03 marzo 2010

A quando una vera legge sull’inno di Mameli?

di Cesare Cavalleri
Ho sempre avuto simpatia per il no­stro Inno naziona­­le, scritto nel 1847 da un ra­gazzo di vent’anni, Goffre­do Mameli, e musicato dal ventinovenne Michele No­varo. Mameli, fervente mazziniano, morì due anni dopo, il 6 luglio 1849, men­tre partecipava convinta­mente all’effimera Repub­blica romana, spenta dal­l’esercito francese. Colpito a una tibia, fu ricoverato al­l’ospedale, assistito dalla principessa Cristina di Bel­gioioso, amica di sua ma­dre, marchesa Adelaide Zoagli. E il veder associati i nomi di Cristina e di Gof­fredo è un altro motivo di simpatia, perché Cristina di Belgioioso è un personag­gio affascinantissimo, fer­vente patriota, femminista intelligente, scrittrice leggi­bilissima ancor oggi, capa­ce di aprire un salotto lette­rario frequentato da De Musset, Liszt e del fior fiore della cultura francese, quando fu costretta all’esi­lio a Parigi per sfuggire agli austriaci che le avevano confiscato i beni. Strano destino ha avuto la fama di Mameli, ben esem­plato dalle vicissitudine della sua sepoltura, descrit­te da David Bidussa nella ri­sentita introduzione all’an­tologia di pagine politiche ora pubblicata da Feltrinel­li (Goffredo Mameli, Fratel­li d’Italia , pp. 128, euro 6,50). Il corpo di Goffredo, imbalsamato da Agostino Bertani, fu dapprima depo­sto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimma­te a Roma. Nel 1871 venne trasferito al Verano, senza cerimonia pubblica: il nuo­vo Regno monarchico non poteva esporsi troppo ver­so un patriota repubblica­no.
Nel 1891, in occasione del monumento a Garibal­di sul Gianicolo, venne co­struito un monumento fu­nebre ancora al Verano. Si arriva al 1941, quando Mus­solini decide di far traspor­tare le spoglie nell’Altare della Patria: in attesa del termine dei lavori, il feretro viene ' provvisoriamente' collocato nella chiesa di San Pietro in Montorio, dove si trova tuttora.
Presenza ingombrante, dunque, quella dell’ardi­mentoso ragazzo? In vista del 150° anniversario del­l’Unità nazionale, il Consi­glio regionale della Regio­ne Toscana ha pubblicato tutti gli Scritti di Goffredo Mameli, a cura del proni­pote Nino Mameli (Edizio­ni dell’Assemblea, pp. 460, s.i.p., con un messaggio del presidente Napolitano). Ci sono le poesie, gli scritti po­litici ( Mameli collaborò a diversi giornali e alcuni ne diresse), l’epistolario. Con un’appendice di lettere di Mazzini che si rivolgeva al giovanissimo patriota con paterna dolcezza e ammi­rata colleganza, e una testi­monianza di Garibaldi che a Roma ebbe modo di co­noscere il valore di Goffre­do soldato. Le poesie, alcune dolenti per la perdita dell’amica Geronima Ferretti, costret­ta al matrimonio col ricco marchese Stefano Giusti­niani, di trent’anni più vec­chio, non sono particolar­mente memorabili, anche se un epigramma dedicato al suo professore di lettere, Paolo Rebuffo, si conclude con questi versi: '« quel va­so che rigurgita / di saper grande infinito / quel Re­buffo ch’io già udito / dir sciocchezze dalla cattedra / il Romanzo e le Canzoni / di quel ciuco di Manzoni».
Ardenti e toccanti le lettere, fino a quella del 2 luglio 1849, quattro giorni prima di morire, in cui vuole tran­quillizzare la madre: 'Sono in perfetta convalescenza comincio a mangiare e il medico mi ha detto che fra tre settimane sarò guarito'. Gli avevano amputato la gamba, dopo che nella feri­ta era stato dimenticato un turacciolo, fra le urla indi­gnate di Cristina di Bel­gioioso che misero a soq­quadro tutto l’ospedale.
Mameli aveva idee chiaris­sime sulla laicità dello Sta­to, distinguendo nella figu­ra di Pio IX il pontefice e il sovrano. Basti questo bra­no dell’articolo Noi italiani vogliam essere nazione, pubblicato sul giornale Pal­lade l’ 11 gennaio 1849: «Grandissima parte de’ ma­li romani e italiani, venne dall’imbarazzo che ai papi davano le cure del princi­pato. Quando il Papa potrà tornare ai suoi santi uffici di Sacerdote e più non sarà di­stratto da mondani pensie­ri, la religione rifulgerà del suo primo splendore, i po­poli saluteranno il Vaticano come sede vera del vange­lo di Cristo e il Campidoglio come oracolo di nuova sa­pienza civile, come porto di salute a tutte le genti italia­ne ». A proposito di provviso­rietà: Fratelli d’Italia non è ancora l’inno ufficiale ita­liano. Speriamo in una leg­ge per il 150° dell’Unità.
«Avvenire» del 3 marzo 2010

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