08 marzo 2010

Il ruggito del classico

Scoprire l'alieno nel simile: è questa una delle opportunità che determinano il fascino del rapporto con il mondo greco-latino. Un nuovo Almanacco titolato Resistenza del classico e curato da Roberto Andreotti festeggia i sessant'anni della Bur, con interventi di critici, poeti, latinisti internazionali
di Andrea Giardina

Nel 1803 Constantin-François Volney, uno tra i più autorevoli esponenti del gruppo degli «idéologues», di ritorno da un viaggio in America, pubblicò un libro in cui dichiarava di aver scoperto alcune sorprendenti somiglianze tra le tribù indiane e i civilissimi antichi: «Resto sempre colpito dall'analogia che quotidianamente rilevo tra i selvaggi del Nord America e le antiche popolazioni, tanto lodate, della Grecia e dell'Italia. Nei Greci di Omero, soprattutto in quelli della sua Iliade, ritrovo le usanze, i discorsi, i costumi degli Irochesi, dei Delaware, dei Miami. Le tragedie di Sofocle e di Euripide mi ripropongono quasi alla lettera le opinioni degli uomini rossi sulla necessità, sulla fatalità, sulla miseria della condizione umana e sulla durezza del cieco destino».
Un'affermazione del genere si inseriva nella reazione termidoriana all'«anticomania» dei giacobini, che indossavano i panni di Bruto e si atteggiavano a replicanti degli antichi difensori della libertà e della repubblica. Tuttavia, il dissenso politico, espresso da Volney anche in altre circostanze, assumeva in queste parole un significato più generale, perché riguardava il rapporto con i classici. L'assimilazione tra Omero, Sofocle, Euripide e la sensibilità degli «uomini rossi» capovolgeva un modello e lo orientava verso direzioni impreviste. I classici, in quanto tali, erano eternamente contemporanei per gli uomini civili, ma questi ultimi avrebbero dovuto riflettere anche sulla «classicità» dei primitivi.
Malgrado Volney e tanti altri anticonformisti prima e dopo di lui, liberarsi dei classici non è mai stata un'impresa facile, e non importa se essi siano fatti di carta o di marmo. Ancora nel 1923, un secolo e mezzo dopo Winckelmann, il grande Le Corbusier, nel suo libro più importante (Vers une architecture, 1923), poteva mettere in simmetria il Partenone e una limousine, e affermare: «In questo periodo di scienza, di lotta e di dramma, in cui l'individuo è violentemente e continuamente scosso, il Partenone ci appare come un'opera viva, piena di grandi sonorità. La massa dei suoi elementi infallibili dà la misura della perfezione che può raggiungere l'uomo assorbito in un problema posto definitivamente». E poiché il Partenone è un'architettura concepita sulla base di standard precisi, Fidia è un nostro contemporaneo: «A Fidia sarebbe piaciuto vivere in questa epoca di standard». L'esempio di Le Corbusier è significativo perché ci fa comprendere che non basta rivoluzionare l'architettura per sottrarsi al mito - perché di un vero e proprio mito si tratta, più che di un luogo comune - dell'eterna contemporaneità dei classici. A questo argomento è dedicato l'almanacco che festeggia i sessant'anni della Biblioteca Universale Rizzoli (Bur), Resistenza del classico, a cura di Roberto Andreotti. È un'antologia originale in cui riflessioni sul concetto di classico si alternano a pagine di poeti, interviste, note di filologia, esempi e «prove» di traduzione, approfondimenti di temi rilevanti (Ovidio, Pound e i poeti augustei). La competenza del curatore in questo campo e la sua finezza offrono al lettore momenti di raro piacere intellettuale e una costante sensazione d'imprevisto. Questa antologia è dunque un libro d'autore.
I classici di Andreotti sono soprattutto scrittori romani: la sua giustificazione - i classici romani eserciterebbero oggi un'attrazione maggiore - può apparire discutibile, ma la cosa è irrilevante: il fascino dei classici è arbitrario per sua natura ed è sempre difficile stabilire se siamo noi a scegliere loro oppure loro a scegliere noi. Andreotti intende neutralizzare «un equivoco cliché ripetuto puntualmente ogni volta che si deve difendere lo studio del greco e del latino: la attualità del classico». Quali danni questa prospettiva abbia causato alla nostra conoscenza della cultura antica, e quante occasioni didattiche abbia fatto perdere, è cosa nota a tutti. Ma vale la pena di sottolineare che essa è stata perfettamente simmetrica a quella «poetica del capolavoro» che è servita spesso da copertura ideologica alla distruzione dei nostri paesaggi rurali e urbani. A questo cliché Andreotti propone di sostituire un modo «agonistico» di affrontare i classici, a cui si connette il concetto di «resistenza» enunciato nel titolo: «La distanza temporale e linguistica, solo in parte mitigata dalle cornici storico-critiche entro le quali li abbiamo ricevuti, è già una provocazione a "trafficarli" come formidabili antagonisti, fino ad ammetterli nell'agone conoscitivo della nostra vita». Non si tratta dunque di liberarci dai classici ma di sfidarli su un'arena virtuale.
Questo metodo agonale, in fondo, vale per le opere come per le singole parole. Oggi, dopo che la psicoanalisi e l'antropologia ci hanno insegnato i vantaggi della visione distaccata, siamo particolarmente sensibili alle suggestioni culturali della prospettiva esotica che fu propria di Volney e di altri (a patto, ovviamente, di non cadere nell'esotismo). E tuttavia, essa non riesce ad appagarci completamente. Nulla, meglio delle parole latine, può spiegare questa insoddisfazione. Quando leggiamo religio, respublica, familia, imperium, libertas, pietas e tanti altri termini fondamentali della società, delle istituzioni e della politica romane, leggiamo parole che ricorrono quasi identiche nelle principali lingue dell'Europa e del mondo occidentale. Quel lessico uguale al nostro sembra davvero racchiudere le nostre 'radici', e ci trasmette a prima vista una rassicurante sensazione di identità. Ma se, proprio come gli archeologi fanno con la terra, procediamo alla stratigrafia di quelle parole, cogliamo subito i loro successivi e numerosi mutamenti nei secoli, e percepiamo, al fondo dello scavo, di esserci inoltrati in un mondo che ha forti tratti di estraneità.
La religio dei Romani non è esattamente la religion degli Inglesi, la religion dei Francesi, la Religion dei Tedeschi, la religione degli Italiani e la religión degli Spagnoli, e lo stesso può dirsi per molti altri termini essenziali. Il fascino del rapporto con i classici è proprio in questo movimento oscillante e drammatico: scoprire l'alieno nel simile è una bella avventura dell'intelligenza e dei sentimenti. Ed è forse anche il modo migliore per saggiare la nostra capacità di «resistenza».
«Il Manifesto» del 6 marzo 2010

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