dalla legge) ma il personale sanitario ha il dovere di assistere il bambino abortito, quando può sopravvivere.
Potrebbe esserci stato un errore nel valutare l’età gestazionale, nel caso del bambino di Rossano, aggrappato da solo alla vita per un giorno? Potrebbe, certo. Fabris pensa che “la precisa valutazione dell’epoca gestazionale sia estremamente difficile, anche se ora le ecografie la rendono più attendibile. E un margine di errore di quattro-cinque giorni può essere non importante ma, addirittura, fondamentale per spiegare la sopravvivenza di quel bambino”. Una volta tanto, si può concordare anche con il ginecologo Carlo Flamigni, sostenitore dell’aborto come diritto assoluto eppure convinto – lo ha detto ieri in un’intervista – che “è stato commesso un errore: non si pratica un’interruzione di gravidanza alla ventiduesima settimana. Esiste il rischio che il feto sopravviva”. A parte quel “rischio” riferito alla sopravvivenza del bambino (niente a confronto del Corriere della Sera, che del caso di Rossano ha scritto che “la madre si era dovuta sottoporre all’aborto”: proprio così, “dovuta”), e a parte il resto delle considerazioni di Flamigni, che se la prende con “i medici obiettori” e con il solito Vaticano, la sostanza è chiara. Quell’aborto, pure fosse stato indispensabile per preservare la madre da un pericolo di vita, doveva avvenire in una struttura capace di soccorrere il feto (ma se lo chiamassimo “bambino”, una volta per tutte? Due giorni di permanenza su questo mondo, il primo dei quali aggrappato da solo con il suo povero respiro alla vita, gli dà ben diritto a essere chiamato così). Quella capacità di soccorso forse al Nicola Giannettasio non c’era (manca certamente la terapia intensiva neonatale, presente invece a Cosenza). Ma, allora, si può dire che quella struttura non doveva essere abilitata a effettuare un aborto a ventidue settimane gestazionali?
Le cose saranno chiarite (forse) sia dall’inchiesta avviata dall’autorità giudiziaria (sono già stati emessi avvisi di garanzia per omicidio volontario a carico di un medico e di due infermieri) sia dagli ispettori inviati dal ministero della Salute – cominceranno a lavorare solo lunedì – sia dalla risposta a un’interrogazione parlamentare, il cui disbrigo è stato rinviato alla prossima settimana, quando si capirà qualcosa di più. Si chiarirà (forse) se c’è stato un errore nel calcolo dell’età gestazionale. E dall’autopsia (in corso anche oggi, al Policlinico di Bari) si capirà di che natura fosse la malformazione che ha condannato il piccolo di Rossano a essere abortito. Si capirà se quel difetto fosse una semplice palatoschisi – fenditura più o meno estesa della parte anteriore del palato duro, a volte accompagnata da labbro leporino, che colpisce una persona su mille e che si presta nella maggior parte dei casi a essere trattata chirurgicamente – o se si trattava di qualcosa di molto più grave, di cui la malformazione evidente è solo una spia.
Anche se, bisogna ricordarlo, in Italia l’aborto per motivi eugenetici è proibito dalla legge: la disabilità, anche gravissima, del nascituro, non costituisce da sola ragione per l’aborto a quell’avanzata età gestazionale. Un aborto a ventidue settimane significa che un bambino atteso è diventato all’improvviso un indesiderabile. E’ azzardato immaginare il panico della coppia di futuri genitori, di fronte all’idea che quel bambino – il primo, oltretutto, con tutte le aspettative del caso – potesse essere “difettoso”, addirittura “mostruoso”? Quanto pesa, in vicende di cui la brutta storia dell’ospedale di Rossano è solo l’espressione più tragica e inaccettabile, l’idea che la salute promessa e garantita del figlio sia condizione indispensabile per attribuire al figlio stesso il diritto a nascere? Quanta paura, quanto terrore sono seminati dalle indagini prenatali sempre più sofisticate, sempre più ineludibili e non raramente fallaci? Il genetista Bruno Dallapiccola, che da poco è stato nominato direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico romano Bambino Gesù dopo aver diretto per molti anni l’Istituto Mendel, ci spiega che “andrebbe garantita un’informazione misurata sulle possibili implicazioni di una patologia rilevata ecograficamente. Nella mia personale esperienza – parlo di migliaia di casi – l’ottanta per cento delle patologie trovate ecograficamente, dopo una consulenza genetica competente si rivelano del tutto compatibili con la normalità del nascituro. Bisogna dare informazioni oneste, sia se ci si trova di fronte a situazioni davvero gravi, sia negli altri casi. Ma la medicina è fondamentalmente vile: non tutti azzardano di mettere nero su bianco che non ci saranno i problemi paventati per il bambino dopo un’ecografia. Il problema è: chi informa davvero gli ecografisti? Che tipo di accompagnamento dei genitori possono garantire, per aiutarli a decidere? Le parole sono sassi. Da me le coppie arrivano terrorizzate, con diagnosi quasi sempre, per fortuna, senza conseguenze vere”.
“Non si registra più, o si registra sempre meno, una vera resistenza individuale e sociale alla paura del figlio imperfetto”, commenta Roberto Volpi, statistico ed esperto di questioni sanitarie. Secondo lui, l’Italia è messa piuttosto male, sotto questo aspetto, complice “l’autentico battage pubblicitario, sviluppato con intensità sempre crescente, attorno alle tecniche invasive di diagnosi prenatale (soprattutto l’amniocentesi e la villocentesi) con cui si tende da parte della medicina a convincere della loro necessità anche le donne sotto i trent’anni con rischio pressoché nullo di anomalia genetica. Questa ‘necessità’ non può non esser vissuta, infatti, da strati sempre più ampi di donne investite in pieno da un tale battage, come la prova provata della corrispondente necessità di evitare sempre e comunque, quando il difetto o l’anomalia siano diagnosticabili, la nascita di bambini con questi difetti e anomalie”. La notizia della vicenda di Rossano, di quel minuscolo combattente di un giorno abbandonato su un carrello metallico dopo un aborto, è arrivata ieri sul sito della Cnn, e anche in Gran Bretagna, sul Dailynews online. “Vogliamo sapere che cosa è successo – dice al Foglio l’attivista pro-life Josephine Quintavalle – perché quel bambino sopravvissuto in condizioni terribili può aiutarci a combattere la nostra battaglia per ottenere che il limite per l’aborto su semplice richiesta, in Inghilterra, scenda almeno da ventiquattro a venti settimane”.
«Il Foglio» del 30 aprile 2010

29 aprile 2010

Giornali e scimmie

Intolleranza nelle pagine scientifiche sul caso degli “errori di Darwin”
s. i. a.
Riflettendo sull’intolleranza della cultura evoluzionista, lo storico inglese Paul Johnson qualche anno fa aveva parlato di “ayatollah e iconoclasti darwinisti” che hanno “occupato i posti di comando nei dipartimenti universitari e delle riviste scientifiche, negando udienza a chiunque sia in disaccordo con loro”. Parole profetiche a giudicare dalle reazioni della stampa italiana al libro di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor, Gli errori di Darwin (Feltrinelli). Ieri sulle pagine scientifiche della Stampa è apparsa l’ennesima spietata stroncatura del libro. Tranne il Corriere della Sera, che ha ospitato gli interventi di Piattelli Palmarini e una recensione non squalificante di Telmo Pievani, sugli altri quotidiani è stato un unanime coro di voci che non ha ammesso dissensi, dimostrando lo spirito settario di certa vulgata scientista.
Sono caduti molti muri ideologici nei giornali nostrani, ma quando si parla di Darwin questi inserti culturali assomigliano sempre a cittadelle assediate. Soprattutto dal conformismo. Non ci si possono scegliere antagonisti di comodo per liquidare la critica. Si doveva parlare del libro e delle sue conseguenze. E invece finora ci si è limitati a sgradevoli polemiche personali, malgrado molti grandi scienziati testimonino a favore della attendibilità degli argomenti addotti nel libro. Non un solo intellettuale ha avuto il coraggio di criticare l’attacco ad personam subito dagli autori. L’auspicio a questo punto è che i darwinisti di professione la piantino di scatenare i loro cani contro chiunque osi dubitare che Darwin abbia risolto per sempre il problema dell’origine delle specie. Come ha scritto il genetista Giuseppe Sermonti, il grande pariah dell’evoluzionismo italiano, il darwinismo si è dimostrato davvero “un credo che non tollera eretici”.
Lo si è visto dalla viltà e dalla povertà delle pagine culturali e scientifiche italiane. E anche dalla timida disattenzione con cui la cultura cattolica e la chiesa hanno accolto questa testimonianza di pluralismo scientifico e di metodo critico. L’iperevoluzionismo darwiniano, con la sua teoria della selezione naturale considerata fallace da una parte autorevole del mondo scientifico, ha preso possesso della terra, non perché la teoria sia provata e confermata, ma perché l’ideologia che la sottende ha conquistato le cattedre e la pubblicistica, come vuole la logica del “might is right”.
«Il Foglio» del 29 aprile 2010

