30 marzo 2010

Manuel Castells

Intervista con il teorico spagnolo che ha studiato l'«Età dell'informazione». I tentativi di mettere sotto controllo Internet e i mezzi di informazione derivano dal fatto che i conflitti politici volti a definire i rapporti di forza nella società sono diventati sempre più conflitti mediatici
di Benedetto Vecchi
Manuel Castells è uno studioso tanto rigoroso, quanto riottoso a concedere interviste. Preferisce che le sue analisi e riflessioni possono essere ponderate da chi le legge e che vengano misurate sulla «lunga durata» dei fenomeni che studia. La sua trilogia sull'Era dell'informazione (Università Bocconi editore) ha avuto una lunga gestazione - dieci anni - e Castells si è sempre sottratto a chi gli chiedeva se fosse una analisi sul capitalismo digitale, perché ritiene che il «cambio di paradigma» che ha cercato di delineare non riguardava un tipo particolare di società, bensì la concezione stessa di società. Al punto che il terzo volume era interamente dedicato a quelle realtà - la Russia postsovietica e la Cina postmaoista - che lo studioso catalano ha sempre considerato né socialiste, né capitaliste. E anche quando ha analizzato a fondo la struttura tecnosociale alla base del cosiddetto «informazionalismo», cioè Internet, ha sempre messo in guardia sia dai facili entusiasmi che giudicano la Rete una sorta di terra promessa del libero mercato, o all'opposto di una società non mercantile, che quella visione apocalittica che vede il web una bomba lanciata contro il concetto di società, e perché alimenta un individualismo così radicale da sfiorare l'autismo sociale. Ma è sicuramente nel suo ultimo volume, quello dedicato a Comunicazione e potere, che Manuel Castells ha provato a definire un quadro di come la Rete abbia modificato nel profondo le strutture di potere nelle società contemporanee, al punto da costituire una lettura obbligata per mettere a fuoco il legame, contradditorio, tra azione politica, media e comunicazione digitale.
Nel suo libro «Internet Galaxy» nella Rete è molto forte un'etica hacker che ha lo stesso ruolo di quella protestante agli albori del capitalismo, cioè è propedeutica allo sviluppo di un nuovo tipo di società, da lei definita come informazionale. Può spiegare da cosa è caratterizzata l'etica hacker?
Il concetto di etica hacker è stato sviluppato dallo studioso finlandese Pekka Himanen. In primo luogo, il termine hacker non va confuso con quello di crackers, che sono solo dei criminali cybernetici. L'etica hacker è appropriata per comprendere una delle caratteristiche del sistema tecnosociale che chiamo «informazionale», e questo non coincide necessariamente con il capitalismo. L'informazionalismo è infatti una realtà economica, sociale, politica, tecnica basata sulla costante innovazione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e può svilupparsi in una realtà capitalista, come in realtà non capitaliste. Ciò che abbiamo visto manifestarsi in questi ultimi decenni è l'affermarsi di un settore produttivo, chiamato spesso tecnologie dell'informazione, che è diventato nel tempo centrale nella produzione della ricchezza e del potere nelle nostre società.
L'informazionalismo ha sì la sua base nelle macchine digitali, ma è molto più che un network di computer perché considera l'innovazione l'obiettivo prioritario. L'etica hacker è quindi quel sistema di valori che premia la creatività dei singoli e che costituisce l'elemento discriminante per giudicare il proprio lavoro soddisfacente. In altri termini, l'etica hacker ritiene l'espressione della creatività come un fattore fondamentale per la vita dei singoli e ha lo stesso ruolo che ha avuto il «fare i soldi» nel capitalismo. Un hacker valuta la creazione tecnologica o in altri campi come la fonte della proprio piacere e del prestigio nel proprio gruppo di riferimento, cioè gli altri hackers.
Nella ricerca dedicata alla comunicazione mobile lei sottolinea il ruolo sempre più pervasivo dei telefoni cellulari. Siamo cioè totalmente immersi in un habitat tecnologico che cambia i processi di formazione delle identità collettive. Nel libro sul «Potere delle identità» lei infatti afferma che le identità sono diventate un affaire politico molto serio. Come spiega il fatto che Internet provoca sia una uniformità di comportamenti e, al tempo stesso, una proliferazione di identità parziali?
Non credo che Internet produca uniformità dei comportamenti. Sono infatti i mass media tradizionali che producono uniformità dei comportamenti e delle identità sociali. Ma Internet non è un media verticale dove il messaggio si diffonde dall'alto (la radio, la televisione, i quotidiani) al basso, cioè verso il pubblico. La Rete è organizzata in modo diverso. È un media orizzontale, consente cioè la comunicazione da molti a molti. Inoltre, il web consente di poter organizzare la propria presenza on-line come meglio si crede. Internet permette cioè la manifestazione della diversità. Il nodo da scegliere è perché in rete possono essere presenti sia atteggiamenti virtuosi che comportamenti pessimi.
