02 marzo 2010

NarraVita: il romanzo copia la realtà (e la realtà protesta)

Protagonisti, libri, arte, dibattiti, racconti: il crocevia insidioso tra verità e fantasia
di Paolo Di Stefano
Che rapporto c' è tra narrativa e verità? Può la letteratura saccheggiare le vite (proprie e altrui)? Ha detto Haruki Murakami: «Un gentiluomo non parla di ex fidanzate, né di tasse». Ma lo scrittore non è un gentiluomo. Il reality book, evoluzione di un genere
Devo cominciare parlando di un fatto che mi è successo qualche anno fa. Non amo usare la prima persona, ma questo è un caso speciale, semplicemente perché non mi è noto un fatto analogo, anche se sarà capitato a chissà quanti scrittori. Dunque, è successo questo. Nella primavera del 2004 mi trovavo a Ortigia per fare un' inchiesta sui cambiamenti di Siracusa dalla monocultura del petrolchimico verso il turismo artistico. Quella mattina, un imprenditore del restauro, Mario Bonomo, mi accompagnò per una visita attraverso i palazzi ristrutturati di Ortigia. A un certo punto suonammo a un portone e venne ad aprirci una signora sulla quarantina. Quando mi presentai, il volto gentile della signora cambiò di colpo espressione: «Ma lei ha scritto un romanzo che si intitola Tutti contenti?». Risposi di sì, che ero proprio io. La signora era moglie di un tipografo che si chiamava Motta (non ricordo se Antonio), esattamente come il protagonista del mio romanzo, uscito un anno prima. Proprio come lui, era un tipografo e da qualche settimana aveva abbandonato la famiglia con un paio di figli. Inoltre, come il Nino Motta del mio romanzo - che però era fuggito dalla famiglia partendo da Milano e dirigendosi verso Sud - era siciliano, per la precisione del Siracusano (probabilmente dello stesso paese, Avola, ma su questo non potrei giurare). Io non sapevo che da quelle parti ci fosse un Motta, tipografo, in fuga dalla famiglia. Il nome, la professione, la fuga, il luogo d' origine erano frutto della mia immaginazione (anzi, il nome l'avevo inventato per mascherare una persona realmente esistente che aveva un passato simile a quello del mio personaggio). Del resto, non avrei nemmeno potuto saperlo, perché la consegna del libro alla Feltrinelli era avvenuta prima che il tipografo Motta in carne e ossa lasciasse moglie e figli. Insomma, i dati anagrafici coincidevano alla perfezione, e a mia insaputa. La signora mi raccontò di essere rimasta sconvolta da quelle coincidenze e volle sapere dove avevo attinto quei dati. Se avesse sospettato davvero che il mio libro si fosse ispirato alla sua storia familiare, avrebbe potuto denunciarmi, magari con qualche speranza di successo. Un paio di mesi fa, mi hanno comunicato che il traduttore francese che si stava occupando di Tutti contenti è scomparso interrompendo il lavoro e senza lasciare tracce all'editore, ma questo è un altro discorso: non si chiamava Motta, non era un tipografo e, che io ne sappia, non aveva famiglia.
Questa lunga premessa apre le domande di cui tratterà questo articolo: che rapporto c' è tra letteratura e verità? Fino a che punto la letteratura può rapinare la realtà violando la privacy di persone in vita (e non solo)? C'è un limite etico che impone di fermarsi prima? Certo, prima di tutto c' è un limite giuridico, che vale anche per la letteratura e che viene regolato da codicilli e commi, ma si tratta di limiti che la letteratura ha spesso ignorato. Non si contano le querele. Nel 1996 un chirurgo pisano denunciò Antonio Tabucchi per avere inserito in Requiem un personaggio che gli somigliava molto e che nel racconto, ambientato in una allucinata Lisbona anni ' 30, muore per un tumore mal curato da uno «che ci capisce appena qualcosa di tonsille, di cancri non ci capisce niente, credo». Nel 1997, Silvana Grasso fu condannata a pagare 60 milioni di risarcimento per diffamazione agli eredi di un tale Giacomo Navarra (morto da anni), che la scrittrice siciliana mise in scena nel suo romanzo Il bastardo di Mautana sotto (non troppo) mentite spoglie con il nome di Rosolino: era un pazzo che uccise la madre e dilapidò il patrimonio di famiglia. Nico Orengo fu querelato da un immobiliarista ligure, il quale si era riconosciuto in un personaggio de Gli spiccioli di Montale che aveva cancellato un uliveto per costruire un supermercato. Non siamo nell'autobiografia, ma nella fiction. Eppure anche la finzione ha ricadute impreviste nella realtà (e nei tribunali). Qualche anno fa il romanzo Esra del tedesco Maxim Biller fu ritirato dal mercato perché vi compariva un'esponente dei Verdi, ex compagna dell'autore, ritratta in imbarazzanti situazioni intime. Biller, tra l'altro, aggiunse una frase di lei che aveva un sapore beffardo: «Non mi piacerebbe ritrovarmi un giorno in uno dei tuoi romanzi mentre ti mostro il mio seno». Il caso scatenò, contro la magistratura, una levata di scudi degli intellettuali, tra cui Günter Grass e Elfriede Jelinek. Le domande cui si accennava sono suggerite da due recenti fatti tra loro molto diversi. Il primo è la querelle scatenata dal romanzo d'esordio di Alessandro D'Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue, che prende spunto dalla storia (vera) di una ragazza di quindici anni morta per un tumore: l'autore ne venne a conoscenza cinque anni fa durante un'ora di supplenza in un liceo romano. Così, Roma è svaporata, il tumore al cervello è diventato leucemia, Irene è diventata Beatrice, protagonista di un romanzo che, come molti romanzi ispirati alla realtà, è andato per la sua strada, raccontando una vita malinconica di adolescenti. La madre della povera Irene, Francesca Bartolucci, lamenta di non essere stata consultata dall'autore del libro e accusa D'Avenia di avere tradito la tragedia di sua figlia, di averla semplificata e distorta con «un insieme di paradigmi e di frasi fatte». Lo scrittore ha rivendicato, sul «Corriere», con frasi anche un po' ingenue, il suo sacrosanto diritto di scrivere un romanzo ispirato alla storia di Irene e non quella storia. Il paradosso è che, probabilmente, se D'Avenia fosse rimasto fedele alla realtà, la signora Bartolucci non avrebbe reagito. Ma nessuno avrebbe mai potuto imporre a D'Avenia come scrivere il suo romanzo, nemmeno una madre piena di dolore.