Katyn: i documenti online mandano in tilt la lunga menzogna rossa

L’archivio di Stato russo ha messo online (www.archives.ru) i documenti relativi a Katyn, forse sulla scia dell’emozione causata dalla morte del presidente polacco Lech Kaczynski con la moglie Maria e altri 94 importanti esponenti della politica, delle forze armate e della società civile
di Alessandro Gnocchi
Il massacro di Katyn è stato forse il caso più significativo di falsificazione storica del XX secolo. Nella primavera del 1940 Stalin diede ordine di massacrare oltre 22mila soldati polacchi, quasi tutti ufficiali, prigionieri di guerra dell’Armata rossa dal 1939. Fu «pulizia di classe», come ha scritto lo storico Victor Zaslavsky in un libro edito dal Mulino. L’intento del dittatore georgiano era spazzare via in un colpo solo l’élite dell’esercito e della società polacca. I corpi delle vittime furono trovati dalle truppe di occupazione tedesche nell’aprile del 1943. I nazisti istruirono una commissione d’inchiesta che attribuì la responsabilità dell’eccidio agli ex alleati russi. I quali rispedirono le accuse al mittente, postdatando la strage alla seconda metà del 1941. Questa tesi negazionista, pur denunciata come menzognera nel corso degli anni, si è imposta come versione ufficiale dei fatti per quasi mezzo secolo. Anche in Italia, dove il Partito comunista, con qualche eccezione, la sposò senza problemi. Solo nel 1990 Mikhail Gorbaciov ammetterà le colpe dell’Urss.
Ieri l’archivio di Stato russo ha messo online (www.archives.ru) i documenti relativi a Katyn, forse sulla scia dell’emozione causata dalla morte del presidente polacco Lech Kaczynski con la moglie Maria e altri 94 importanti esponenti della politica, delle forze armate e della società civile. Kaczynski era sull’aereo di Stato caduto poche settimane fa in occasione del 70° anniversario del massacro: si stava recando alla commemorazione. Il sito ha avuto milioni di contatti in poche ore ed è andato in tilt. I documenti non sono inediti ma sono accessibili a tutti per la prima volta. Due terzi dei faldoni (116 su 183) restano coperti dal segreto di Stato, confermato da Vladimir Putin.
Tra i documenti più importanti figura il rapporto del marzo 1940 con cui il capo della polizia segreta (Nkvd) Lavrenti Beria avvia le «pratiche» per lo sterminio. Il rapporto è controfirmato da Stalin e da altri membri del Politburo tra cui Molotov, Voroshilov, Mikoian, Kalinin e Kakanovich. Potete vederlo nella foto qui sopra. Beria, dopo aver spiegato a Stalin che i militari polacchi sono «pieni di odio per il sistema sovietico» propone la «pena di morte, da eseguire con la fucilazione». Totale dei condannati: 25mila e settecento. Visto e approvato. Nel dossier è incluso il testo della risoluzione con cui il 5 marzo dello stesso anno il Politburo avallò la proposta di Beria. C’è poi una relazione del 1959, scritta a mano dall’allora capo dell Kgb, Aleksandr Shelepin, in cui si informa il leader sovietico Krushiov sulle modalità d’esecuzione dei prigionieri. Il «buon» Nikita comunque ebbe anche un ruolo attivo, aveva organizzato le deportazioni.
Come fu possibile nascondere tutto questo? Un esempio. Il professor Vincenzo Palmieri, esperto di medicina legale (e nel 1962 sindaco di Napoli), aveva partecipato nel 1943 alla commissione medica internazionale voluta dai nazisti per indagare su Katyn. Racconta Zaslavsky ne Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna (Ideazione) che Palmieri fu «segnalato» dai compagni nostrani all’ambasciata russa per le sue attività «antisovietiche». Al termine del conflitto fu accusato di essere nazista e fu contestato in aula dagli studenti.
«Il Giornale» del 29 aprile 2010

