24 marzo 2010

«Financial Times» contro il latino: «È meglio studiare il cinese»

Il giornale britannico sbeffeggia la lingua di Cicerone: «Serve solo alla lobby dei docenti e a parlare con il Papa»
di Lorenzo Scandroglio
Ci risiamo. La crociata contro la lingua latina riparte. Ma servono o non servono le lingue antiche? Sembra di risentire il vecchio refrain. Con la differenza che stavolta l’attacco viene dal Financial Times. L’innesco è stato acceso da un quindicenne romano che, l’altro ieri, ha inviato una mail all’autorevole testata economica inglese chiedendo conforto di un proprio disagio con il proprio istituto scolastico colpevole di dare troppa importanza alla lingua dei «nostri avi». A parte le evidenti inesattezze - che l’editorialista del Financial Times cavalca spudoratamente per dare l’affondo nella sua risposta - la lettera di Andrea si spinge oltre proponendo il cinese come lingua del futuro: «Ho un grosso problema con la mia scuola – scrive lo studente italiano -. Nelle scuole italiane lo studio del latino è obbligatorio ed è considerato persino più importante dello studio della lingua inglese. La spiegazione è la seguente: si tratta della lingua dei nostri avi e aiuta a migliorare le nostre capacità logiche. Trovo che questo sia superfluo perché, a questa stregua, potremmo studiare il Cinese con il risultato di migliorare le nostre capacità logiche e di costruire qualcosa di utile per il futuro. Cosa ne pensate?».
Prima di soffermarci sulla risposta del columnist Tim Harford vale la pena notare – ciò che la lettera evidenzia in modo colpevolmente approssimativo - che in Italia il latino non è più obbligatorio se non in alcuni istituti superiori che, per altro, si può benissimo evitare di scegliere una volta completato l’iter scolastico inferiore. Non solo. Anche qualora si sia scelto un liceo, dove resistono le ultime sacche di «lingue antiche» sottoposte ad attacchi sempre più pressanti, sono ormai sempre più diffuse le sezioni sperimentali, senza la minima traccia né di latino, né di greco.
«Anche nei contesti sociali più raffinati – ha risposto Harford al nostro studente - il latino più che uno sfoggio di erudizione è una dimostrazione di gioventù sprecata, come sapere a memoria troppi sketch dei Monty Python». Il cinese, invece, «sarebbe altrettanto efficace come esercizio mentale e offre il vantaggio supplementare che consente di parlare anche con qualcuno che non sia il Papa». Tuttavia, sostiene FT, a decidere non è il buon senso ma l’interesse particolare di una categoria. Le teorie «suggeriscono che un piccolo gruppo con molto da guadagnare da una certa politica tende ad avere la meglio su un vasto gruppo che ha da perdere poco». Questo «perché il piccolo gruppo sa cosa c’è in palio ed è meglio organizzato», Dunque, suggerisce Harford ad Andrea, «chiediti “cui bono”», vale a dire «a chi giova?» (e qui l’editorialista perde rigorosamente per strada il latino «cui prodest»). Secondo il quotidiano britannico, in questo caso a giovarsi dei programmi scolastici datati sono i professori. «Le vittime sparpagliate sono milioni di studenti costretti a soffrire, mentre il vincitore è probabilmente una lobby ben inserita di insegnanti di latino».
L’attacco al latino sembra inserirsi nella recente ventata di «rinnovamento» a tutti i costi, con tanto di cancellazione di radicate tradizioni storiche nazionali che l’era Blair ha portato con sé (dalla sparizione delle campanelle dai pub all’addio alle caratteristiche cabine telefoniche rosse). Una tendenza che in questo caso forse si collega anche all’approccio tutto economico del quotidiano. Dimenticando forse che l’intelligenza non è fatta solo di conoscenze pratiche. Andatelo a spiegare agli inventori (anglosassoni) dei test sul Qi, il Quoziente di intelligenza.
«Il Giornale» del 7 gennaio 2007

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