09 marzo 2010

Risorgimento senza popolo

Franco Della Peruta smonta le polemiche: «Né colonizzazione né anticlericalismo. Ma le masse rimasero estranee»
di Edoardo Castagna
Lo storico: «Collocando i fatti nel loro contesto non emergono spinte anticristiane, anche se allora la Chiesa fu oggettivamente ostile all’unificazione Poi i credenti entrarono con buon senso e capacità nello Stato»
Colonizzazione del Mezzogiorno? «Forzature, il Sud versava già in uno stato di profonda arretratezza».
Risorgimento anticattolico? «Ma no: solo che i cattolici non furono, generalmente, tra gli elementi trainanti del movimento nazionale».
Imperialismo sabaudo? «Cavour ebbe il grande merito di riuscire a convogliare il consenso della diplomazia internazionale verso l’indipendenza italiana». Con il buonsenso e lo sguardo d’insieme propri dello storico di vasta esperienza, Franco Della Peruta riporta in poche battute alle giuste proporzioni tante delle note polemiche che si sono levate negli ultimi tempi intorno – e contro – il processo di unificazione del nostro Paese. Romano, contemporaneista di formazione marxista e docente di Storia del Risorgimento alla Statale di Milano, inquadra il cosiddetto 'anticattolicesimo' del movimento nazionale nel contesto dell’Italia ottocentesca: «Nel Risorgimento si sono fronteggiate sostanzialmente tre forze: quelle democratiche di Mazzini, quelle conservatrici del cattolicesimo non liberale, e quelle liberali moderate di Cavour, che poi sarebbero risultate vincitrici. I cattolici, cioè, non sono stati nel loro complesso una forza propulsiva del processo verso l’Unità, ma anzi in generale un momento di resistenza. Poi certo, c’erano anche i cattolici liberali, i Manzoni, i Rosmini, i Gioberti: ma erano in minoranza».
Perché?
«La Chiesa, dai vertici a buona parte del clero ( ma non tutto), è stata logicamente ostile al Risorgimento, perché metteva in discussione l’esistenza stessa dello Stato pontificio. Diverso, invece, l’atteggiamento del cattolicesimo liberale, che accolse i valori del movimento risorgimentale: quelli nazionali prima di tutto – considerare l’Italia come una nazione che doveva realizzare la propria essenza –, ma anche quelli liberali in senso ampio, che quei cattolici seppero cogliere nella loro portata innovativa » .
Le cose sono cambiate dopo l’Unità?
« Ovviamente la condanna dell’unificazione e dell’eliminazione dello Stato pontificio rimase. Tuttavia, pian piano la Chiesa si rese conto dell’irreversibilità del processo nazionale e che tornare indietro non era possibile. I cattolici si inserirono quindi nella vita politica italiana, e lo fecero con capacità e senso della misura: per esempio, non utilizzarono mai la presa sulle coscienze, che un clero diffuso come quello italiano poteva avere, per spingere i ceti popolari su posizioni di resistenza allo Stato unitario».
E la supposta ' colonizzazione' del Mezzogiorno?
« Il Sud non ha subito nulla: partiva già in condizioni di grave diseguaglianza rispetto al Nord. Economicamente, l’elemento caratteristico di quei decenni era la diffusione del capitalismo: ebbene, il capitalismo nel Mezzogiorno non attecchì. L’economia del Sud era prevalentemente agricola, eppure si basava esclusivamente sull’impiego di manodopera a basso costo. Al contrario, al Nord c’era un’agricoltura irrigua con forte concentrazione di capitali, tanto che il patrimonio zootecnico bovino – essenziale in agricoltura – era quasi tutto in Val Padana. Allo stesso modo, quel poco di industria che si andava formando in Italia era tutto settentrionale: la gelsicoltura con l’industria della seta, l’industria cotoniera... Solo in Piemonte, Lombardia e Veneto c’erano moderni opifici di grandi dimensioni, con centinaia di operai; al Sud solo presenze marginali e sporadiche – qualche gelso in Calabria, cotonifici nel Salernitano – che deperirono rapidamente » .
Si parla anche di ' colonizzazione' culturale, con un’unificazione che gli italiani del Sud non avrebbero voluto ...
« È vero che l’apporto popolare al movimento nazionale al Nord fu maggiore, con le Cinque giornate di Milano, le Dieci giornate di Brescia o la difesa di Venezia; ma in generale nel Risorgimento – questo va detto con forza – la partecipazione popolare fu scarsa » .
Dal punto di vista politico, c’erano alternative all’unificazione ' dall’alto', guidata dal regno sabaudo?
« C’era l’alternativa democratica. Il mazzinianesimo fu un fermento essenziale, senza il quale l’Unità si sarebbe fatta molto più tardi o non si sarebbe fatta. Però non riuscì mai ad avere una capacità di egemonia tale da guidare il processo, come invece seppe fare Cavour avviando una soluzione diplomatico- statuale. Il primo ministro piemontese riuscì a far convergere sul suo progetto di indipendenza nazionale la Francia di Napoleone III, e questo è stato il suo grande merito. Napoleone non voleva naturalmente l’Unità, ma fu costretto ad accettarla quando le cose si furono messe in movimento. Garibaldi invece non gode di buona fama come politico – né ambiva a esserlo –, ma in realtà era un capace politico intuitivo, che sapeva rendersi conto delle circostanze. La sua azione, dai Cacciatori delle Alpi ai Mille alle successive spedizioni, fu decisiva nel trascinare il Paese all’Unità. Senza dimenticare che i Mille alla battaglia del Volturno erano diventati quarantamila, tutti volontari, laddove un esercito regolare come quello del Piemonte aveva settantamila uomini in tutto » .
Un trascinatore, anche nel Mezzogiorno?
« Della piccola borghesia meridionale, sì; delle masse popolari, in realtà no – tranne i soliti osanna quando arrivò a Napoli » .
«Avvenire» del 10 marzo 2010

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