19 marzo 2010

Il killer di Mussolini

di Giampaolo Pansa
La prima assemblea provinciale del Fronte si tenne ad Alessandria la domenica 15 febbraio 1948. Fu un evento indimenticabile per i tanti rossi che vivevano tra il Po e l’Appennino. A causa di due ragioni. La prima era che a dirigere l’assemblea arrivò apposta da Roma un capo comunista importante: Pietro Secchia. La seconda fu la comparsa di un personaggio che tra poco presenterò.
In quel momento Secchia aveva 45 anni ed era considerato il numero tre del Pci, dopo Palmiro Togliatti e Luigi Longo, l’assemblea fu un successone. Dopo l’incontro al Politeama, il centro della città venne attraversato da colonne di ex partigiani garibaldini, che poi confluirono in piazza della Libertà.
Al Politeama Secchia aveva presentato i candidati del Fronte per la Camera nella circoscrizione Cuneo-Alessandria-Asti. La lista era in ordine alfabetico. Al primo posto si trovava il socialista Mario Andreis, che poi venne trombato. E al secondo stava il comunista Walter Audisio, più noto come il colonnello Valerio. E tutti sapevano chi era: l’uomo che aveva ammazzato Mussolini, subito dopo la cattura sul lago di Como.
Valerio stava per compiere 39 anni. E non aveva certo il fisico del giustiziere. Era un signore magro, baffuto, un basco nero sulla testa, un abito sempre stropicciato, spesso nascosto da un impermeabile color nocciola. L’unica nota vivace era la cravatta.
Audisio amava le cravatte rosse a pallini bianchi. Ne portava una anche alla Basilica di Massenzio a Roma, il 30 marzo 1947, Domenica delle Palme. Quando Togliatti, con la vocina sottile e tagliente, l’aveva presentato a migliaia di comunisti come il compagno che il 28 aprile di due anni prima aveva mandato all’inferno il dittatore fascista. Guadagnandosi un posto nella storia mondiale.
Per di più, si sapeva che Audisio girava l’Italia protetto da una guardia del corpo. Una difesa indispensabile perché era diventato l’uomo nero di tutti i reduci di Salò. Ma Valerio non sembrava per niente impaurito. Aveva di continuo un’aria sorridente e compagnona, da commesso viaggiatore. E riservava i toni duri soltanto agli odiati democristiani.
Lo si vide il 14 luglio 1948, il giorno che Antonio Pallante sparò due rivoltellate a Togliatti e per un pelo non lo mandò al creatore. Nell’aula di Montecitorio il neo­deputato Audisio si rivolse a De Gasperi, gridandogli: «Tu sei come Mussolini che ha fatto uccidere Matteotti!». De Gasperi gli replicò, gelido: «Solo l’idea di un simile paragone è ripugnante».
Quando Valerio cominciò a farsi vedere sempre più spesso nella nostra città, uno dei centri della vittoriosa campagna elettorale, quasi nessuno dubitò della sua qualifica di killer del Duce.
Aveva il vezzo di raccontare storielle che non facevano ridere nessuno. Lo testimonia Massimo Caprara che in quel tempo era il segretario di Togliatti. E vedeva di continuo Audisio che lavorava alle Botteghe Oscure nell’apparato di Secchia. Anche qui Valerio rompeva l’anima a tutti con le barzellette. Ma tutti lo sopportavano per un motivo ferreo. Insieme a Togliatti e a pochi altri dirigenti del Partitone Rosso era il depositario di un segreto che si può definire storico.
Il segreto consisteva nel fatto che a sparare al Duce non era stato lui, bensì Aldo Lampredi, il braccio destro di Longo nel comando generale delle Garibaldi. Un compagno dal carattere freddo, capace di custodire più di un mistero. Nato a Firenze il 13 marzo 1899, operaio ebanista, era entrato nel Pci appena fondato e aveva fatto per intero la trafila dei quadri comunisti della sua generazione.
Dapprima il carcere in Italia, poi l’espatrio, l’arrivo a Mosca, alla scuola della polizia segreta sovietica, la guerra civile in Spagna nel commissariato delle Brigate internazionali, quindi nel maquis in Francia. E infine la guerra civile in Italia, dapprima in Friuli, quindi accanto a Longo.
Ad avere tra le mani Mussolini erano stati in tre: Lampredi, Audisio e il comandante partigiano Michele Moretti. Ma Longo aveva ordinato al solo Lampredi di giustiziare il Duce. E così era avvenuto. Come Togliatti rivelò a Caprara.
Ma perché non dire la verità? Caprara riferisce la spiegazione che ebbe da Celeste Negarville, dirigente di primo piano del Pci. Togliatti era ben deciso a non dare un nome e una faccia al killer di Mussolini. Poi un giorno si rese conto che qualche giornalista intraprendente stava arrivando a Lampredi. E allora decise di proteggerlo da una fama pericolosa.
Scrive Caprara nel suo libro di memorie Quando le Botteghe erano Oscure (Il Saggiatore, 1997): Togliatti voleva sottrarre Lampredi alla curiosità della gente, ma anche «salvarlo da un’autoesaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all’improvviso il vendicatore­eroe, dopo una vita grigia e ingrata, da funzionario del Komintern».
A quel punto il ruolo del killer venne assegnato ad Audisio, un compagno superfedele: militante clandestino, cinque anni di confino, poi la Resistenza. Gli fu ordinato di concedere interviste, soprattutto a giornalisti americani. E di raccontare come aveva giustiziato Mussolini. Valerio chiese di parlare con Togliatti. Però il Migliore non volle riceverlo. Disse soltanto: «Mi basta di vedere la sua faccia sui rotocalchi. Ma deve astenersi dalle barzellette!».
Il ragioniere di Alessandria iniziò a recitare alla perfezione la parte che Togliatti gli aveva imposto. Cominciando con un’intervista alla vigilia del comizio alla Basilica di Massenzio. È possibile che, in cuor suo, la recita gli pesasse. Secondo Vittorio Gorresio, borbottava: «Avrei preferito vivere come prima». Ma l’obbedienza al Bottegone veniva davanti a tutto.
Anche Lampredi non rivelò mai nulla. Continuò a lavorare nell’apparato centrale del Pci, sino a diventare il capo della Commissione nazionale quadri. Era un cinquantenne alto, magro, il viso affilato, di pochissime parole, dalla vita sobria e dalla riservatezza assoluta.
Rifiutò sempre di entrare in Parlamento. E di scrivere una sola riga sulle tante esperienze di dirigente della rivoluzione rossa. Poi nel luglio 1974 morì per un infarto a Lubiana, in Jugoslavia, dove si trovava in vacanza: aveva 75 anni.
«Avvenire» del 19 marzo 2010

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