19 marzo 2010

Prima Repubblica, capolinea d’Italia

È già tempo di "revisione" (e forse persino di nostalgia) per l’epoca pre-Tangentopoli, segnata dalle vicende della Balena Bianca, dell’Elefante Rosso e del Garofano. Ecco il ritratto che ne traccia chi li vide da vicino
di Giampaolo Pansa
Chi sono i cari estinti? Sono il pio Rumor, l’irriducibile Fanfani, l’enigmatico Moro, l’eterno Andreotti, l’aggressivo De Mita, il monacale Berlinguer, l’ardimentoso Craxi, il tenace Almirante, l’ambizioso Spadolini. Insomma, i superbig che hanno imperato nella Prima Repubblica, quella che va dal 1946 al 1992, poi perita nel terremoto di Tangentopoli. Insieme a Ciriaco De Mita, soltanto uno di loro è in vita: Giulio Andreotti, che nel gennaio 2010 ha compiuto 91 anni.
È stata una storia buona o cattiva, gloriosa o infame, utile all’Italia o soltanto di danno al Paese? La risposta non è facile. E non intendo darla. Chi avrà voglia di leggere I cari estinti la darà a se stesso, come è giusto.
Ma è proprio questa domanda a essere all’origine del libro che avete in mano. Me l’hanno presentata tante volte, nelle interviste e nei dibattiti alla radio e alla televisione. Per una ragione precisa. La Seconda Repubblica, quella di oggi nata dopo Tangentopoli, ha iniziato presto a mostrare tutti i suoi difetti pesanti. A quel punto, molti hanno cominciato a chiedersi se non fosse vero un vecchio adagio: si stava meglio quando si stava peggio.
L’adagio vuol dire che, forse, la Prima Repubblica è stata migliore della Seconda. È indubbio che i cari estinti hanno finito la loro corsa nel baratro del finanziamento illecito dei partiti, delle tangenti, della corruzione diffusa. Ma non è altrettanto vero che le tangenti, i soldi illeciti alla politica e la corruzione continuano a devastare l’Italia odierna?
È il dilemma sul meglio e sul peggio a farmi pensare che poteva essere utile raccontare che cosa è stata la Prima Repubblica.
Ma prima di iniziare questo viaggio, per aiutare i lettori voglio mettere nero su bianco qualche punto fermo sui tre grandi protagonisti della Prima Repubblica. Ossia sui partiti che, dopo averla creata, l’hanno dominata per decenni.
Il primo è la Democrazia cristiana. È stata quasi sempre alla testa del Paese. Dei 50 governi che si sono succeduti dal giugno 1945 all’aprile 1992, ossia all’inizio di Tangentopoli, ben 45 hanno avuto presidenti dicì. Alcide De Gasperi è stato premier per otto volte, Andreotti per sette, Fanfani per sei, Moro e Rumor per cinque. Soltanto due laici e un socialista ce l’hanno fatta ad arrivare a Palazzo Chigi: Ferruccio Parri per sei mesi nel 1945, Spadolini e Craxi due volte ciascuno.
La Prima Repubblica è vissuta nel segno dell’eternità del potere bianco. Con tutti i vantaggi e tutti i guai connessi alla mancanza di un’alternativa alla Balena democristiana. Il bilancio di questo superpotere l’ha tracciato in quattordici parole un manager famoso, ricordato in questo libro: Eugenio Cefis, il successore di Enrico Mattei all’Eni e poi presidente della Montedison. Quando la Prima Repubblica era già finita, spiegò: «Della Dc possiamo dire qualunque cosa. Ma senza i democristiani saremmo diventati tutti comunisti».
E forse, aggiungo io, non avremmo vinto lo scontro con il terrorismo rosso e nero. Salvando la democrazia parlamentare che, per fortuna, ancora abbiamo. L’unico contropotere che la Dc non ha sconfitto è la mafia. Cresciuta anche all’ombra della Balena Bianca, spesso troppo restia a combattere Cosa Nostra.
Il secondo protagonista è il Pci. Penso che il Partitone Rosso abbia più colpe che meriti. Nel primo dopoguerra, poteva diventare un partito socialdemocratico e riformista. Come è avvenuto per altri movimenti di sinistra nell’Europa occidentale. Purtroppo, non ha voluto fare questa scelta. Ed è rimasto inchiodato a una ideologia già fallita e a una dannosa fedeltà all’Unione Sovietica.
