10 marzo 2010

Così l’America esporta Internet gratis nei regimi. La Cina contrattacca

Il potere destabilizzante del web
di Mattia Ferraresi
Sul ramificato sistema di sanzioni ed embarghi imposti dal governo americano verso stati potenzialmente (o attualmente) pericolosi è improvvisamente calata la parola “deroga”. Lunedì scorso l’ufficio per il controllo degli asset stranieri – un comparto strategico del dipartimento del Tesoro che opera al confine delle competenze diplomatiche – ha annunciato alcune particolari eccezioni per l’esportazione di servizi americani verso Iran, Cuba e Sudan, paesi interdetti a vario titolo dalle relazioni economiche con gli Stati Uniti. La deroga annunciata dal governo riguarda le esportazioni di “alcuni servizi e software inerenti alla comunicazione personale su Internet”, che tradotto significa social network, chat, servizi email, blog, siti per la condivisione di immagini e tutto quell’apparato tecnologico che permette agli internauti di collegarsi e bypassare in qualche modo le rigide maglie del controllo governativo.
Una prassi esemplificata a livello mondiale dai racconti dei manifestanti di Teheran dopo le elezioni dell’estate scorsa, scivolate fra le dita dei controllori di regime e finite nel mainstream grazie a Twitter. Nel presentare il decreto il numero due del Tesoro, Neal Wolin, ha ripetuto che il principio ispiratore della deroga è il “profondo impegno dell’Amministrazione nell’estendere i diritti universali a tutti i cittadini del mondo”. Una vasta operazione umanitaria, dunque, che “permetterà ai cittadini dell’Iran, di Cuba e del Sudan di esercitare i loro diritti fondamentali”. Ma al di là di generiche dichiarazioni di principio sulla libertà di parola, la “final rule” emessa dopo mesi di discussioni avviate dal dipartimento di stato contiene una serie di implicazioni politiche. Le comunicazioni personali nell’era digitale sono, si legge nel testo ufficiale, “strumenti vitali per il cambiamento” e il potere di disporre qualche falla nelle dighe commerciali è “necessario per l’interesse nazionale degli Stati Uniti”.
Quello che le ventuno pagine della “final rule” rivelano con circospezione è il valore strategico degli asset legati al flusso di informazioni su Internet, un potenziale destabilizzante che gli Stati Uniti non vogliono in nessun modo lasciare nelle mani dei governi locali. Per questo l’Amministrazione ha deciso di aprire un varco apparentemente contraddittorio rispetto alle rigide limitazioni nei confronti di tre stati che si nutrono quotidianamente dell’orwelliana manipolazione delle informazioni e del controllo dell’opinione pubblica. Quella emessa dal dipartimento del Tesoro non è soltanto la toppa legale a un ambito, quello della diffusione di software, non ancora normato da regole precise, ma un vero atto politico: tutti i servizi legati al Web erano già inseriti nella lista dei prodotti commerciali non esportabili in Iran, Sudan e Cuba; oggi tutto questo è finito sotto l’ineffabile “deroga” del governo americano, un misto di universalismo dei diritti e corsa agli armamenti digitali.
Berin Szoka, il direttore del Center for Internet Freedom, importante snodo della cultura open source, davanti ai giornalisti si è rallegrato che il “dipartimento del Tesoro stia dando consistenza agli sforzi di Hillary Clinton per rendere più semplice l’accesso ai servizi di comunicazione offerti dagli Stati Uniti per i cittadini di regimi oppressivi e antidemocratici”, ma è rimasto piuttosto interdetto riguardo a un dettaglio del provvedimento, quello che limita gli scambi ai soli servizi gratuiti: “Perché non dovremmo permettere a tutti i cittadini di questi paesi di accedere ai servizi a pagamento? Non tutti gli strumenti utili ai dissidenti sono gratis”. Il decreto su questo punto è esplicito: l’America potrà esportare soltanto prodotti gratuiti, per evitare – questo è chiaro – gli abusi di aziende americane che vedrebbero da un giorno all’altro aprirsi le porte di mercati vergini che brulicano di assetati informatici. D’altra parte, la limitazione ai soli prodotti gratuiti mette in chiaro le cose: non è un fatto di business, soltanto politica.
Il sistema di deroghe accordato ai tre regimi è soltanto l’ultima battaglia della guerra digitale dell’Amministrazione, un conflitto logorante e obliquo dove alleati e nemici tendono a confondersi. Il fronte più caldo è quello cinese, dove 384 milioni di persone hanno l’accesso quotidiano a Internet e ogni giorno le squadriglie di hacker reclutano nuovi adepti. La colossale operazione Aurora, in cui le orde digitali provenienti dalla Cina hanno messo sotto attacco per oltre due mesi siti e database di grandi corporation americane, ha mostrato tutti i limiti dell’ideale patinato di uno spazio digitale completamente “libero” e privo di censure. A parte il fatto che la censura cinese, prima di Aurora, era garantita da Google, quello che sta emergendo dalle indagini non è semplicemente un attacco orchestrato dai quadri del regime, ma una cooperazione di forze semi-indipendenti canalizzate verso l’unico scopo di destabilizzare un paese ostile. Grandi concentrazioni di hacker come GhostNet e la Red Alliance non sono appena milizie digitali sotto la sovrintendenza del partito, ma per lo più sono fatte da nerd postadolescenti che godono nel vedere che le scorribande digitali producono un qualche effetto, anche se lo scopo finale rimane in fondo oscuro. E’ soltanto uno dei paradossi dello spazio digitale libero, privo di condizionamenti, asettico e senza attriti esterni. Per evitare che le fibre ottiche di altri paesi assomiglino a quelle che portano virus cinesi, l’America questo spazio libero ha deciso di colonizzarlo senza tanti complimenti, contro ogni ragionevole sanzione.
«Il Foglio» del 9 marzo marzo 2010

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