21 marzo 2010

Le mie notti bianche da don Chisciotte a Belgrado

Erri De Luca rilegge Dostoevskij
di Erri De Luca
Notti bianche passate come nuvole, andate a sfasciarsi contro l’orizzonte, così la mia gioventù politica ha trascorso le sue negli anni ’70 del secolo scorso e grandioso. Notti bianche davanti ai cancelli di una fabbrica per bloccarli, insieme agli operai prima dell’alba.
Scaldarsi coi fuochi, con i canti, studenti e forze da lavoro salariato, giovani e no, uomini e donne: poi l’urto con l’alba, l’arrivo degli altri operai, i capannelli, le discussioni, l’assemblea improvvisata sul posto, la partenza per una manifestazione diretta al centro. Oppure contro l’alba dei reparti dell’ordine pubblico intervenuti per ristabilire la legge del più forte. Notti bianche, la mia gioventù ha praticato questa insonnia politica. Era rivoluzionaria perchè così era il secolo in corso.
Il 1900 è stato il tempo delle rivoluzioni, con questa formula sono cambiati i rapporti di forza e prepotenza tra oppressori e oppressi, tra imperi coloniali e i loro sudditi di oltremare. Molte di quelle rivoluzioni hanno vinto, molti rivoluzionari sono diventati capi di governo, presidenti. Molti hanno perso e sono stati archiviati dalle versioni ufficiali come banditi.
Negli anni ’70 il mondo brulicava di lotte armate per la liberazione in Asia, in Africa, in America Latina. Brulicava di notti bianche. Il presidente della più grande rivoluzione del secolo, la cinese, diceva :«La tendenza generale è la rivoluzione». La mia gioventù politica ha fatto parte di questo moto di rovesciamento. Notti bianche: un migliaio di persone accampate in baracche andavano a occupare case lasciate vuote dall’arrembaggio palazzinaro dei signori della capitale. Era un assalto, ma non un esproprio: chiedevano di pagare l’alloggio secondo equo canone. Era un arrembaggio disciplinato, silenzioso, a lume di candela. Ci si urtava contro l’alba degli sgomberi forzati, l’assedio delle truppe, il rastrellamento alloggio per alloggio, la resistenza, l’urto, le sirene, gli arresti.
La passione politica del 1900 oggi è incomprensibile, come assurda deve apparire oggi la gioventù di allora che accettava prigioni senza nessun tornaconto personale. Oggi che solo l’interesse privato conta e per questo si calpestano beni comuni, non si può immaginare una notte bianca, una febbre del sabato sera a occupare case vuote, procurando sballo ai poteri costituiti anzichè a se stessi.

Ho letto Notti bianche di Dostoevskij in due età diverse.
Prima nell’adolescenza: aveva forza di suggestione, trasmetteva la temperatura amorosa di un ragazzo mite e perciò infiammabile. Faceva presa su di me appena più giovane dell’io narrante, ma senza forza di trascinamento. Non mi spingeva fuori casa per andare incontro alle notti bianche di una città, San Pietroburgo, che presto avrebbe cambiato nome in città di Vladimir Ilic: Leningrad. Il racconto di Dostoevskij però mi teneva sveglio, mi faceva aprire la finestra per guardare il cielo di notti che stavo perdendo, chiuso in casa.
Altre voci, altre pagine mi avrebbero trascinato lontano dalla stanza. Venivano dall’ovest, dalla voce di gesso su lavagna di Bob Dylan che chiamava in strada perchè «The times they are ’a changing».
Annunciava un tempo accelerato che sovvertiva ogni gerarchia «perchè il primo di adesso sarà l’ultimo presto». Un ragazzo di notte faceva e disfaceva il suo fagotto di fuga dopo avere letto cogli occhi e coi polmoni Sulla strada di Kerouac.
Quell’ovest chiamava fuori, incontro alle sue notti bianche.

Poi ho riletto lentamente in russo il racconto, nei miei cinquant’anni. Gli scrittori, i poeti mi hanno istigato la caccia alle grammatiche e agli alfabeti, per andarli a stanare nella loro lingua. È stato il mio modo di visitare il mondo, i vocabolari mi hanno aiutato più della geografia. Sapere che notte in russo è noc’ e pronunciarla in una notte di maggio alla finestra di albergo di una città bombardata dalla Nato. Belgrado di maggio del ’99, sventrata da missili e ordigni partiti da piste italiane: restavo affacciato, ero lì da solo e da contrario, per stare col bersaglio. Ricordavo in russo i versi di Osip Mandel’stam:«Eta noc’ nepopravima», questa notte è irreparabile, «a uvas ieshò svietlò», e da voi è ancora chiaro.
Erano notti bianche, ma non quelle di Dostoevskij in San Pietroburgo col cielo calato a carezzare l’acqua della Neva. Il cielo sopra Belgrado precipitava in fiamme nel Danubio e nella Sava, che lì si congiungono. A valle il polo chimico di Pancevo, sfondato dai colpi scaricava la sua materia avvelenando il fiume fino al Mar Nero.
In russo Dostoevskij è più misterioso, la sua prosa scorre sotto arcate di ponti, spinge al cammino di notte il 'mechtàtiel', il ragazzo visionario che si è innamorato a vuoto. Amo il suo eroe imperterrito, disposto al sacrificio personale per sgomberare il campo alla felicità altrui.
Esistono nella vita simili persone pronte a cedere il passo e l’avvenire. In letteratura sono la variante inerme di Chisciotte, al cinema hanno la faccia di Buster Keaton.
Per strada li riconosci dal fatto che guardano giù in terra o dritto in cielo.
«In letteratura sono la variante inerme dell’hidalgo di Cervantes, al cinema hanno la faccia di Buster Keaton ... Ho riletto lentamente in russo il racconto, nei miei cinquant’anni. Gli scrittori, i poeti mi hanno istigato la caccia agli alfabeti e alle grammatiche, per andarli a stanare nella loro lingua. È stato il mio modo di visitare il mondo».
«Avvenire» del 21 marzo 2010

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