21 marzo 2010

Il genio borghese è il vero motore del mondo libero

di Matteo Sacchi
La borghesia. Questa classe, che fu ceto almeno sino a che Marx non ci mise le mani sopra, è uno dei principali bersagli polemici di ogni intellettuale che si rispetti. Destrorso o sinistrorso che sia. L’aggettivo borghese, infatti, si presta bene a diventare sinonimo di tutta una serie di attribuzioni negative: pigro, sfruttatore, ottuso, mediocre, fariseo, menefreghista, decadente... Insomma il borghese è stato condannato, nell’epoca dei grandi totalitarismi, a essere considerato l’esatto opposto di chi è geniale e per questo progressista, oppure di chi è geniale e per questo autoritario.
Preso atto di questa aggressione continua è una vera boccata d’ossigeno imbattersi in La natura precaria della libertà. Elogio della borghesia (Garzanti, pagg. 262, euro 22) antologia che raccoglie alcuni degli scritti più interessanti dello storico Joachim Fest (1926-2006) sull’argomento. Fest, il più importante biografo di Hitler, ha studiato con attenzione il rapporto tra la classe media tedesca, intellettuali e nazismo. E ha più volte difeso il ruolo di quella parte di società che, per antonomasia, è impegnata a imporre «il dominio dell’ordine sull’umore contingente, del duraturo sul momentaneo, del lavoro tranquillo sulla genialità che si alimenta di sensazioni» (l’espressione è di György Lukács). Così l’insieme di questi scritti, diversi per genesi e per destinazione, si trasforma in un piccolo manifesto in favore di quello che Fest considera il motore delle società occidentali: la borghesia. Il punto di partenza di questo grande divulgatore (fu anche direttore della Frankfurter Allgemeine Zeitung) è che ai luoghi comuni elencati sopra non c’è scampo: «Chi dubiterebbe ancora del tramonto del mondo borghese? Borghesia, condizione borghese sono termini usati oggi dalla maggior parte dei precettori della nazione come vocaboli per irritare e irridere: la causa della borghesia appare sicuramente come una causa persa, più di qualsiasi altra».
Eppure è proprio questa debolezza nella rappresentazione di se stesso a rendere onore al ceto borghese e a farlo sopravvivere: l’autocritica è una caratteristica essenzialmente borghese. «Il mondo borghese - scrive Fest - muore e vive; e vive perché muore. È un suo specifico modo di farsi valere, quello di ricavare dai tracolli le forze per sopravvivere e di attingere salute dalla sua stessa tomba». Tanti intellettualini e intellettualoni hanno cantato la morte della borghesia, rivelando così di farne parte a pieno titolo. L’analisi di questo fenomeno è mirabile nelle pagine che Fest dedica a Thomas e Heinrich Mann, due scrittori che della Germania hanno incarnato i dubbi e le esitazioni e che provenivano proprio da quel milieu culturale di cui hanno descritto tutte le idiosincrasie.
Insomma, alla fine il valore della borghesia si riassume in un pugno di concetti: «La borghesia lega la sua più profonda consapevolezza a un’idea di prestazione dal carattere draconiano, alla quale si adeguano tutte le sfere del comportamento sociale... Borghese è l’idea della concorrenza, dell’eccellenza in tutti gli ambiti, borghese è la volontà di emergere e da qui il senso... della grandezza umana o artistica, che a sua volta è strettissimamente connessa con ciò che si usava chiamare genio borghese dell’ammirazione». Pensare il mondo senza questi concetti è pensare un mondo incapace di rinnovarsi. E in quest’ottica trova risposta anche quella che è una delle domande più inquietanti: come ha potuto la borghesia tedesca lasciarsi abbagliare dal nazional-socialismo? Oppure come ha potuto parte della borghesia occidentale farsi incantare da Stalin? La borghesia fu arrendevole perché aveva mantenuto della vera borghesia solo i «tratti ottusi, le sue paure reazionarie... un diletto della cultura ormai solo decorativo, non inquietato da nessuna pretesa rivolta a se stessi».
«Il Giornale» del 21 marzo 2010

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