Quei comunisti che remavano contro

Rosa Luxemburg pensava più alle cinciallegre che al Partito, Victor Serge "tradì" il Comintern per i romanzi, Aleksandr Bogdanov si diede agli studi scientifici. Una storia dei compagni "eretici"
di Tommy Cappellini
Negli
A bocce ferme, anzi disintegrate, ci si potrebbe chiedere se i cosiddetti «comunisti eretici» abbiano «sbagliato in grande», sprecando la loro intelligenza nella critica costruttiva di qualcosa che non aveva troppe chance di successo storico, o se invece abbiano «sbagliato in piccolo», svolazzando come falene intorno a un totalitarismo che, alla prova dei fatti, si dimostrava ogni volta molto più intelligente e bruciante di loro nel fare politica attiva, fin tanto che la faccenda poteva durare (magari rinvigorita periodicamente a suon di legnate e gulag).
È destino di molti intellettuali engagé finire in una simile ambiguità, ma quelli comunisti ci sono cascati come nessun altro (indice di una maggior «credibilità umanistica» del comunismo o del fatto che alla fine i «nazi» della premiata ditta Carl Schmitt&C. erano più accorti?). A ogni modo, la loro storia commovente, spesso tragica, è ripercorsa in un possente volume in uscita oggi nelle librerie: L’età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945 (Jaca Book, pagg. 674, euro 40, a cura di Pier Paolo Poggio). È il primo di una serie di cinque volumi intitolata «L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico»: l’idea alla base di tale ragguardevole impresa editoriale è fare un ritratto, come spiega Poggio nella presentazione, «di figure, movimenti ed esperienze non riconducibili alle forme politiche egemoni nella storia del secolo, anzi alternative e critiche nei confronti di queste, anche se per la loro irriducibile diversità potevano pervenire unicamente a una convergenza in negativo». In altre parole, si tratta di raccontare la biografia intellettuale «non di modelli o idoli, ma di una realtà eterogenea, ancora ricca di vita e possibilità».
Domanda: si intende forse una possibilità di natura politica? Se è così, c’è da avere qualche dubbio. I capitoli più intensi e fecondi di questo tomo, infatti, sono quelli dedicati a Rosa Luxemburg nella sua variante più anarchica («Spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o nel penitenziario. Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai compagni»), a Victor Serge, «cronista del disastro sovietico», a Walter Benjamin (imprescindibile per lucidità e disincanto), a Brecht e alla Scuola di Francoforte, oltre che alla triade «Silone, Koestler, Orwell» e a Simone Weil e Martin Buber. Possiamo salvare anche i capitoli dedicati ad Alexandre Kojève, Georges Bataille e Wilhelm Reich.
Convince poco, invece, l’«ontologo» Gyorgy Lukàcs presentato come correttore/oppositore di Stalin: l’autore di L’anima e le forme pensava che sarebbe bastato rifiutare sulla carta la naturalizzazione della società (cioè la tendenza ad assimilare la storia sociale al funzionamento dei processi naturali) per impedire a Stalin di trasformare l’economia in un complesso autarchico, rinchiuso in una legalità autonoma, con individui trattati «come semplici epifenomeni di forze impersonali» (è andata esattamente al contrario). Dai nomi che abbiamo citato appare chiaro che se c’è ancora una fecondità latente del comunismo non è dunque di natura politica, bensì filosofica e letteraria.
Prendiamo per esempio Victor Serge, morto (forse avvelenato da emissari del Partito) su un taxi a Parigi il 17 novembre 1947. Suo è uno dei libri da non perdere del Novecento, Memorie di un rivoluzionario (un long seller pubblicato in Italia da e/o): generazioni di lettori ne sono rimasti incantati fin dalle prime pagine. Figlio di esiliati russi a Bruxelles, socialista a tredici anni, anarchico a quindici, giornalista a diciassette (firmava Le Rétif, Il Refrattario), arrivò a Pietrogrado nel 1919 per partecipare alla fondazione del Comintern, ma appena otto anni dopo, in occasione del XV congresso del Partito in cui tutti (da Zinovev a Kamenev) capitolarono davanti a Stalin, lo imprigionarono. Il carcere fu il suo spartiacque esistenziale: tutta l’attività politica a cui fino allora si era dedicato gli sembrò futile e, un pomeriggio che era ricoverato in ospedale, sentì che era meglio scrivere opere durature: «È importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga». Scrisse in francese (in URSS non gli avrebbero pubblicato più una riga) una serie di romanzi ormai divenuti dei classici all’interno di quella letteratura apolide novecentesca così tipica dei fuoriusciti sovietici: Il caso Tulaev, Gli anni senza perdono, La città conquistata.
Simile a quella di Victor Serge è l’esperienza di Aleksandr Bogdanov (1873-1928), autore di romanzi utopici (La stella rossa, in Italia per Sellerio, L’ingegner Menni) che, agli albori della letteratura fantascientifica russa, vendettero centinaia di migliaia di copie. Bogdanov fu un altro comunista che, dopo gli strali che Lenin gli indirizzò, prese consapevolezza che scrittura romanzesca e ricerca scientifica sarebbero durate più a lungo dell’Unione Sovietica, e vi si dedicò esclusivamente. Oltre ai romanzi, scrisse il poderoso Tectologia, o scienza generale dell’organizzazione (più volte ristampato o antologizzato: anticipò idee della cibernetica e servì come vademecum scientifico per la pianificazione economica dell’URSS) e diversi saggi sulle trasfusioni del sangue, di cui fu pioniere (morì nel corso di un esperimento condotto su se stesso).
Che dire, poi, dei «classici» Simone Weil, Arthur Koestler, Ignazio Silone, George Orwell? Si tratta di scrittori talmente liberi da qualsiasi ortodossia dettata dal Politburo che parlare di loro come di «eretici del comunismo» pare sempre un po’ riduttivo, quasi un’inclusione forzata. Non si può dire lo stesso di molti altri eretici proposti in L’età del comunismo sovietico, che scontarono un’eccessiva fedeltà al Partito - all’«Idea», direbbe Nabokov - anche quando da questo venivano traditi o, peggio ancora, torturati.
«Il Giornale» del 29 aprile 2010

28 aprile 2010

Il grido soffocato delle Damas de Blanco

Madri e mogli dei dissidenti incarcerati continuano la loro protesta. Ma il regime ha stretto la morsa anche su di loro Il leader della protesta rischia la morte per lo sciopero della fame E nell’isola caraibica le condizioni di vita e la situazione dei diritti umani peggiorano
di Lucia Capuzzi
Traditrici. A testa alta, con gli occhi puntati sul viso degli assalitori, hanno sopportato impassibili, per otto lunghe ore, la sequela di insulti. Alcune decine di donne, vestite di bianco, con un gladiolo in mano, hanno sfidato ancora una volta l’ira del regime castrista. Lo fanno dal marzo 2003 – la primavera negra –, quando l’allora Lider Maximo Fidel Castro, mentre lo sguardo del mondo era fisso sull’Iraq, avviava una 'purga' verso il dissenso. Secondo molti analisti, fu un messaggio indiretto all’amministrazione Bush, per dimostrare che il governo socialista era ancora forte. In 75, tra intellettuali, artisti, giornalisti – dal poeta Raul Rivero all’economista indipendente Oscar Espinoza – furono arrestati e condannati, con processi sommari, a pene durissime, fino a 28 anni di carcere, per spionaggio. Alcuni furono liberati in seguito alle pressioni internazionali. Cinquantatre sono ancora dietro le sbarre. Per loro, si battono le Damas de Blanco. Madri, fidanzate, mogli dei dissidenti incarcerati, ogni domenica, ascoltano la messa insieme nella chiesa di Santa Rita. Poi, marciano per la Quinta Avenida, nel centro dell’Avana, gridando 'Libertad!'.­ Non siamo un movimento politico. Siamo donne disperate. Che lottano per la libertà dei loro uomini. Innocenti imprigionati per il solo fatto di avere idee diverse, spiega ad Avvenire Laura Pollan, fondatrice delle Damas. Suo marito Hector Maseda, giornalista,­ rinchiuso nel carcere di Aguica, a Matanzas, a 150 chilometri dall’Avana e dalla sua famiglia. Qui sconta una pena a vent’anni, come una condanna a morte, ha già sessant’anni, aggiunge Laura.
Finora il regime aveva tollerato le marce delle Damas. Da qualche mese, però, le aggressioni al gruppo si sono moltiplicate. Da tre settimane, le donne non riescono a raggiungere la Quinta Avenida. Agenti in borghese le fermano all’uscita dalla messa e intimano loro di tornare indietro. Dato il secco rifiuto, le donne vengono aggredite da gruppi filocastristi. Che le circondano, le insultano, le spingono, le minacciano. Il copione degli 'atti di ripudio', spontanei in teoria ma in pratica ordinati dal governo, non­cambiato in mezzo secolo di Revolucion. A crescere ­è stata, però, la veemenza delle manifestazioni. Perfino la stampa ufficiale, che mai prima aveva menzionato le Damas, ha cominciato ad attaccarle. Segno che la 'rivoluzione dei gladioli delle signore bianche'­ è diventata un problema.
Per il castrismo­ un momento delicato. Raul, succeduto al fratello malato nel 2006, ha deluso le aspettative di cambiamento. Le poche riforme attuate – diritto dei cubani ad avere un pc, un telefonino, a utilizzare Internet, a entrare negli hotel per stranieri, la concessione di terra incolta ai contadini e la possibilità di barbieri ed estetiste di prendere in affitto il loro locale – hanno un puro carattere 'cosmetico'. Il suo progetto di trasformazione del socialismo tropicale in capitalismo autoritario, sul modello cinese, si è arenato ancor prima di iniziare. Per l’opposizione, dicono fonti vicine al regime, dello stesso Fidel, la cui ombra peserebbe sulle spalle del fratello. Per questo, i blogger più irriverenti hanno definito Raul Castro 'il numero uno e mezzo': un potente ma non troppo per opporsi all’anziano 'comandante'. Una leadership inadeguata ad affrontare la dura recessione economica che flagella il Paese. I negozi sono vuoti, un cittadino su quattro­senza lavoro. Il malcontento popolare­ forte. Per questo, più che per una reale coscienza politica, dato che il regime fa di tutto per impedirne la formazione, in tanti ora si avvicinano ai dissidenti. Lo fanno timidamente, la paura è tanta, spiega Reyna Zapata Tamayo, madre di Orlando, il prigioniero politico che due mesi fa si è lasciato morire di fame per protestare contro le terribili condizioni carcerarie. La donna­ controllata a vista dalle forze di sicurezza­. Mi hanno perfino vietato di rispondere alle domande dei curiosi sull’autobus. Dicono che devo stare muta. Altrimenti mi fanno scendere. Preferisco camminare che tacere, dice Reyna. Isolare i dissidenti per impedire che il virus della ribellione dilaghi­: l'ossessione di Raul. Mentre la repressione cresce, però, la fragile economia cubana si sgretola. Il rischio del tracollo­ concreto. A meno di un cambiamento reale. Lo ha riconosciuto lo stesso presidente. Nel discorso alla Gioventù Comunista ha parlato della necessità di una 'grande trasformazione'. Il divario tra parole e fatti a Cuba non­mai stato tanto profondo.
«Avvenire» del 28 aprile 2010