Lei usa più volte il concetto di flusso, quasi che il moderno capitalismo non contempli una «solidificazione» di assetti istituzionali, relazioni di potere, identità collettiva. Ma un flusso è però quasi sempre governato, controllato, per evitare che diventi distruttivo. Come sono dunque governati i flussi - di informazione, di merci, di capitali, di uomini -. In altri termini come funzionano gli stati e gli organismi internazionali nella società in rete?
Gli stati nazionali sono le macchine maggiormente distruttive che la storia umana ha prodotto. Opprimono e manipolano i loro sudditi, ingaggiano feroci guerre con altri stati, confiscano la ricchezza prodotta dal lavoro. Le organizzazioni internazionali non sono altro che estensioni del potere degli stati. Ma il potere statale è messo in discussione e ridimensionato dai flussi - di informazioni, uomini, merci e capitali - che gli stati-nazione non riescono davvero a controllare. Accade che talvolta gli stati cercano, per conservare e riprendersi, laddove lo hanno perso, il potere di regolamentarli, di incanalarli, ma quando ci provano assistiamo quasi sempre a un fallimento. Per questo c'è sempre tensione, tra il rimanente potere esercitato dallo stato e l'incontenibile dinamismo dei flussi di informazione e di capitale nelle reti di comunicazione globale.
Lei ha scritto che, per contrastare il potere costituito i movimenti sociali usano media alternativi a quelli dominanti. Ma a un certo punto scrive di «politica insorgente». Può spiegare cosa intende?
I movimenti sociali cercano, a volte riuscendoci, altre volte no, a trasformare i valori della società. È però all'interno del sistema politico che possono essere cambiati i rapporti di potere nella società. La politica insorgente è sì una azione politica, ma che si sviluppa alla periferia del sistema politico, riuscendo a sopraffare le dinamiche consolidate al suo interno e a imporre nuove idee e nuovi leaders politici. Prendiamo la elezione di Barack Obama alla Casa Bianca. È indubbio che Obama abbia vinto grazie alla campagna di mobilitazione dei giovani e delle minoranze che normalmente non partecipavano al sistema politico. In questo caso ci siamo trovati di fronte a una politica insorgente basata sulla forte speranza di cambiamento. Lo slogan «Yes, we can» illustra bene come si è manifestata questa speranza di cambiamento, che ha mantenuto la sua indipendenza dal leader eletto presidente. Obama potrà anche deludere i «politici insorgenti», ma il cambiamento desiderato e che li ha portati a mobilitarsi non scompare. E quindi quegli stessi attivisti possono riprendere la mobilitazione contro il nuovo leader che non ha mantenuto le sue promesse di cambiamento.
Alcuni studiosi equiparano i movimenti sociali agli sciami. Si costituiscono, ma poi, una volta raggiunto il loro obiettivo, si dissolvono. E come se la politica insorgente sia sempre legata a una contingenza politica e che non possa avere una stabilità e possa durare nel tempo. È d'accordo con questa lettura?
Da sempre i movimenti sociali non sono una forma stabile di azione collettiva. Possono cambiare i valori della nostra società, oppure imporre un tema finora assente nella vita sociale. E quando questo accade si dissolvono con la stessa intensità in cui si sono formati. Il Maggio francese, ad esempio, non ha certo conquistato il potere, né credo che fosse proprio quello il suo obiettivo. In ogni caso ha introdotto nuovi valori e temi nella società, come l'ambientalismo, la solidarietà, i diritti delle donne, la necessità dei cittadini di controllare l'operato dello stato. Temi e valori che sono ormai accettati da milioni di uomini e donne. Prendiamo l'ambientalismo e il femminismo. Non ci sono mai stati, per quanto ne so io, movimenti femministi stabili. E tuttavia le lotte condotte dalle femministe hanno cambiato profondamente la vita delle donne, modificato i loro rapporti con i maschi, il modo di vivere la sessualità. Ha ridisegnato la divisione del lavoro familiare. Sotto molti aspetti sono i movimenti femministi hanno cambiato anche i maschi. Cambiamenti e trasformazioni che non sono certo venuti per decreto emesso da qualche governo. I governi, i parlamenti, insomma il sistema politico ha poi dovuto istituzionalizzarli. L'istituzionalizzazione avviene quando i valori e le tematiche portate avanti dai movimenti si sono già diffuse nella società.
La politica insorgente può conquistare il potere statale. In questo caso però assistiamo a una istituzionalizzazione della politica insorgente. Ma è questo punto che prende avvio un nuovo ciclo che vede il nuovo potere confrontarsi con una nuova politica insorgente. Non è quindi contemplata nessuna stabilità, perché lo stare in società e l'azione politica contemplano sempre il conflitto, il dominio e la resistenza ad esso. La stabilità esiste solo nella testa di chi è al potere e vuole fermare l'inarrestabile e incontenibile movimento della società. E quando cercano di fermare o bloccare il movimento della società falliscono sempre.
«Il Manifesto» del 28 marzo 2010

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