25 marzo 2010

La favola di Platone nella fisica quantistica

di Andrea Vaccaro
Iniziamo con il mito dell’androgino che il buon Aristofane favoleggiò alla mensa di Agatone, quando fu il suo turno nel parlare di Amore, nel Simposio platonico: allorché l’essere umano era ancora costituito dall’unione di un maschio e di una femmina - due volti, otto arti, due sessi - , una tale pienezza sfidava, in vigore e felicità, la condizione degli dei. Pertanto Giove, indispettito, dette ordine di spaccare gli esseri umani in due, come quelli che dividono le uova rassodate con un crine. La natura umana fu dunque tagliata in due e sparpagliata in lontanissime terre, ma il cuore di ogni persona continuava a battere al ritmo del cuore della propria metà. E gioia supereminente quando, ritrovandosi, le due metà potevano riabbracciarsi e fondersi nuovamente insieme.
Poniamo adesso che, al posto dell’androgino, siano due particelle subatomiche (ad esempio due elettroni) entrate in interazione.
Poniamo anche che, ad un certo momento, esse vengano separate (non certo con un crine) e portate in terre lontanissime tra loro. Ebbene, un’azione prodotta su una delle due particelle ha - incredibile a dirsi ­una risonanza sull’altra, qualunque sia la distanza che le divide. E ciò simultaneamente. Questo è il fenomeno dell’entanglement (correlazione, intreccio, 'abbraccio'), «non uno, bensì il tratto caratteristico della meccanica quantistica, quello che implica il suo più completo distacco dalle linee del pensiero classico» (Erwin Schrödinger). Le due particelle continuano a «vibrare all’unisono» anche se una è portata «dall’altra parte dell’universo», sottolinea il matematico Amir D. Aczel nel suo Entanglement. Il più grande mistero della fisica (2004). Se qualcuno stenta a credervi, non si crucci, perché si trova in buona compagnia: anche Albert Einstein l’avversò per tutta la vita, adducendo vari argomenti per confutarlo. Se l’entanglement fosse vero - osservava - la legge di causalità sarebbe mortificata; la velocità della luce sarebbe superata; l’intera fisica classica andrebbe ripensata. Eppure è proprio così: quello che, negli anni ’30-’40, era soltanto esercizio matematico è diventato dimostrazione fisica negli anni ’80, con gli esperimenti del team di Alain Aspect, ed oggi è vieppiù avvalorata tramite tecniche di rilevazione ultrainnovative. Dimostrata, sì, ma non compresa! Nel settore, infatti, vige ancora la massima del Nobel Murray Gell-Mann: «se qualcuno dice di aver capito qualcosa della fisica quantistica vuol dire semplicemente che non ha capito nulla della fisica quantistica». Per gli Sherlock Holmes della disciplina, la sfida dell’indagine è ancora aperta. E così, nella certezza del fatto e nell’incapacità di spiegarselo, aleggiano idee in cerca di conferma: si avanzano ipotesi di teletrasporto (con qualche successo già conquistato su scala subatomica); si aprono spiragli di universi paralleli e di multimondo (ad esempio, David Deutsch); si fa notare che, seppur miliardi di anni fa, tutta la materia era in un solo punto e che, quindi, l’entanglement è, giocoforza, onnipresente e tutto è in tutto (fra gli altri, David Darling e Thomas Durt).
Con queste congetture il cerchio mitologico-scientifico si chiude, perché anche per tali autori sembrano valere le parole di Platone a proposito del tema citato all’inizio e di altri consimili: «Certo, ostinarsi a sostenere che le cose stiano proprio così non s’addice a uomo che abbia senno, ma che sia poco diverso da così mette conto di avventurarsi a crederlo. E l’avventura è bella. E giova fare a se stesso di tali incantamenti, e proprio per questo già da un pezzo ormai io tiro in lungo la mia favola».
«Avvenire» del 25 marzo 2010

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