20 marzo 2010

Fare l'inviato ai tempi di Internet

di Gianni Perrelli
Come cambia il ruolo del giornalista 'sul campo' quando le notizie fanno il giro del mondo sul web in pochi minuti? Ha ancora senso inviare un giornalista in giro per il mondo quando ci sono i blogger? Se ne discute in un libro che è una 'guida' ma anche un tentativo di interrogarsi sul futuro Un leggendario direttore sosteneva che il mestiere dell'inviato poteva essere accostato a quello del pilota di Formula Uno. Devi andar veloce, guardando le lancette dell'orologio, cercando di far buon uso di acceleratore e freno per non finire fuori strada con una notizia non verificata, o perfino con un tono di narrazione non in sintonia con l'argomento. Nei casi estremi (guerre, ambienti ostili, servizi di avventura) metti in gioco la vita. In ogni momento è a rischio la tua reputazione. Quando sbagli un pezzo è scontato che qualcuno ti darà del bollito, anche se hai alle spalle una carriera di successo.
Ma la minaccia più seria per l'inviato viene oggi dal boom di Internet. Se ogni notizia fa il giro del mondo in pochi secondi sulla lavagna elettronica del web, raccontata dai testimoni diretti, è ancora utile investire nei viaggi di giornalisti magari sì più esperti dei blogger, ma costretti a inseguire gli avvenimenti, e se catapultati in posti sconosciuti a volte meno preparati degli improvvisati cronisti radicati sul territorio? Insieme alla sopravvivenza della carta stampata, è questo uno dei principali nodi che gli editori stanno affrontando in una fase di transizione che sgancia velocemente l'informazione dai parametri classici.
Nel libro Il mestiere dell'inviato (editore Gremese), una guida in cui cerco di mettere in luce i diversi aspetti di questa figura professionale (dalla prudenza negli scenari estremi alle difficoltà di accesso nei paesi più chiusi, dalla febbre dello scoop alle tecniche di raccolta delle notizie e di scrittura) mi interrogo inevitabilmente sul futuro di un lavoro spesso invidiato ma perlopiù poco conosciuto. L'unica certezza è che l'inviato oggi non può più permettersi di lavorare di fantasia. Ma se è sorretto dal talento, avrà anche sempre modo di distinguersi. Con le suggestioni di una scrittura più accattivante, con un taglio di racconto più intrigante, con la messa a fuoco di dettagli che possono sfuggire a un occhio non smaliziato, con le risorse di una sensibilità che si assimila solo attraverso un lungo tirocinio sul campo.
La mia ottimistica previsione è che gli inviati non spariranno mai. Si trasformeranno, lavoreranno con strumenti differenti. Ma almeno per le grandi testate la testimonianza di un cronista di razza rimarrà imprescindibile anche con il trionfo di Internet. Un racconto brillante sarà sempre l'essenza del buon giornalismo.
«L'Espresso» del 17 marzo 2010

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