29 marzo 2010

Solitudine, elogio dell'artista nella torre d'avorio

Perché restare isolati, non farsi vedere, non disturbare, non mescolare la propria voce a quella degli altri, non aderire a iniziative civili e sociali, disertare salotti e pubblici raduni, è il miglior servigio che uno possa fare a se stesso e all'umanità
di Alessandro Piperno
Chissà perché le poche cose che davvero amiamo si somigliano in un modo così struggente. Quando nel 1999 mi imbattei in Pastorale Americana, pluricelebrato romanzo di Philip Roth, sentii aria di casa e una specie di euforia dolorosa. Che diavolo mi prendeva? Era quell’America promettente e feroce a farmi quell’effetto? O la sfida all’ultimo sangue tra il più esemplare dei padri e la più musona delle figlie? Oppure tutto dipendeva dal milieu giudaico-borghese con cui mi sentivo implicato? O forse era il modo stupefacente in cui Roth aveva montato il romanzo— degno di Quentin Tarantino — ad apparirmi, già di per sé, una rivoluzione del genere?
La verità, anche se l’avrei capito alla ventesima rilettura, è che c’era qualcosa di sorprendentemente proustiano nelle pagine di Roth. Un impasto di catastrofe e nostalgia. Un’essenzialità del cuore che si specchia nell’esuberanza della prosa. Non so se sia mai stato notato, ma la prima parte di Pastorale Americana non è che una citazione della fine della Recherche. Non solo i titoli si somigliano — Paradiso ricordato e il Tempo Ritrovato — ma anche gli ingredienti narrativi. C’è un attempato scrittore che torna in società dopo un sacco di tempo, e scopre di essere vecchio specchiandosi nell’atroce devastazione cui il Tempo ha sottoposto gli amici di una volta. Proust affida questa sconsolante esperienza al suo alter ego Marcel; Roth a Nathan Zuckerman. Marcel è appena uscito da una casa di cura. Nathan è fresco di un’operazione alla prostata che lo ha menomato. Entrambi sono fuori dai giochi, sostanzialmente impotenti. Due sopravvissuti.
Roth è talmente consapevole del debito che ha con Proust che, per rimetterlo in riga e toglierselo dalle scatole, lo prende perfidamente in giro. Fa assaggiare a Nathan un farinoso dolcetto della sua infanzia sperando che esso gli faccia lo stesso effetto miracoloso della famosa madeleine proustiana: liberandolo dalla paura della morte. «Mangiai, dunque, avidamente, ingordamente, non volendo limitarmi, nemmeno per un attimo, nel vorace accumulo di grassi saturi; ma senza avere, infine, la stessa fortuna di Marcel». Qualche tempo fa J. M. Coetzee ha definito il Roth de Il teatro di Sabbath e di Pastorale Americana (cui il Roth attuale non potrebbe neppure lustrare le scarpe) un «romanziere di autentica portata tragica», capace di raggiungere «vette shakespeariane». Parole che si attagliano al Proust del Tempo Ritrovato, e per le stesse ragioni.
La vita dei pochi scrittori realmente significativi è tutta tesa alla ricerca di quell’intensità shakespeariana: Ivan Il’ic di Tolstoj, I demoni di Dostoevskij, Il castello di Kafka, la trilogia di Beckett, insomma quel tipo di roba lì. C’è sempre un’aria di funebre grandioso sfacelo.
Marcel che dopo tanto tempo torna a far visita ai Principi di Guermantes e Nathan che partecipa, dopo quarant’anni, al raduno dei vecchi compagni del liceo, sono letteralmente trasfigurati dal fuoco di quell’intensità. Un cocktail micidiale di distacco e struggimento. Di frivolezza e solennità. Di energia e senso della morte. Il narcisismo è scomparso. Che senso ha tirarsela se un piede ce l’hai nella fossa e l’altro nel passato? Non ti resta altro che un cocente desiderio violento di capire come stanno le cose.