B-XVI vuole la santità della chiesa e sa che persino il mondo può aiutarla

di Maurizio Crippa
"L’autentica virtù della chiesa, la sua realtà è nei santi. Ma questa chiesa si presenta (…) in un vestito di carne che contemporaneamente designa e vela questa verità. Agostino può affermare che la chiesa cattolica è la vera chiesa dei santi; i peccatori non sono realmente in essa, infatti la loro qualità di membro è quella parvenza che è propria del mundus sensibilis; d’altra parte, egli può mettere in evidenza che non è affare della chiesa espellere questi peccatori perché non è affare suo deporre il corpo di carne, bensì è affare del Signore che la risusciterà e la trasformerà nella sua vera forma di salvezza”. Se c’è una cosa che persino i suoi detrattori volentieri ammettono, è che Joseph Ratzinger non è uomo da non saper scegliere le sue citazioni. Attraverso di esse parla, agli autori più cari affida spesso il distillato del suo pensiero. Non di rado spiazzando i suoi interlocutori: da Emanuele Paleologo a Bonaventura da Bagnoregio, ne ha data più volte dimostrazione. Quella iniziale, pur tratta da un’opera giovanile, “Popolo e casa di Dio in sant’Agostino”, sembra particolarmente pertinente al tema, di non poca portata, proposto lunedì da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Secondo lo storico, nel modo rigoroso in cui Benedetto XVI sta affrontando lo scandalo della pedofilia, per la prima volta la chiesa starebbe rinunciando “a essere societas perfecta”, e soprattutto conformandosi “al punto di vista della società laica” nel giudicare questioni come l’abuso sessuale. Una “vera svolta storica”.
Spunto interessante, forse non altrettanto cogente, in quanto Galli della Loggia sembra trascurare le motivazioni spirituali e anche intellettuali dell’atteggiamento ratzingeriano in materia. Che riguardano la sua visione della chiesa e della fede. Innanzitutto va sottolineato che ciò che in questa vicenda sta maggiormente a cuore a Benedetto XVI, è sempre stata la santità del sacerdozio. Lo disse già denunciando la “sporcizia” nel clero poco prima di salire al Soglio. Ha scelto il Curato d’Ars come figura di riferimento per l’Anno sacerdotale, durante il quale in più occasioni è tornato sul tema della santita e della purezza. Il 27 gennaio scorso, la citazione è stata il santo di Assisi: “Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni… non dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci chiede di essere puri”. Ai preti irlandesi, assieme al “reato”, ha rimproverato anzitutto il peccato: “Avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa”. Le istruzioni “De Delictis Gravioribus” da lui stilate quando era prefetto della Dottrina della fede, erano impartite non solo per “contribuire a evitare un crimine così grave, ma anche per proteggere con le necessarie sanzioni la santità del sacerdozio”. Ratzinger, da teologo e da Papa, ha sempre posto ai sacerdoti una asticella molto alta. Perché la realtà della chiesa “è nei santi”.
Ciò non significa che non si ponga il problema di interloquire con il mondo, l’occidente laico evocato da Galli della Loggia, e con il suo modo, anche giuridico, di affrontare determinati problemi. Del resto è notevole che Ratzinger non abbia mai rinunciato ad accettare quelle che si potrebbero definire “le regole di ingaggio” del rapporto con il mondo laico. Basterebbero l’onestà intellettuale dei suoi dialoghi habermasiani, o il grande invito rivolto (da Ratisbona) al recupero della vera razionalità illuminista a dimostrarlo. Per il teologo di formazione agostiniana, il “mondo”, la città degli uomini, non è un antagonista insidioso, e può anzi a volte rappresentare misteriosamente la condizione che permette alla chiesa di camminare nella storia e di purificarsi. In un recente intervento pubblicato dalla rivista 30Giorni, il teologo emerito della Casa Pontificia, Georges Cottier, citava in proposito un altro libro giovanile di Ratzinger, “L’unità delle nazioni”, per spiegare che “tra Origene tentato dall’antagonismo gnostico verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza, Ratzinger descrive la fecondità della prospettiva di Agostino, che non sacralizza né combatte a priori le istituzioni secolari, ma le rispetta nella loro autonoma consistenza”. Più che un conformarsi a una visione culturale e giuridica laica, c’è probabilmente molto di questo rispetto nell’atteggiamento di Benedetto XVI. Per rimanere alle citazioni ficcanti, il 10 marzo scorso, mentre già lo scandalo della pedofilia montava in Germania, il Papa scelse san Bonaventura per spiegare che “non si governa la chiesa solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime”. La stessa audacia disarmante con cui, in un’omelia pronunciata il 15 aprile, ha detto: “Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia”. Un atteggiamento dettato non da una nuova adesione all’idea della giustizia mondana, ma da una misteriosa fiducia nella capacità del mondo di servire alla santità della chiesa.
«Il Foglio» del 28 aprile 2010

Il femminismo non ha liberato le donne

La mia generazione ha combattuto la battaglia per la parità tra i sessi e l'aborto. Oggi l'appiattimento ha cancellato le identità
di Susanna Tamaro
Tutti i messaggi si concentrano sul corpo: siamo passati dall'angelo del focolare alla mistica della seduzione. Nella latitanza della famiglia, della Chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media, che hanno una sola legge: omologare
Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell' aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l'eccitazione, l'esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l'oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell' epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta. Personalmente, non sono mai stata un'attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente - allora non lo ero - né per qualche forma di moralismo imposto dall' alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po' di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant'anni? Ho l'impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell'evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull'aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull'interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza - ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.
Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l'aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos'è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita. Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant'anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po' più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l' amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo. Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l' offerta del proprio corpo siano l' unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo - voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo - che cosa nasconde? Il corpo è l'espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un'origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l'idea che l'essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l'unicità del volto.
L'omologazione imposta dalla società consumista - e purtroppo sempre più volgarmente maschilista - ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell' essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall' idea dell'esistenza come percorso, vuol dire vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l'unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall' altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All'inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l'angoscia. Dove sarà l'uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

Susanna Tamaro è nata nel 1957. Il suo nuovo libro, «Il grande albero» (Salani), disponibile anche come audiolibro, è una fiaba sull' amore, la natura e la vita
«Corriere della Sera» del 17 aprile 2010

Rossana Rossanda: "La sinistra non ha linguaggio e programma"

di Bruno Gravagnuolo
«Subalternità della sinistra all’impresa privata», mancanza di un «suo» linguaggio e persino rinuncia «a difendere fino in fondo l’impianto della Costituzione repubblicana». Disamina tagliente e venata di forte pessimismo quella che Rossana Rossanda ci consegna dalla sua casa di Parigi. In una conversazione fatta di risposte stringate e nette («Non amo le interviste telefoniche...»). Ma almeno il succo è chiaro. Dice per esempio Rossanda: «Non capisco le zuffe tra Bersani, Franceschini e Veltroni. Pure questioni personali o in ballo c’è dell’altro: che società e che economia vogliono?». Oppure: «La verità è che si è smarrito il fondamento delle idee di sinistra. Ci si accapiglia su sostituzioni e sovrastrutture, regole, valori, “narrazioni”, ma non si parla dell’essenziale: i soggetti in conflitto, gli interessi, la natura sociale del potere...». E ancora: «Almeno il Pci certe cose ce le aveva chiare in testa e ben per questo dall’opposizione aveva costruito un tessuto forte nella società che ancora resiste al centro italia, come ho potuto constatare di recente nel Pisano. Strano che debba dirlo io, che nel 1969 venni radiata...». Insomma Rossanda, «vuole andare al cuore delle cose», che per lei «ragazza del secolo scorso» coincide con le domande sull’identità: che cosa significa essere ancora comunisti? Una serie di domande (e risposte) che Rossanda ha rivolto a se stessa di recente a Pisa, in una lezione universitaria. E che qui ritorna in parte. Sentiamo.

