20 marzo 2010

Ma a cosa servono gli intellettuali?

La questione rimbalza dall’America
di Alfonso Berardinelli
Ogni argomento e problema ha la sua stagione, che all’improvviso arriva e all’improvviso passa. Ora sembra di nuovo il momento degli intellettuali. Da un la­to all’altro dell’Atlantico ci si chiede: 1) a che servono gli intellettuali (dagli Usa mi arriva George Scialabba, What are intellectuals good for?); 2) perché sono così conformisti e fanno sempre le scelte politiche sbagliate (lo dice Pierluigi Battista; 3) perché sono in declino, anzi sono spariti, o non meritano di esistere. Il primo punto fermo è che gli intellettuali fanno l’impressione di esserci soprattutto quando parlano di se stessi, quando si as­segnano un ruolo, si autoaccusano o si di­chiarano estinti. Il secondo punto è che il discorso ricomincia sempre dal rapporto con la politica: cosa fanno gli intellettuali per ri­solvere i problemi politici? Perché non de­nunciano e combattono i mali del mondo e gli abusi di potere? Perché non spiegano ai cittadini cosa fare? Perché non influenzano l’opinione pubblica e l’azione dei partiti?
Questi interrogativi richiedono risposte pra­tiche. A ogni «perché?» dovrebbe seguire un «come?» Ma gli intellettuali raramente hanno idee facili da usare. Se poi si danno alla poli­tica, sognano di comandare e superare l’«im­potenza » del pensiero (il cui potere è impon­derabile) allora si mettono nelle mani di chi davvero comanda, e che mai e poi mai farà quello che un intellettuale dice.
Secondo alcuni, gli intellettuali sono una ca­tegoria. Ma se è così hanno interessi corpo­rativi, ragionano in gruppo, in massa, in schie­ra e loro stessi non sanno più cosa pensano veramente, perché hanno paura di restare so­li con le loro opinioni. Secondo altri, gli intel­lettuali funzionano invece come individui: devono affidarsi alla loro mania di prendere sul serio quello che gli viene in mente. In que­sto modo potranno fare «politica della cono­scenza » fuori dalla politica dei partiti: avran­no un’utilità pubblica solo dicendo qualche verità ignorata e senza secondi fini.
«Avvenire» del 20 marzo 2010

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