05 marzo 2010

Come i giornali dovranno cambiare per non dare “l’ultima notizia”

di Piero Vietti
Secondo il sindaco di San Francisco, se improvvisamente il mondo restasse senza quotidiani “i cittadini al di sotto dei trent’anni non se ne accorgerebbero nemmeno”. Iperbolica o meno che sia, quest’affermazione trova conforto in una ricerca condotta in America dal Pew Research Center e pubblicata due giorni fa: le notizie su Internet battono quelle su carta, il Web è il terzo medium più diffuso per leggere e approfondire news, dopo le tv locali e i network nazionali. La televisione resiste, ma la rete continua a mangiarsi il sempre più malandato mondo dei giornali che vanno in edicola, e lo fa a ritmi sempre più veloci. Se sia giunto il tempo di spegnere le rotative e lasciarsi naufragare nell’on line se lo chiedono Massimo Gaggi e Marco Bardazzi in “L’ultima notizia”, libro da poco uscito per Rizzoli che analizza la “fine degli imperi di carta e il paradosso dell’era di vetro” senza abbandonarsi a nostalgie tanto retoriche quanto inutili (quelle per il cronista con le dita sporche di inchiostro, per intenderci) né inneggiare al progresso tecnologico per il gusto del progresso tecnologico.
Che fine faranno i giornali e come questi debbano trasformarsi per sopravvivere è a tema da qualche tempo negli Stati Uniti, dove anche i grandi colossi editoriali tremano, da un po’ meno in Europa. La comunicazione del futuro, scrivono Gaggi e Bradazzi, si basa su tre “C”: condivisione, comunità e conversazione. Da integrare però con altre tre: contenuti, credibilità, creatività. Il mestiere dei giornalisti sta cambiando come pochi altri al mondo, professionisti con anni di carriera alle spalle devono reinventarsi o rischiano di finire come la cinquantaseienne Lois Draegin, ex direttrice esecutiva della rivista americana Tv Guide e oggi stagista in una testata on line dedicata alle donne. Meglio è andata a Charles M. Sennott, che per anni ha girato il mondo come inviato per il Boston Globe. Capito che le cose stavano cambiando, nel 2005 si è preso un anno sabbatico e ha seguito un corso a Harvard sui nuovi scenari del giornalismo digitale. Nel frattempo il Globe ha chiuso, e lui si è inventato il Globalpost.com, un giornale on line che vende ai quotidiani tradizionali reportage da tutto il mondo realizzati grazie a corrispondenti che vivono in 50 paesi diversi. L’esperimento sembra funzionare, ma per ora i ricavi sono ancora bassi per parlare di successo.
Tentativi riusciti o meno, è innegabile che il Web ha cambiato prima di tutto i lettori, i quali vogliono partecipare sempre di più. Da qui nasce la grande incognita del “citizen journalism”, il giornalismo di para inchiesta che ogni persona dotata di una connessione internet può fare. Con risvolti positivi (come il caso della mamma insonne che grazie a Google ha scoperto e denunciato una truffa) o negativi, come quando un blog collegato al sito della CNN diede per certa la morte di Steve Jobs, il fondatore di Apple, e la notizia fu data dalle agenzie. Come certificare la credibilità di chi fa informazione su Internet? Come impedire che un blog anonimo finisca sullo stesso piano del sito del New York Times nella percezione del navigatore? C’è chi spera in un’altra “magia” della Apple: dopo avere salvato le case discografiche con l’iPod e iTunes, i nuovi palamari in stile iPhone, iPad o kindle potrebbero rilanciare i giornali e riconquistare anche i famosi under 30 che non si accorgerebbero della morte dei quotidiani. Nelle redazioni di mezzo mondo si fanno esperimenti di interazione tra carta e on line, si cercano soluzioni per fare pagare i contenuti senza perdere lettori (ma secondo una ricerca recente ciò di cui si discute nei blog nasce da quello che scrivono i giornali). Non ci sarà mai un’ultima notizia. Il punto è capire come cambiare per potere continuare a dare notizie.
«Il Foglio» del 5 marzo 2010

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