Rossanda, malgrado la sua crisi e la quasi scissione di Fini, il berlusconismo resiste. Al contempo la sinistra appare un po’ afasica e incapace di incidere nel blocco avversario. Come mai?
«Il berlusconismo resiste appunto perché la sinistra è afasica. E lo è da quando si è persuasa che la sola figura sociale legittimata a una egemonia sulla società moderna è quella dell’imprenditore della piccola e media e grande impresa, o aspirante tale. E che ogni progetto di egemonia dei lavoratori, materiali e immateriali, per un ordine sociale diverso, è stato un’ illusione, quando non un crimine, dei socialisti e dei comunisti del Novecento. Il discorso di Berlusconi, imprenditore per eccellenza, appare quindi giusto ed è attaccato soltanto per gli eccessi di volgarità, di personalismo e le infrazioni al codice civile. Il Pd non sostiene alcuna alternativa di sistema, non diversamente dalla Idv».

Un paese stanco e depresso, si dice. In piena decadenza morale. Con una destra senza alternativa al momento. È accaduto qualcosa di irreversibile nell’antropologia degli italiani, ormai fortemente cristallizata a destra?
«Un’Italia repubblicana e democratica esiste soltanto dal 1946, e la sua Costituzione, socialmente avanzata, soltanto dal 1948. Inoltre dall’’89 in poi questa Costituzione, mai del tutto realizzata, oltre a essere esplicitamente attaccata da destra, viene considerata discutibile anche alla sinistra, che quando era al governo la ha perfino modificata. Perché la gente dovrebbe considerarla un valore inalienabile, dal quale non arretrare?».

Dall’accettazione del mercato alla subalternità agli imperativi sistemici di mercato e impresa, come lei dice. Dunque sta qui tutta la crisi della sinistra?
«Il mercato è per sua natura “sistemico”. Esso non ha né compiti ne doveri sociali, scambia merci e tende a ridurre tutto a merce. Una sinistra che non tenti di abolirlo, come il comunismo nel 1917, o vigorosamente limitarlo, come Roosevelt o Keynes dopo la crisi del 1929 e i fascismi, cede ad esso ogni sua priorità e di fatto si dimette. In quanto a “ferrivecchi” il liberismo è venerando, è stato limitato soltanto dalle lotte operaie, e Von Hayek e von Mises vengono prima del “neoliberismo” di Reagan e Thatcher».

Eppure nonostante l’incapacità del capitalismo globale di autoregolarsi e la riscoperta della statualità, negli Usa e in Europa, il capitalismo continua ad essere reputato eterno e al più arginabile. È un ferro vecchio novecentesco anche la sola critica del capitalismo?
«La regola del capitalismo è fare profitto e riprodursi, anche affondando questo o quel capitalista, questa quella tecnica. Non puo avere altre regole, e perche dovrebbe? Lo abbiamo visto nel G20,a Copenhagen e nelle fatiche e i compromessi di Obama. Per il resto - rinuncia della sinistra criticare il capitalismo etc,- mi pare di aver già risposto».

Ritieni che il Pd sia riformabile «da sinistra», oppure come sostiene Pietro Ingrao, esso è irrimediabilmente un partito di centro anche dal suo punto di vista?
«Il centro non è una categoria sociale ma di pura geografia parlamentare. Il Pd si propone un capitalismo un poco corretto, e delegittima ogni conflittualità. Il Pci ne aveva assunto alcune pratiche da un pezzo, in parte obbligato dalla collocazione internazionale, in parte per vocazione moderata di molti del suo gruppo dirigente».

La riscossa dei socialisti francesi smentisce le campane a morto sul socialismo europeo, così come la crescita di consensi della Linke tedesca. Può ripartire in Europa una spinta di sinistra, o la sinistra abita ormai solo in America Latina?
«I socialisti francesi sono appena rosei, hanno radice essenzialmente nelle assemblee estive locali, si tengono a mezza strada fra un prudente riformismo e il “centro” di Bayrou, che da noi piace a Casini e Rutelli. Del resto il prossimo candidato all’Eliseo rischia di essere Strauss-Kahn. La Linke è piu a sinistra, ma sostanzialmente sindacalista all’ovest, nostalgica all’est. In America Latina non definirei socialisti né Chavez né Morales né Lula: sono progressisti, che è altra cosa, e antimperialisti».

C’è un rischio reale di regime plebiscitario in Italia, oppure la quasi scissione di Fini ha fugato il pericolo?
«Non credo a un ritorno al fascismo puro e duro, senza libertà di associazione (e quindi senza elezioni, partiti e sindacati) né di parola (quindi senza stampa) nazionalista e antisemita. Il limite accettabile per l’Europa a moneta unica è quello della maggioranza attuale – un liberismo socialmente crudele e nazionalmente velleitario. Fini ne fa parte, il trattato europeo gli va benissimo e viceversa, mentre Bossi e Berlusconi fingono di attaccarlo e stanno diventando imbarazzanti. Fini ha davvero la forza di andarsene? Non lo credo. Comunque, dinanzi a una crisi del centrodestra temo che sarebbe terribile, una coalizione tipo Cln con dentro Montezemolo, Casini, Fini e Bersani. Dinanzi a questa eventualità la sinistra dovrebbe riscoprire un alternativa programmatica di modello, fondata almeno su un rilancio keynesiano dell’economia. Magari in chiave non troppo lontana da quel che sta cercando di fare Obama negli Usa».

Susanna Tamaro sul «Corsera» ha accusato il femminismo di aver reso le donne più sole e omologate alla società dominante. Predica reazionaria o c’è qualcosa di vero nella predica?
«Il femminismo, nelle sue diverse anime, resta il solo tentativo di rivoluzionamento del costume tentato e durato dagli anni ’60 agli 80. Per questo la ex sinistra, dopo un breve flirt, lo ha mollato, gli altri partiti lo abominano e la stampa alquanto vigliaccamente lo deride. Non ho letto Tamaro, ma posso immaginare dove la porta il cuore».
«L'Unità» del 28 aprile 2010