È come se Marcel e Nathan ci parlassero dal regno dei morti. E chissà che tutta quell’intensità non si spieghi con la reclusione. L’eremitaggio: ovvero la solitudine in cui Marcel e Nathan sono vissuti negli ultimi tempi e la solitudine a cui stanno per tornare. «I veri libri», scrive Proust proprio nel Tempo Ritrovato, non sono «figli della piena luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio». E molte centinaia di pagine prima aveva definito se stesso «lo strano essere umano che, in attesa che la morte lo liberi, vive con le imposte chiuse, non sa niente del mondo, resta immobile come un gufo, e proprio come un gufo vede chiaro solo nelle tenebre».

Nostalgia e paradiso
I nostri tempi non favoriscono la concentrazione. O almeno non quella di cui uno scrittore avrebbe bisogno. IMarcel e i Nathan oggigiorno scarseggiano. Forse per il moltiplicarsi delle sollecitazioni narcisistiche: festival, tv, radio, teatri, tripudianti spregiudicate groopie… Tutto congiura a titillare l’infinita vanità dello scrittore… In questo non ci sarebbe niente di male se non andasse a scapito della concentrazione. Il rischio per chi non fa come quel gufo del Narratore— e non se ne sta un po’ per conto proprio — è di finire con il lasciarsi suggestionare dai gusti corrivi e dai malsani filisteismi della folla. La maggior parte dei lettori chiedono di essere consolati e rassicurati. Il che spinge la maggior parte degli scrittori a cedere all’impulso di mettersi lì a consolare e a rassicurare.
Gli scrittori sul palco di un festival, almeno per il pubblico in sala, sono perfettamente intercambiabili. Te ne stai là sopra e sai cosa si aspetta la gente da te: ha avuto la generosità di venire a sentire le tue pallose elucubrazioni, talvolta ha persino dovuto pagare il biglietto e ora vuole che tu gli serva qualche proclama imbelle. Pretende accorate predicazioni o generiche denunce. Vogliono che tu gli dica che il solo fatto di leggere qualche libro faccia di te e di loro persone migliori di tutte le altre. Vogliono sentirsi parte di un’élite intellettualmente emoralmente superiore. Ridono per finta alle tue battute che non fanno ridere. Vogliono sentirsi brillanti perché ascoltano una persona che dovrebbe essere brillante (altrimenti non staresti là sopra). È così che avviene che piccoli Tartuffi crescano e si affermino. Ma anche che un grande autore si perda nel diuturno smercio di civilissime banalità. Chissà, per esempio, se la ragione per cui alcuni dei più celebrati scrittori israeliani— con alcune smaglianti eccezioni— da qualche tempo a questa parte non imbroccano più un libro decente non sia connessa alla voga che li ha consacrati. Come se, a forza di pontificare sul conflitto israelo-palestinese e sui diritti umani violati, avessero dimenticato quello che sono profumatamente pagati per fare e che fanno sempre peggio: scrivere buoni libri.
Ci vuole fegato per non cedere alle lusinghe mondane (ecco, mi sono ridotto a parlare come un sacerdote!). Bisogna essere dotati di un certo spirito per non cedere alla fatuità della politica, e alla magniloquenza cui molto spesso la politica si accompagna. Bisogna avere un sacco di fiducia in se stessi per non cercare il conforto di sentirsi parte di una consorteria. Proprio perché l’isolamento è deprimente laddove, invece, la condivisione può rivelarsi esaltante, sono pochi quelli che riescono a bastare a se stessi. E a tenersi in disparte.
Il grande scrittore jugoslavo Danilo Kiš ha visto in Nabokov il campione di questi altezzosi solitari che «non hanno scommesso sull’istante, piuttosto sull’eternità». Proprio perché per Nabokov «la storia rappresenta l’apparenza dell’apparenza». E sentite come Kiš chiude il cerchio del nostro discorso: «Tutta l’opera di Nabokov non è che una proustiana Ricerca del tempo perduto, esploso e frantumato, e le farfalle, quelle dei libri e quelle di cui andava a caccia nel vasto mondo (…), altro non sono che il segno dell’eterna nostalgia, la sola prova che il paradiso è esistito».
Paradiso e nostalgia. Vedete? Eccone un altro che dall’aldilà prova a gettare un occhio da questa parte della barricata. Non bastavano Marcel e Nathan. Ora c’è anche Vladimir che, a dispetto degli altri due, con la sua famigerata autoironia, dà minor peso alla propria scelta isolazionista, mettendone in luce gli aspetti edonistici. Raccomandando «non come prigione dello scrittore ma solo come suo indirizzo permanente, la vituperatissima torre d’avorio, purché ovviamente fornita di telefono e di ascensore». E, vorrei aggiungere io, di sigari e di qualche cofanetto di Doctor House o de I Simpson.