L'altro caso recente è quello di Gad Lerner, autore di una bella, intensa, dolorosa autobiografia, Scintille, da cui viene fuori un padre (il suo) inattendibile, geloso, insopportabilmente risentito. Il quale padre, ottantatreenne, ha deciso di querelarlo (e forse poi di ritirare la querela). Ma qui quel che conta non è il percorso giudiziario, quanto le dinamiche emotive che spingono un figlio a puntare sulla letteratura per sanare una ferita intima, senza timori, crudelmente, mettendo in scena un genitore bilioso che a un certo punto rivendica di essere lui, e solo lui, «il vero Lerner». In una conversazione con Lerner (il «finto», cioè Gad) pubblicata sul «Corriere», Claudio Magris ricordava a questo proposito una frase di Thomas Mann: «La parola esatta ferisce sempre». Ci voleva coraggio per scrivere Scintille, il padre ancora vivente. E Lerner l'ha fatto a ragion veduta. A Magris diceva: «Cerco la pace, con mio padre e mia madre. Scintille è un protendersi verso di loro». Fatto sta che l'indiscrezione sul padre Moshé c'è. Ma un'indiscrezione postuma non sarebbe stata più vile? Certamente la decisione del Lerner figlio ha una sua urgenza ben visibile. Che alla letteratura basta, così come basta, forse, alla coscienza dello scrittore. Il grande scrittore giapponese Haruki Murakami inizia il suo L'arte di correre - una riflessione sulla corsa, ma anche un saggio sulla scrittura - con queste parole: «La regola vuole che un gentiluomo non parli delle sue ex fidanzate, né delle tasse che paga», per dire che lui, al contrario, se ne infischia del galateo. Come ogni scrittore che si rispetti, del resto: uno scrittore non è necessariamente un gentiluomo (Philip Roth parla dell'«indecenza della mia professione») e può liberamente parlare non solo delle ex fidanzate e delle imposte, ma anche dei genitori, dei figli, del vicino di casa, assumendosene le conseguenze emotive e poi giudiziarie. Gliene dà diritto la letteratura, purché sia tale, certo: «la parola esatta» di Mann. Lalla Romano, che per una lunga vita ha pagato l'azzardo di mettere in piazza i suoi complicati rapporti con il figlio Piero in uno splendido libro, La penombra che abbiamo attraversato, se ne è assunta tutta la sofferenza, ma senza pentirsi mai: «Io non temo il "vissuto" nel romanzo: la vita, - ha scritto - quale ci viene rivelata dalla scrittura, non ci ferisce più, non ci offende. È irrecusabile. La cosiddetta menzogna dell'arte è uno strumento che ha per scopo la verità. Così la sua crudeltà: la crudeltà dell' arte è innocente e riscatta l'indecenza della vita». Ma in genere gli scrittori tendono a camuffare, anche per ragioni di poetica, quel che rubano alla realtà. Paolo Volponi premette al suo primo romanzo, Memoriale, una nota: «I personaggi e i fatti sono immaginari; i luoghi e i paesi esistono. La "città industriale" non ha identità, anche perché l' autore non vuole che, con la pretesa di riconoscere una città o una fabbrica, si giunga ad attribuire soltanto a questa le cose narrate».
Da Gad a Gadda, cioè il suo esatto opposto: l'Ingegnere scrive un romanzo sulla sua famiglia e fa di tutto per mascherare luoghi e personaggi trasferendo dalla Brianza a un Sudamerica immaginario la storia della propria infelice adolescenza di «destinato al fallimento dallo egoismo narcisistico e follemente egocentrico dei predecessori (...)». Sappiamo quale «cognizione del (proprio) dolore» l'abbia spinto a mettere in scena il conflitto con sua madre al punto da prefigurare un alter ego travestito (Gonzalo Pirobutirro) che nel finale del libro commette probabilmente un matricidio. Una bellissima lettera a Gianfranco Contini tradisce tutta la paranoia dello scrittore: Gadda chiede al grande critico di stemperare, nel suo saggio introduttivo alla Cognizione, il parallelo troppo esplicito tra Gonzalo-Carlo Emilio e l'oltraggio di Mademoiselle Vinteuil (che nella Recherche sputa sul ritratto del padre morto). E lo prega anche di sostituire il toponimo reale, Longone (Lukones nel romanzo), con una perifrasi. Gadda, nell'acme dell'angoscia, si dice certo che il saggio continiano risulterebbe «esplosivo e tragicamente atto a spezzare il cuore» ai suoi «familiari viventi, e abitanti di Lukones». Figurarsi chi mai, tra i congiunti di Gadda e i vicini brianzoli, avrebbe letto quel testo critico così erudito, per di più concentrandosi a decifrare ogni allusione. Ma la paranoia è paranoia: lo stesso Gadda confessava l'intenzione di «narrare intorbidando le acque» per depistare il lettore dalla sua reale esistenza. Già per il Diario di guerra e di prigionia si era fatto venire mille scrupoli e sensi di colpa per aver scritto nome e cognome di un suo amico, Ambrogio Gobbi, accompagnato dalla frase «è un gran porco, ma n' importe!». Gli scriverà per scusarsi tirando in ballo tristezze personali ed equivoci editoriali, mentre il Gobbi (che si era detto «lusingatissimo» per la citazione) rimarrà deluso accorgendosi che il suo nome è stato cassato nella seconda edizione.
Il pudore paranoico dell'Ingegnere può far sorridere, nell' epoca del Grande fratello. In effetti, oggi, nel marasma di confessioni private televisive, di reality show dove si spiattella a reti (quasi) unificate ogni sommovimento dell'animo e delle viscere (per non dire d'altro), la letteratura che affronta e sfida il privato, il patetico e spesso lo scandalo potrebbe uscirne depotenziata. Ma non è così. Di recente, è nato un filone letterario classificato come «autofiction» o «reality book». In Francia Philippe Forest ha raccontato la morte della sua figlia di quattro anni in un romanzo memorabile, Tutti i bambini tranne uno: «Ho fatto di mia figlia un essere di carta», scrive nell' ultima pagina. E ancora: «I segni dell' arte non stanno in un mondo diverso da quello in cui viviamo».
L'arte utilizza la realtà, a suo libero piacimento, anche scandalosamente, per farne altro: André Breton chiamò con il nome di Nadja una certa Léona Camille Ghislaine D. nata a Lille nel 1902 e internata in manicomio nel 1927 poco dopo la fine del rapporto con André. Non ancora quarantenne, Léona sarebbe morta in un ospedale psichiatrico. Il paradosso (apparente) è che quella ragazza in carne e ossa divenne per molti, grazie alla penna di Breton, l'incarnazione del surrealismo. Un libro fa vero scandalo, ha detto Philip Roth, solo se è scritto male.

