30 marzo 2010

Greci e latini, che istrioni!

Da Plauto a Terenzio: il teatro antico rivive in una rassegna sulle maschere, i personaggi e gli spettacoli nel mondo antico, tra tragedia e commedia
di Rosita Copioli
A Sarsina Plauto va sempre in scena. È un caso? L’Emilia Romagna ha mantenuto, perfino nei travestimenti moderni, lo spirito del mas­simo innovatore della com­media antica. Plauto fu l’in­ventore di un linguaggio ge­niale, mobilissimo, ricchis­simo, libero fino al selvag­gio, prima che il dolce Te­renzio addomesticasse defi­nitivamente le tradizioni dei mimi e dei fescennini, delle Sature e delle Atellane che gli Italici ormai romanizzati (Andronico, Nevio, Ennio, Cecilio Stazio, Luscio Lanu­vino, tra i più noti), traevano dagli Osci, dai Sanniti, dai Falisci, dagli Etruschi, dagli Umbri, forse dai Veneti e dai Celti. Per una vocazione na­turale, che dura fino a oggi oltre Totò e Sordi, in Italia la commedia è prevalsa sulla tragedia. Da Seneca ad Al­fieri i nostri tragici suonano retorici e artificiali. Ma Hila­rotragoedia è il primo libro felice di Manganelli, che al­lude alla parodia delle tra­gedie rappresentate nelle Dionisie di Taranto nel III secolo. Plauto e Terenzio a­vevano entrambi a modello Menandro e scrissero pal­liate, con personaggi greci che indossavano il mantello nazionale (e poca fortuna a­vrebbe avuto la commedia togata, con personaggi ro­mani che indossavano la to­ga). Plauto, che serbava il sapore dell’atellana, usava ancora le maschere, i tipi.
Terenzio passò definitiva­mente ai caratteri, ai perso­naggi. Ma come nacque il teatro latino? Di certo fu in­fluenzato da quello greco, dai miti greci e dai culti di Dioniso, che dal VI secolo compaiono nelle rappre­sentazioni funebri e ludiche dei vasi e delle tombe, in E­truria e in Magna Grecia.
Nella bella mostra allestita dalle Soprintendenze per i Beni Archeologici di Emilia­Romagna e di Napoli e Pompei per RavennAntica nel Complesso di San Ni­colò (i reperti provengono dai Musei di Napoli e dell’E­milia Romagna), è visibile il percorso complesso del tea­tro latino, sopravvissuto fi­no a noi nel suo spirito (la mostra è a cura di Maria Ro­saria Borriello, Luigi Malna­ti, Valeria Sampaolo. Catalo­go Skira a cura dei medesi­mi e di Giovanna Montevec­chi). Gli scavi archeologici, soprattutto in aree etrusche, hanno messo in luce resti di edifici che possono far pen­sare a usi teatrali, agonistici, pubblici, ma di veri teatri si può parlare, in Campania ed Emilia Romagna, solo per gli oltre venti centri del­la Campania, dove spiccano quelli di Napoli, Teano, Ercolano, da cui vengono le statue in bronzo di Livia e di L. Mammius Maximus, della seconda metà del I se­colo d.C. Così come, per l’E­milia Romagna, di Parma, Bologna, Mevaniola (Galea­ta), Rimini. Degli edifici rende conto il catalogo, ma anche nella mostra sono presenti diverse ricostru­zioni, e un notevole model­lo di frons scenae di terra­cotta a stampo colorata del III-II secolo a.C., forse di provenienza magnogre­ca, che sembra una ce­ramica votiva. Le testimonianze sul teatro nel suo complesso ­gli attori, histriones, le maschere, perso­nae dal Phersu che compare nelle tombe etrusche, con tutte le caratte­rizzazioni, le scene, gli strumenti musi­cali, prodotti dal cul­to religioso - proven­gono per la maggior parte dalle case, le do­mus dove il gusto per que­ste raffigurazioni non pas­seranno mai di moda. Un ricco, talora splendido cor­redo di ornamenti che si comincia a trovare tra la metà del I sec. a. C. fino a tutto l’impero, comprende le antefisse con maschere fittili ai cornicioni dei tetti, gli oscilla da appendere in marmo, le pareti affrescate, i rilievi, le statue, i pavi­menti in mosaico, i vasi, le appliques , le lucerne. La va­rietà delle maschere aveva settantasei tipi, ventotto per la tragedia, quarantaquattro per la commedia, quattro per il genere satiresco. Un gruppo di quindici masche­re in gesso trovato a Pompei nel 1749, davvero unico, po­teva figurare da campiona­rio di bottega, come scrive Ma­ria Rosaria Bor­riello, per la riconoscibilità dei tipi: su due sono graffiti nomi: uno, Buco, è Bucco, che con Pappus, Maccus, Dossennus, era personaggio dell’atellana. Le cinque se­zioni del nitido progetto e­spositivo di Paolo Bolzani, culminano con Dioniso: dai suoi miti e dai suoi culti na­sce il teatro. Qui i dicianno­ve meravigliosi, grandi vasi apuli, magnogreci, lucani, attici anche da Spina (come nella IV sezione il cratere di Paestum e l’hydria attica), raccontano di satiri, ninfe, menadi, delle divinità del suo pantheon, come Apollo e Afrodite, Orfeo, Arianna. Il dio viene smembrato e rina­sce, simbolo della tragedia e della speranza dell’uomo.
Il sacrificio è crudeltà totale. Il ventre del ca­pro rovesciato sulla tavola, è sezionato da vivo, carni e vi­scere mangiate mentre è vivo.
Come il capro, l’acrobata, l’at­tore sulla tavola o la scena, l’uo­mo ruota, si ro­vescia, è smem­brato a morte, rimbalza a nuova vita. Occorre sicu­rezza per il gioco e­stremo, leggerezza dello spirito purificato.
Catarsi, ebbrezza, riso, commedia, sono strumenti e simboli. Dioniso è il teatro. In Cristo si riassume il fina­le.
Ravenna, Complesso di San Nicolò, HISTRIONICA, Teatri, maschere e spettacoli nel mondo antico, fino al 12 settembre
«Avvenire» del 30 marzo 2010

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