Italia 150 anniversario senza qualità

di Fabrizio Rondolino
Mentre il Comitato ufficiale per i 150 anni dell’Unità d’Italia è divenuto oramai l’ombra di se stesso, dopo le defezioni variamente motivate di Ciampi, Conso, Dacia Maraini, Gregoretti, Zagrebelsky e altri ancora, giunge notizia di una riunione riservata tenutasi lo scorso 17 marzo, nella sede del Pd, per dar vita al Comitato-ombra per l'Unità d'Italia. All'incontro, rivelato ieri da «Repubblica», hanno preso parte, insieme ad alcuni storici, il segretario Bersani e la presidente Bindi, nonché D'Alema e Alfredo Reichlin, che già celebrò il centenario dell'Unità come direttore dell'«Unità" - insomma, il gotha del partito. A quanto si legge, il Comitato del Pd inviterà Ciampi, la Maraini e Zagrebelsky, cioè i dimissionari dal Comitato ufficiale, «a tutte le iniziative», poiché si tratta di "personalità da cui non si può prescindere".
In questo svolazzo di surrealtà, il solo a tenere i piedi per terra sembra essere Gianni Cuperlo, l'uomo che coordina il lavoro delle fondazioni culturali del Pd, quando nega ogni contrapposizione alle celebrazioni ufficiali e sottolinea il carattere culturale, di riflessione e di formazione, dell'iniziativa. Ma «Repubblica», con qualche malizia, spiega nel titolo che «l’obiettivo è coinvolgere Fini e approfittare dei ritardi del governo», mentre Reichlin sottolinea: «Gli storici ci daranno una mano, ma quella del Pd dev’essere un'operazione tutta politica». Del resto, per motivi analoghi, cioè politici, Renzo «Trota» Bossi ha dichiarato che non tiferà per la nazionale.
Si potrebbero spendere, e si sono già spese, parole amare su un Paese che non riesce neppure a mettersi d'accordo su come celebrare il proprio compleanno, su un Comitato di saggi che poco saggiamente si squaglia un pezzetto alla volta, su un governo che non sa andare oltre le parole sempre nobili del ministro Bondi, e su un Pd che ha smarrito la vocazione nazionale dei padri, il Pci e la Dc, al punto di farsi un Comitato-ombra tutto per sé.
«Questa è un'occasione unica per tradurre in realtà il più grande e più importante ideale. Dobbiamo e vogliamo attuare un'altissima idea. L’occasione si offre e sarebbe imperdonabile lasciarsela sfuggire!». Ulrich chiese ingenuamente: «Ma lei ha in proposito un pensiero preciso?». No, Diotima non l'aveva. Si parla qui dell'Azione parallela, lo straordinario pretesto narrativo (così Mittner) che sorregge «L'uomo senza qualità», il grande romanzo europeo sulla dissoluzione e sull’inconcludenza esausta. Robert Musil cominciò a scriverlo subito dopo la Grande guerra, quando l'impero absburgico era ormai un ricordo, ma ne ambienta le vicende prima, nel 1913. In vista del settantesimo anniversario della salita al trono di Francesco Giuseppe, che si sarebbe celebrato nel 1918, nasce a Vienna un comitato segreto che si riunisce periodicamente nel salotto della moglie di un alto funzionario ministeriale, Diotima. Non è chiaro in che cosa consista esattamente l'Azione parallela, che è insieme la manifestazione da organizzare e il comitato che se ne occupa: una rassegna culturale, una grandiosa opera di pace, un atto filantropico, un'azione politica… Ciascuno fa la sua proposta, che viene archiviata e presa in esame dalla segreteria dell'Azione parallela, a capo della quale è nominato Ulrich, il protagonista del romanzo.
L'Azione parallela non sfocerà da nessuna parte, per la buona ragione che la guerra ben presto la travolge, e nel 1918 non ci saranno più né Francesco Giuseppe né l'Impero. Ma, musilianamente, si tratta di un dettaglio (né, toccando ferro, sarà quello il destino del nostro anniversario). È l'inconcludenza in sé che contraddistingue l'Azione parallela, è la vacuità diresti strutturale, è l'esasperata indefinitezza dei suoi scopi, dei suoi mezzi, della sua stessa esistenza. Soprattutto, l'Azione parallela è quel luogo - mentale, fisico, politico - in cui a nessuno importa più un granché di niente, e tutto va avanti lo stesso. Perbacco, sembra l'Italia di oggi.
«La Stampa» del 28 aprile 2010

Ma saranno i lettori a perderci

di Michele Brambilla
Cerchiamo di spiegare ai lettori perché la legge sulle intercettazioni non è un affare che riguarda solo noi giornalisti; ma che riguarda soprattutto loro, i lettori.
I fatti innanzitutto. Un anno fa - 11 giugno 2009 - la Camera ha approvato un disegno di legge del ministro Alfano che regolamenta l’utilizzo delle intercettazioni da parte dei magistrati e la possibilità di pubblicarle da parte dei giornali. La scorsa settimana in commissione Giustizia del Senato sono stati presentati dodici emendamenti che - riassumo grossolanamente - accolgono qualche istanza dei magistrati (che molto si sono lamentati per questa legge) e inaspriscono ulteriormente le sanzioni per giornali e giornalisti. Contro tutto ciò, oggi il sindacato dei giornalisti scende in piazza. Gli italiani storcono il naso di fronte alle proteste dei giornalisti, e i motivi sono semplici.
Primo, noi non godiamo di buona fama, da sempre: quando il giovane Mussolini teneva i primi comizi in Romagna, chi non era d’accordo con lui gli urlava, per zittirlo, «zurnalest», giornalista, che era sinonimo di contaballe. Secondo, troppe volte ci siamo riempiti la bocca di espressioni come «diritto di cronaca» e «libertà di stampa»: una tronfia retorica servita anche a coprire qualche nefandezza.
Pure questa volta, quindi, molti lettori penseranno che la protesta dei giornalisti è una protesta corporativa. Di bottega. Non hanno tutti i torti perché sulle intercettazioni abbiamo spesso dato, negli anni passati, il peggio di noi. Abbiamo pubblicato conversazioni private, anzi intime, allo scopo di solleticare i più bassi istinti, quando non di mettere alla gogna qualcuno. Storie di letto e di corna sono state messe in pagina con la foglia di fico del diritto di cronaca. Ben venga quindi - penseranno in molti - una legge che dia una bella regolata.
D’accordissimo. Ma che cosa prevedono il ddl Alfano e i dodici emendamenti? Innanzitutto diciamo ai lettori che in Italia informarsi sulle leggi in gestazione non è difficile: è impossibile, se non ti puoi permettere un avvocato che sta al tuo fianco, con i codici e chissà quante altre leggi precedenti in mano. Il testo completo del primo emendamento, ad esempio, è il seguente: «Sopprimere il comma 4. Conseguentemente, al comma 5, sopprimere il capoverso 2-bis». Che cosa vuol dire? Boh. Uno specialista della materia ci ha spiegato che con questo emendamento, di fatto, il contenuto delle intercettazioni non può essere pubblicato neanche per riassunto. Non è che la lettura del ddl sia più semplice. Ad esempio l’articolo 27, che fa riferimento all’articolo 25-octies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, specifica che «si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a trecento quote». Anche qui: che cosa vorrà dire?
Arabo per tutti. Eppure introduce una novità rivoluzionaria. Vuol dire che d’ora in poi gli editori dei giornali saranno ritenuti corresponsabili dei giornalisti e, in caso di pubblicazione di intercettazioni, pagheranno ammende da 65.000 a 465.000 euro. Cifre da stroncare i bilanci di molti giornali, e che forse sarebbe stato meglio chiarire in euro anziché in «quote» (ma questo del linguaggio delle leggi è un problema generale di trasparenza che giriamo al ministro della Semplificazione).
Torniamo a noi. Tradotte in termini comprensibili, le novità principali della nuova legge in gestazione sono, per i giornali, queste: 1) fino all’udienza preliminare si può scrivere solo ciò che è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare, nella quale non possono essere inserite le intercettazioni; 2) dopo il rinvio a giudizio o il prosciolgimento il giornalista può scrivere delle intercettazioni ma solo per riassunto, senza virgolettati; 3) delle trascrizioni integrali si potrà avere notizia solo durante il processo pubblico; 4) come detto, per la prima volta anche gli editori saranno considerati responsabili, e questo comporta che un editore, a seconda del proprio bilancio e del proprio interesse, potrà decidere se gli conviene far pubblicare una notizia oppure no. Insomma decide l’editore, non il direttore del giornale.
Di fronte a tutto questo sono stati evocati la censura e il fascismo. Iperboli che non aiutano a capire. Però non c’è dubbio che se passa questa legge potremo scrivere che tizio è stato arrestato per il tale reato, ma non in base a quali indizi (per quattro quinti, infatti, le indagini ormai sono fatte con le intercettazioni). Il dubbio di un possibile errore (o anche, perché no?, di un possibile arresto strumentale) resterà fin dopo l’udienza preliminare; e solo al processo pubblico conosceremo il contenuto delle intercettazioni, cioè le prove.
Si obietta che all’estero (in Francia e in America, ad esempio) la pubblicazione delle intercettazioni è sempre stata vietata. È vero. Ma è anche vero che in quei Paesi i processi pubblici cominciano in tre mesi, non in tre anni come da noi. Colpa della lentezza della magistratura? Sì, anche quello; così come è vero che i pm potrebbero fare pure indagini tradizionali, e non solo al telefono. Diciamo insomma che, così come noi giornalisti, anche i magistrati debbono fare un esame di coscienza.
Ma di fronte a tutto questo sarebbe stata auspicabile una legge che proibisse la pubblicazione di tutto ciò che non ha rilevanza penale, di ciò che può compromettere le indagini, di ciò che offende dignità personali. Ma questa legge vieta tutto, anche la pubblicazione per sintesi delle prove che hanno portato a un arresto. Delle inchieste della magistratura non è che non conosceremo più i coté pruriginosi: non conosceremo più quasi nulla. Ecco perché non è un problema dei giornalisti, ma di tutto il Paese.
«La Stampa» del 28 aprile 2010