È stata questa sudditanza quasi religiosa a impedirgli di diventare una forza di governo. Il Pci era robusto e capace di conquistare regioni e città importanti, ma non l’Italia. A Palazzo Chigi non ci è mai arrivato. I comunisti hanno sempre sostenuto che erano gli Stati Uniti a impedirlo. Però la verità è assai più banale: sono stati gli elettori a sbarrargli il passo. Per la semplice ragione che non si fidavano delle Botteghe Oscure.
In questo modo il Pci si è rivelato un blocco conservatore. L’espansione elettorale ne aveva fatto un elefante immobile. In grado soltanto di ostacolare qualunque tentativo di rendere migliori le nostre istituzioni. La retorica che la sinistra continua a fare sul mitico Pci non regge di fronte a una responsabilità tanto grave.
Il terzo protagonista è il Psi. Soprattutto per merito del più importante dei segretari socialisti, Bettino Craxi. Ecco una figura rimasta prigioniera della fase terminale del suo percorso politico: la decadenza, l’esilio e la morte ad Hammamet, in Tunisia, dovuti a Tangentopoli.
Ma Craxi non è soltanto il leader finito nella rete di Mani Pulite. È stato l’attore di un progetto coraggioso che mirava a sottrarre il suo partito e l’Italia alla tenaglia paralizzante dei due colossi, il democristiano e il comunista.
Ha visto prima di tutti che il Paese avrebbe perso ogni spinta propulsiva se non si fosse realizzata un’alternativa vera alla Dc. E non soltanto una staffetta temporanea a Palazzo Chigi.
Craxi pensava, con ragione, che soltanto il Psi, e non il Pci, avrebbe potuto raggiungere quell’obiettivo. Per questo ha dovuto affrontare l’ostilità aggressiva, e spesso volgare, tanto della Balena Bianca che dell’Elefante Rosso. Sfociata in una guerra concordata fra i due giganti. Divisi su tutto, ma uniti nel proposito di spiantare il Garofano socialista. E distruggere il suo leader, dipinto come un pericolo per la democrazia italiana, una sciagura per il paese.
Questi tre partiti avevano un tratto in comune. Erano stati i vincitori della guerra civile contro il fascismo che negli anni Venti li aveva annullati. Dopo la Liberazione hanno ripreso il loro posto. Ma non hanno saputo vincere la seconda guerra che li attendeva: quella per la buona politica e per il governo del Paese.
Anno dopo anno, sono di nuovo caduti nel baratro della sconfitta. Questa volta non per l’assalto di una forza autoritaria, ma per l’incapacità di fermare la loro agonia. Hanno corrotto se stessi e il Paese. Hanno pompato miliardi dal pozzo nero delle tangenti. Hanno distrutto la fiducia di tanti cittadini nella correttezza della politica. E dopo il sole della vittoria, hanno visto calare la notte della sconfitta. Sino allo sfacelo finale, decretato dai magistrati di Mani Pulite, a partire dall’inizio del 1992.
Questo libro esce in un momento di pericoloso marasma della nostra vita politica. La Seconda Repubblica, nata sulle macerie di Tangentopoli, appare sempre sul punto di tirare le cuoia. Dunque è inevitabile la domanda che ho già proposto: è stata migliore la prima o la seconda? Dobbiamo rimpiangere «i cari estinti»?
Non è un interrogativo privo di senso. Persino qualcuno dei leader odierni guarda sempre più spesso al passato con nostalgia. Un esempio paradossale è quello del presidente della Camera, Gianfranco Fini, il più noto dei postfascisti, fondatore insieme a Silvio Berlusconi del Popolo della libertà.
Fini sostiene di voler guardare al futuro. Ma nel dicembre dell’anno scorso, si è lasciato sfuggire una confessione: «Vorrei che il Pdl fosse come la Dc della Prima Repubblica, un partito del quale rimpiango l’ampio dibattito».
Per la verità, l’ampio dibattito nella Balena Bianca aveva subito dato origine a un sistema correntizio destinato a sfasciare Mamma Dc.
«Il Giornale» del 19 marzo 2010

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