06 marzo 2010

Il passato allontana Ankara dall'Europa

di Vittorio Emanuele Parsi
Come era prevedibile, il governo turco ha reagito con la massima durezza al voto del Comitato Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti che invitava la Turchia a riconoscere che il massacro di centinaia di migliaia di armeni nel corso della Prima guerra mondiale costituì un vero e proprio genocidio, in tutto per tutto simile all’Olocausto perpetrato dal regime nazista alcuni decenni dopo. Ma come mai, a quasi un secolo di distanza da quei tragici eventi, compiuti per di più da un soggetto istituzionale (l’impero ottomano) diverso dall’attuale repubblica, le autorità di Ankara continuano a mantenere una posizione così rigida? La risposta è che il genocidio del popolo armeno è il più imbarazzante filo rosso che lega il tramonto dell’impero ottomano e la nascita della repubblica kemalista.
Esso rispose infatti al disegno di «turanizzare» (turchizzare, ndr) l’impero, di sostituire alla precedente e ormai decadente fedeltà verso il sultano, una nuova, vigorosa lealtà verso una patria nazionale turca, tutta da costruire, da «inventare», come era accaduto per le altre nazioni affermatesi nel corso del secolo. Quel disegno intersecava e parzialmente dirottava l’ultimo disperato tentativo di riformare l’impero, sostenuto dai giovani turchi a partire dalla fine dell’800.
La deriva nazionalistica del movimento riformatore aveva definitivamente preso il sopravvento dopo le guerre balcaniche del 1912 e del ’13, alimentata dalle stragi e dalle espulsioni forzate delle popolazioni musulmane nelle province europee fino a quel momento appartenute all’impero, perpetrate da greci, serbi e bulgari. A quelle efferatezze, che non avevano risparmiato gli ebrei di Salonicco, i turchi risposero con le prime espulsioni e le prime stragi degli armeni e dei greci dall’Anatolia.
La pulizia etnica riprese vigore durante la guerra mondiale, raggiungendo l’apice con gli eventi del 1915. E si trattava di una pulizia tanto etnica quanto religiosa, esplicitamente e lucidamente perseguita dalla nuova classe dirigente dell’impero, che in parte cospicua transiterà poi nella nuova repubblica fondata da Mustafa Kemal, dopo la vittoriosa guerra contro la Grecia e le altre potenze occupanti. Lo stesso «laico» Kemal Atatürk, in realtà, riteneva che l’equazione tra «vero turco» e musulmano sunnita fosse perfettamente funzionale alla sua causa, e non a caso osteggiò tutte le altre fedi religiose (anche musulmane) e riservò all’islam sunnita una posizione privilegiata presso il ministero del Culto, con una visione del rapporto «Stato-Chiesa» molto più simile al modello inglese di Enrico VIII che a quello francese repubblicano, cui sovente è erroneamente accostato. Nel difendere le origini della Repubblica da un imbarazzante peccato originario, i nuovi signori di Ankara continuano a ritenere, sia pure da posizioni ben più «pie», che l’identità nazionale turca sia di fatto inscindibile da quella islamica e sunnita. E con questo fanno un ulteriore passo che allontana la Turchia da quell’approdo europeo che formalmente sostengono ancora di volere raggiungere.
«La Stampa» del 6 marzo 2010

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