Padri e madri separati: le nuove leve di poveri?

di Germano Palmieri
La separazione dei coniugi, a parte le più o meno profonde e insanabili lacerazioni dei sentimenti e degli affetti coniugali, comporta una serie di conseguenze logistiche ed economiche, che nelle famiglie monoreddito o comunque sulla soglia della povertà producono effetti a dir poco devastanti, soprattutto se vi sono dei figli.
Dati per scontati i traumi e lo stress che la separazione provoca in questi (anche se in molti casi è preferibile, nel loro interesse, che i genitori pongano fine al rapporto piuttosto che continuare a convivere in un clima di infuocata conflittualità), fra i coniugi a rimetterci è quasi sempre il marito, dal momento che i figli, e con questi la casa familiare, vengono di regola assegnati alla madre, spesso per imprescindibili e comprensibili esigenze di assistenza del minore (si pensi a un bambino di pochi anni o addirittura di pochi mesi), con il padre tenuto a contribuire al loro mantenimento e a quello della madre se questa non ha mezzi sufficienti e non le è stata addebitata la separazione.
In particolare, il fatto che i figli minori vengano affidati quasi sempre alla madre, a parte eccezioni di conclamata impossibilità, in capo a questa, di accudirli ed educarli adeguatamente (per esempio per alcolismo o uso abituale di sostanze stupefacenti), riduce inevitabilmente, quando non mortifica, il ruolo del padre; un costruttivo ed efficace dialogo educativo, infatti, passa attraverso una presenza costante e non saltuaria del genitore, per cui se la madre, disattendendo gli accordi (nel caso di separazione consensuale) o l’ordine del giudice (nel caso di separazione giudiziale), non agevola gli incontri del padre con i figli, o addirittura scredita il genitore ai loro occhi, si creano le premesse per un allontanamento affettivo della prole da uno dei genitori.
Un altro atteggiamento, sanzionabile con l’ammonizione di cui al secondo comma, n. 1), dell’art. 709-ter del codice di procedura civile, è quello della madre che, deliberatamente ed ingiustificatamente, ostacola i rapporti tra padre e figlio, alimentandone il conflitto esistente (Tribunale di Firenze, 11 febbraio 2008). Se poi la madre addirittura impedisce i rapporti tra padre e figlio, il giudice, come vedremo, può disporre l’affidamento in via esclusiva al padre.
Quanto all’uscita del padre dalla casa familiare, questo effetto della separazione comporta che molti padri separati si vedano costretti a chiedere ospitalità a parenti e amici, o a ricorrere alla pubblica assistenza, quando non si riducono a vivere ai margini della società.
Per cercare di ovviare alle molteplici difficoltà dei genitori separati, col tempo si sono venute costituendo diverse associazioni (fra queste l’Associazione genitori separati www.genitoriseparati.it e l’Associazione italiana genitori separati www.aiges.org), alcune delle quali con il compito di prestare assistenza psicologica e legale, specificamente, ai padri separati, per aiutarli a superare questa fase traumatica della loro esistenza, anche attraverso la ricerca di una sistemazione abitativa decorosa, necessariamente propedeutica al reinserimento nella vita di relazione: fra queste l’Associazione Padri Separati www.padri.it, il gruppo Sos Padri Separati www.padriseparati.it. e l’Associazione Papà Separati www.papaseparati.it. ‎ Tutte queste organizzazioni sono presenti nelle principali città e i relativi indirizzi e recapiti telefonici sono ricavabili dal rispettivo sito Internet.
In questo Focus passeremo in rassegna, alla luce della più recente giurisprudenza, le fattispecie riguardanti gli aspetti conseguenti alla separazione personale dei coniugi, aspetti sostanzialmente riconducibili all’affidamento dei figli, all’assegnazione della casa familiare e all’assegno di mantenimento, non senza premettere che, nei casi in cui sia possibile farvi luogo, la separazione consensuale è senz’altro preferibile a quella giudiziale: sia perché non vengono resi noti, sia pure a persone tenute al segreto d’ufficio o professionale (giudici e avvocati, ma di regola vengono anche escussi testimoni, che non hanno quest’obbligo), fatti intimi e personali se non vere e proprie meschinità e bassezze, con conseguente, ulteriore inasprimento della tensione fra i coniugi, sia perché è sufficiente un solo avvocato che li assista entrambi (alcuni Tribunali accettano addirittura che il ricorso venga predisposto direttamente dai coniugi); sia, infine, perché si perviene alla sentenza con rapidità: circostanza non riscontrabile nella separazione giudiziale, che può richiedere tempi anche molto lunghi, tutto dipendendo dalle “munizioni” a disposizione dei contendenti e dall’abilità dei difensori (recenti statistiche parlano di una media di 130 giorni per arrivare alla separazione consensuale, contro 998 per definire quella giudiziale).
«La Stampa» del 26 aprile 2010

Per andar contro il governo va bene persino il Risorgimento

di Alessandro Gnocchi
Che tristezza vedere perfino le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia diventare l’ennesimo strumento con il quale la sinistra cerca di colpire il governo Berlusconi.
Fateci caso. Fino a pochi giorni fa, le attività del Comitato dei garanti incaricati di indirizzare e realizzare gli eventi erano un segreto per pochi carbonari. Adesso il Comitato è al centro dell’attenzione mediatica per via delle dimissioni di alcuni componenti (da Zagrebelsky a Conso passando per la Maraini e altri). La litania dei fuggiaschi che tocca sorbire quotidianamente è questa: da quando Ciampi non è più alla guida del Comitato stesso, non ci sentiamo garantiti, rischia di prevalere il «revisionismo leghista». Da notare che tutti gli altri componenti dell’istituzione sono trasecolati di fronte a questo voltafaccia improvviso. I lavori dell’assemblea, infatti, procedevano placidamente senza polemiche né livori. L’altro ieri anche Gad Lerner, da mesi interessato esclusivamente alla questione delle veline al punto da suscitare il sospetto di cercare ogni pretesto per parlare di ragazze, ha dedicato una puntata dell’Infedele a Garibaldi e l’Italia unita in cui si sono toccati vertici di comicità involontaria con Sergio Luzzatto, storico partigiano ma acuto, impegnato «per dare sostanza al dibattito» a spiegare i motivi per cui egli «vuole bene a Garibaldi».
Improvvisamente anche il Partito democratico, sonnacchioso sulle celebrazioni come su tutto il resto, si è svegliato da un lungo letargo e ha annunciato di aver allestito una specie di Comitato Ombra per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. La storiografia di sinistra ha sputato sul Risorgimento per decenni, adesso lo rivaluta con parole che non si sarebbero usate neanche nel Ventennio... Negli anni Settanta Rosario Romeo osservava come la maggioranza degli intellettuali italiani vicini al Pci sminuissero la nascita dello Stato italiano (la formula in voga era quella gramsciana del «Risorgimento tradito») con l’intento di imporre le forme della modernità comunista al posto dei caratteri nazionali. Ma fa niente, i tempi cambiano, restiamo al presente. Il Comitato Ombra è guidato Gianni Cuperlo, che dice di voler collaborare e contribuire ai festeggiamenti ufficiali. Tuttavia il collega Alfredo Reichlin ha già ammesso schiettamente la natura politica dell’iniziativa: «Gli storici ci daranno una mano, ma loro raccontano i fatti. Quella del Pd invece dev’essere una operazione tutta politica. Dobbiamo dare una risposta alla Lega». Alle prime riunioni, i vertici del partito si sono presentati compatti. Santo cielo: c’è in ballo la tenuta stessa del Paese, e quando la situazione si fa dura, i duri cominciano a giocare. Così, raccattata una manciata di studiosi, il Comitato Ombra ha invitato a partecipare alle sedute anche i dimissionari del Comitato ufficiale alimentando il sospetto che l’addio di questi ultimi avesse un obiettivo politico immediato e terra a terra. Con questa brillante (si fa per dire) operazione, Zagrebelsky e soci rischiano davvero di rallentare le iniziative già in cantiere. Per sostituirle con cosa? Con una chiacchierata, immaginiamo elettrizzante, con Pierluigi Bersani, Rosy Bindi e Massimo D’Alema. (A proposito: se come pare Giuliano Amato, presidente della fondazione Italianieuropei di D’Alema, prenderà il posto di Ciampi, il leader Maximo potrà influenzare sia il Comitato ufficiale sia il Comitato Ombra. Tombola).
Il giochino pare chiaro. La parola d’ordine, dai finiani a Vendola, dopo i risultati delle elezioni regionali, è una sola: sostenere che la Lega è la vera padrona dell’alleanza con il Popolo della libertà. Bossi non solo detterebbe la linea al governo ma eserciterebbe anche una sorta di egemonia culturale (ma i leghisti, per i saputelli di sinistra, non erano dei villani rifatti?) che si rifletterebbe anche nelle decisioni relative alle celebrazioni del 150°. L’obiettivo è seminare zizzania, niente altro. Se poi ci rimettono le penne i festeggiamenti dell’Unità d’Italia, amen, si potrà sempre accusare il governo di non aver fatto abbastanza.
«Il Giornale» del 28 aprile 2010