Ma a proposito di metafore ornitologiche sentite un po’ questa. Da una lettera del giovane Flaubert a Louise Colet: «Non sono l’usignolo, ma la capinera con il suo grido acre che si nasconde nel profondo del bosco per non essere sentita che da se stessa». Flaubert vuole stare per i fatti suoi. Sta scrivendo Madame Bovary (dico Madame Bovary!) nell’umida pace della sua Croisset, e tutti quanti— amici e amanti— lo reclamano a Parigi, dove le cose accadono, dove la gente à la page si incontra scambiandosi idee e opinioni interessanti. Ma il giovane, altezzosissimo Flaubert non ci sta. Non li vuole vedere. Dalle sue lettere capiamo che non ce n’è uno che non gli faccia schifo: disprezza Lamartine, disprezza Musset, disprezza davvero tutti. La cosa che odia più al mondo è il fatuo cicaleggio dei cenacoli letterari. Vive solo per il giro delle sue frasi. Gli interessano le sue frasi più di qualsiasi altra cosa nell’universo. Che c’è di male in questo?
Ogni tanto mi capita di leggere qualche nostalgico peana sulla società letteraria che non c’è più. I tempi di Moravia, di Pasolini, della Morante. I caffè. Le lunghe conversazioni. I viaggi. Mi prende una tale nausea e un tale disgusto. Provate a immaginare quale nido di vipere fosse. Provate a immaginare gli snobismi, le ipocrisie, le frustrazioni. Non serve leggere Massa e potere di Elias Canetti per capire che anche imigliori messi in un gruppo danno il peggio di sé. Vengono in mente le parole che Molière mette in bocca ad Alceste, il suo meraviglioso misantropo: «Non c’è niente che odii tanto quanto le contorsioni di questi grandi funamboli delle dichiarazioni di amicizia, questi affabili dispensatori di frivoli abbracci, questi accattivanti dicitori di parole inutili, che con tutti fanno a gara a chi fa più cerimonie, e che trattano allo stesso modo il galantuomo e il cafone».
Sì, è così che funziona là fuori: non si fa alcuna distinzione tra il galantuomo e il cafone. Molière lo sapeva. Molière, il saltimbanco, ne soffriva. Erano i tempi di Port-Royal. Di giansenismo imperante. La gente aveva una gran voglia di chiudersi in convento. Un secolo prima Montaigne (il più grande recluso della storia, altro che Salinger) si era ritirato dalla vita pubblica per scrivere cose di intelligenza e lucidità esemplare. Ritirarsi dalla vita pubblica era stato il prezzo da pagare a tutta quell’intelligenza e a tutta quella lucidità. Ecco perché dico che la retraite (così la chiamava Montaigne) non è un vezzo di alcuni letterati ma un’esigenza dello spirito. Una prova di integrità e indipendenza che uno deve dare a se stesso, non certo al mondo.
In una recente confessione intima, George Steiner si chiedeva con vezzoso rincrescimento: «Quale miopia, quale impulso autistico mi ha portato a considerare ogni collettivo, fosse esso un comitato o una folla, un’accademia di studiosi o una squadra sportiva, intrinsecamente sospetto? Quale arroganza preventiva (…) ha fatto di me un "inassociabile" e mi ha convinto che se gli altri sono d’accordo con me, vuol dire che sto dicendo delle banalità o delle cose insensate? Come mai ho deciso di rifiutare di aggiungere la mia firma a manifesti programmatici, appelli, proteste con le cui idee e istanze in gran parte concordo?».
Rispondere a Steiner non è mica difficile: stare soli, non farsi vedere, non disturbare, non mescolare la propria voce a quella degli altri, non aderire a iniziative sociali, disertare i pubblici raduni, è il miglior servigio che uno possa fare a se stesso e alla comunità. In fondo la socialità è sopravvalutata. E tra filantropia emisantropia — a dispetto di quel che dicono i dizionari— non c’è mica tutta questa differenza.
«Corriere della Sera» del 28 marzo 2010

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