07 marzo 2010

Mario Luzi, il senso eroico e tragico della poesia

La realtà civile lo ha spinto a prese di posizione che non assume chi si gingilla con la lira in vetta al Parnaso Il cristianesimo dei «Promessi Sposi» gli sembrava stemperato in una morale consolatoria a uso popolare
di Carlo Carena
Anche Avvenire domenica scorsa ha ricordato la scomparsa, cinque anni fa, di Mario Luzi. E lo ha fatto con un suo splendido inedito che analizza il lungo divorzio della poesia dalla società per il suo orrore della città moderna, del suo bisogno di pensare fra sé e sé diversamente. Ma quel suo parlare da un punto di sicurezza e non dall’interno e con partecipazione alle cose, tanto più oggi dovrebbe rendere la poesia scontenta di sé.
Il discorso, del ’90, fa frusciare nel sottofondo una riflessione personale. La distanza del tempo profila Mario Luzi come una figura potente per la ricchezza quantitativa e per quella delle forme e di contenuti; importantissima per aver fatto da ponte, nella sua precoce e lunga attività, fra le due generazioni di poeti dell’arco centrale del Novecento. Ma, scrittore «fiorentino» ed «ermetico», Luzi non ha esitato a procedere verso una poesia ulteriormente sperimentale; come osservò Sergio Pautasso già una ventina di anni fa e come è più vero oggi alla luce delle sue ultime posizioni e produzioni, lirico suggestivo, egli non ha mai disgiunto il momento fantastico e poetico da quello riflessivo e critico, poiché la sua è «un’unica meditazione sulla vita», giunta alla fine a misurarsi con una realtà assai dinamica e complessa.
Egli stesso ha indicato a più riprese le linee portanti del suo itinerario, mai statico ma saldo in ogni momento sui principi. La vita come la storia è «una progressione verso il sapere» e il lavoro dell’uomo dentro la storia è l’aprirsi un varco verso la conoscenza, fonte di bene ma a volte fonte di male. Luzi ha sempre avuto e vissuto questa percezione dei contrasti insiti nella nostra esistenza e nel mondo stesso; della sproporzione fra le cose, della «terribile dialettica» in cui sono impigliate l’essenza del cosmo e ogni mossa dell’uomo. Per una vita intensa bisogna «morire alla vita», dare la propria vita (così il poeta nel fondamentale dialogo con Mario Specchio nel ’99).
È a questo insegnamento drammatico e insieme piano e confortante, come spesso avviene nella voce dei poeti veri, che si può ricorrere in forma diretta nelle prose così come lo si attinge nella forma più intensa della lirica luziana. Personaggio anche nella vita apparentemente assorto e remoto, chino e pensoso, ha vissuto ad ogni passo il suo e il nostro tempo sentendo che l’arte astratta da sé sola, conclusa in se stessa, è «poco probabile». La parola dev’essere per l’uomo un messaggio sul modo di orientarsi nel cosmo in cui si smarrisce; per servire a qualcosa, per essere qualcosa deve contenere «l’evento». Perciò questo poeta ha scandagliato e scavato nel reale, ne ha scoperto e interpretato per noi le simbologie che ci sfuggono; senz’esser certo, anzi, che la ricerca concluda a qualcosa, perché il mistero si ripresenta continuamente e continuamente stimola. C’è un suo brano esemplare sul mare. Il mare, egli dice, è un profondo laboratorio, dove i principi vitali originari sono una fabbrica di vita e anche di futuro; lì «lavora cosmicamente» il datore di vita, il latore di messaggi, quello che è «il pesce dell’antico cristianesimo». Il cristianesimo stesso gli si è e ne è stato rivelato sempre più prepotentemente; la realtà civile lo ha spinto a prese di posizioni che non prende chi si gingilla con la lira con Apollo in vetta al Parnaso.
Ciò ha comportato una fatica e uno spasimo, un continuo allerta sul presente. Quando s’intrattiene con Mario Specchio, Luzi ha 85 anni. Interrogato su come vede l’oggi, risponde che esso pone una sfida e che un combattimento «va combattuto» fra l’uomo travolto in una macchina, in un computer, e l’uomo che vorrebbe conservare il suo patrimonio culturale e tradizionale, che «almeno in alcune forme ha diritto a essere tesaurizzato» (si noti l’estrema sottigliezza, il deciso distinguo dell’«in alcune forme»). Una battaglia che dobbiamo affrontare (sottolineature nostre).
Persino i Promessi Sposi gli sembravano scialbamente carenti del senso eroico e tragico del cristianesimo, stemperato in una morale consolatoria a uso popolare. Luzi amava di più Ermengarda e Pentecoste.
«Avvenire» del 7 marzo2010

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