Se l’intellighenzia ortodossa finisce col diventare eretica

Sull’Unità bocciò la faziosità di Santoro. E ora fa a pezzi l’antiberlusconismo a priori. Ecco lo scrittore "duro e puro" che non accetta come compagni né Fini né Travaglio
di Luigi Mascheroni
Come esiste anche una destra ignorante, populista, persino xenofoba e illiberale, così esiste anche una sinistra intelligente, moderata, persino umile e simpatica. Ad esempio: Francesco Piccolo. Un uomo «di sinistra» tutto d’un pezzo, che a Silvio Berlusconi, a questo governo e a questa destra non ha mai fatto, né farà mai, sconti. Un intellettuale «organico», come si diceva una volta, capace di essere coscienza critica del Paese, e quando serve anche di se stessi, cioè della propria parte politica. E pronto, tutte le volte che serve, a parlare, a confrontarsi, a dialogare senza vergogna né spocchia con «l’altro». O perlomeno disposto ad ascoltarlo, senza pregiudizi. Caso abbastanza raro peraltro in Italia, dove appena uno scrittore di sinistra scrive una riga su un giornale di destra è condannato per «collusione» col nemico.
Temiamo che la cosa non gli faccia piacere, ma Francesco Piccolo - 46 anni, casertano trapiantato a Roma, un talento per la scrittura narrativa e cinematografica - rischia di passare per un intellettuale di sinistra che piace anche a destra. Dopo che Umberto Eco ha tagliato la barba, è anche uno dei pochi ad avere il physique del maître à penser.
Scrittore che ha pubblicato da Feltrinelli (ma anche da Einaudi, e senza sensi di colpa) raccolte di racconti e romanzi molto fortunati e ben recensiti, come Allegro occidentale o La separazione del maschio, e sceneggiatore che ha lavorato a film molto popolari e citati, come Il Caimano (e il prossimo Habemus Papam) di Nanni Moretti o Caos calmo di Sandro Veronesi, Francesco Piccolo ha più volte dimostrato di saper superare lo snobismo sprezzante e la presunzione di verità propri della sua casta, guadagnandosi silenziosi plausi dai «nemici» e altrettanto velati appunti dagli «amici». Come la volta, un anno fa esatto, che dalle pagine dell’Unità - dove scrive regolarmente - impallinò i “compagni” dopo una puntata di Annozero in cui Michele Santoro aveva usato il terremoto e i terremotati dell’Aquila come pretesto per l’ennesima accusa a Berlusconi: «C’era una forma evidente di violenza, di arroganza, tipiche delle persone che si sentono dalla parte giusta ma che per questo motivo sono convinte di poter esercitare una violenza, adottare una volgarità, un sarcasmo che io non solo non riesco a condividere, ma di solito, da queste serate, ne esco sempre con un sentimento di compassione per i maltrattati, anche se i maltrattati sono persone di cui non condivido una sola parola». Spiegando perché molti, a sinistra, non hanno l’onestà di esprimere il proprio dissenso verso Santoro: «Quindici anni di berlusconismo hanno prodotto un pensiero pericoloso e piatto, che è il seguente: tutti coloro che sono antiberlusconiani stanno dalla stessa parte (...) Se Santoro fa una puntata violenta e poco condivisibile sul terremoto, se Vauro disegna vignette volgari, non importa, poiché sono sotto attacco del nemico, bisogna per forza stare dalla parte loro. E quello che ti piace per davvero, non conta più».
Intellettuale così anomalo per i salotti-snob da sembrare normale (non disdegna i talent show e i reality, e gli piacciono persino i kolossal americani come Avatar), e così ortodosso per il popolo anti-Cav da apparire eretico (proprio in nome della purezza delle proprie idee non accetta di stare negli stessi cortei con i grillini o i Di Pietro che con la sinistra non c’entrano nulla), Francesco Piccolo ha l’incoscienza e il coraggio di smascherare una «casta» culturale e politica che nel nome dell’antiberlusconismo a prescindere si è staccata dal resto della società. Rimpiazzando semplici idee di senso comune con l’ignorante pregiudizio del profitto ideologico.
L’altroieri, sempre sull’Unità, a proposito della corte serratissima che certa sinistra sta facendo da tempo a Gianfranco Fini, Piccolo ha scritto: «La speranza del tramonto di Berlusconi è talmente pressante che si trasforma in una faziosità senza alcuna coerenza. Imbarchiamo dalla nostra parte qualsiasi essere respirante abbia da dire contro Berlusconi: che siano giornalisti di destra, o ex fascisti che hanno messo in piedi leggi violente contro l’immigrazione. Chiunque può diventare il nostro eroe, da un giorno all’altro; persino Bocchino». Una riflessione talmente banale nella sua lucidità ma così fastidiosa nella sua sfacciataggine da creare una coda polemica, ieri, sul Corriere della sera. Dove, in un’intervista, Piccolo tra le altre cose ha spiegato: «Se c’è uno che non è di sinistra, quello è Di Pietro: eppure tutti lì, ad applaudirlo»; che «Grillo è un maestro di populismo: siamo andati a fargli festa nelle piazze mentre ci stava facendo perdere le elezioni»; e che «Travaglio è uno che non ha niente di sinistra, e come lui tanti, tanti altri... ». Concludendo, amareggiato, che «così non facciamo più politica propositiva, ma sempre e solo invettiva (...) Alla fine ciò che conta è scagliarsi, aggredire».
Di fronte a una coalizione politica sinceramente e confusamente democratica, oltreché «faziosa» e «intollerante», che non ha più identità tanto da aggrapparsi a qualsiasi cosa di destra serva per stare galla, ci voleva un intellettuale duro e puro come Piccolo, romanziere-antropologo e incidentalmente “paroliere” di Nanni Moretti, per «dire qualcosa di sinistra». Anche a costo, come succederà, di passare per uno di destra.
«Il Giornale» del 28 aprile 2010