Scrittore Paolo Di Stefano, inviato del «Corriere della Sera», ha pubblicato diversi romanzi, tra cui Baci da non ripetere (Feltrinelli 1994), Tutti contenti (Feltrinelli 2003), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008). Sempre per Rizzoli, uscirà in maggio una raccolta di interviste editoriali, «Potevi anche dirmi grazie».
I romanzi recenti da cui prende spunto questo articolo sono Scintille di Gad Lerner (Feltrinelli) e Bianca come il latte, rossa come il sangue di Alessandro D' Avenia (Mondadori). I libri diventati «casi giudiziari» sono: Requiem di Antonio Tabucchi (Feltrinelli), Il bastardo di Mautana di Silvana Grasso (Anabasi e poi Einaudi), Gli spiccioli di Montale di Nico Orengo (Einaudi). Il romanzo di Maxim Biller ritirato dal commercio in Germania, Esra, è stato pubblicato a Colonia dall'editore Kiepenheuer & Witsch nel 2003. Il romanzo autobiografico di Lalla Romano è La penombra che abbiamo attraversato (Einaudi). I libri di Carlo Emilio Gadda si trovano nelle opere complete Garzanti, a cura di Dante Isella. Nadja di André Breton è stato riproposto di recente da Einaudi, con introduzione di Domenico Scarpa. Lo scrittore francese Philippe Forest viene pubblicato in Italia dalle edizioni Alet: il suo ultimo romanzo si intitola L' amore nuovo.
«Corriere della Sera» del 28 febbraio 2010

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Confermo che mio Papà scrisse all'amico Gadda di essere rimasto deluso nel vedersi camuffato sotto altro nome.Con noi rise della paure di Gadda :"Darsi del porco,ridendo,fra commilitoni,non era un insulto!"
Tutta colpa di qualcuno che invece si era offeso..
Buona sera
Maria Angela Gobbi

marilena ha detto...

il romanzo di lalla romano è Le parole tra noi leggere non uello citato nell'articolo.