31 marzo 2010

La cena dei cretini

La Francia rivoluzionaria si macchiò 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo
di Marco Respinti
Si apprestava il Bicentenaire della rivoluzione di Francia e Jean Dumont – storico scomparso nel 2001 di cui la Francia farebbe bene a menare più vanto – pubblicò un pamphlet urticante, Pourquoi nous ne célèbrerons pas 1789 (ARGÉ, Bagneux 1987). Fu tradotto come I falsi miti della Rivoluzione francese (prefazione di Giovanni Cantoni, Effedieffe, Milano 1990), ma è il titolo originale a essere significativo: perché sarebbe meglio non celebrare l’Ottantanove come l’alba del “mondo nuovo”.
Dumont si permise l’invettiva perché era un vero topo di biblioteca, uno studioso carico di importanti scoperte documentali. E così, dettagliate le proprie affermazioni lungo un’intera carriera, sciorinò in questo opuscolo “di battaglia” le inibizioni derivate alla società occidentale dalla rivoluzione francese e fortificate dalla cultura che ne derivò nei secoli seguenti.
Ovvero: il falso mito della “modernizzazione decisiva” rispetto ai presunti cascami del passato, quello del “popolo al potere” e quello della sua finalmente conquistata “felicità”. Poi mise in luce l’incapacità della cultura postrivoluzionaria di garantire le libertà sociali e le autonomie per colpa di uno statalismo opprimente e di un nazionalismo aggressivo. Infine la falsità egualitaristica e l’invenzione del terrore poliziesco come strumento di governo quotidiano.
Talché le parole proferite nel 1989 dall’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi – la rivoluzione francese ci ha lasciato solo il sistema metrico decimale – sono di più di una semplice boutade.
Il “secolo lungo”
Ma se l’Ottantanove ha prodotto macerie, la philosophie che lo precedette lungo il “secolo francese”, dichiarandosi lume venuto a rischiarare l’antro tenebroso e fetido della superstizione e del servaggio (per dirla con Edgar Quinet), ha invece consegnato alla posterità retaggi profondi e purtroppo duraturi sull’intera cultura progressista, cioè, quella che per lo più oggi domina. Così che, nonostante la definizione di «secolo breve» di Eric Hobsbawm, il Novecento dei noti abissi appare, in verità come “secolo lungo”, apertosi più di 200 anni fa in Francia.
E tra le molte venature di questo lascito, tra le pieghe del suo razionalismo, nei solchi del suo democraticismo, nelle filière del suo egualitarismo, nei meandri del suo statalismo e tra le ans(i)e del suo laicismo, spunta pure, orrendo e raccapricciante, il razzismo.
Sì, il razzismo: quello che, anche ammesso di voler perdonare tutto ai Lumi e alla rivoluzione, mai si penserebbe di collegare al Settecento francese. Perché cozza con la triade libertè, egalitè, fraternitè; perché contrasta con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; perché in urto con la sua retorica emancipazionista, liberazionista e universalista.
Ma non è così. Già da qualche anno in Francia lo storico Jean de Viguerie (cfr. il Domenicale 16 ottobre 2004) e oggi in Italia Marco Marsilio con il volume Razzismo, un’origine illuminista (prefazione di Gianni Scipione Rossi, Vallecchi, Firenze 2006) documentano il contrario. Il razzismo fece parte a pieno titolo del pensiero illuminista, non ne contraddice affatto i canoni e anzi fu un perno centrale di quel “pensiero nuovo” che mirò a travolgere duemila anni di riflessione culturale.
Fu infatti la philosophie che, tra sensismo, meccanicismo e materialismo incipienti, ridusse l’essere umano a specie tra le specie, inserendone la vicenda temporale nell’ambito della mera storia naturale e quindi sottoponendolo a classificazioni e tassonomie quasi fosse una pianta o una bestia qualsiasi. A ciò si accompagnò una critica sempre più serrata della narrazione biblica. E così l’idea di una comune origine dell’umanità lasciò presto il posto ad arzigogolate e aberranti teorie eziologiche che hanno finito per ridurre le “specie” umane a miceti spuntati qua e là per caso, belli o brutti, intelligenti o deficienti, così come i funghi sono eduli o velenosi.
Fu questa la vera rivoluzione, quella che incoronò l’uomo-materia detronizzando l’antico essere umano imago Dei. A essa contribuirono un po’ tutti i padri nobili dell’illuminismo, da Voltaire al conte di Buffon, da Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales a Guillaume-Thomas-François Raynal, da Denis Diderot a Baptiste-Henri Grégoire. Il resto fu conseguenza pratica.
La riduzione dell’essere umano alla semplice dimensione materiale e naturalistica venne poi rielaborata “scientificamente” nell’Ottocento, che dotò il razzismo di basi “oggettive” e biologiche. La strada per Auschwitz era aperta.
Evoluzionismo ed eugenetica
Ma non solo. Da quel pensiero discende anche l’“eugenetica democratica”, e su questo si possono leggere con profitto Piero S. Colla, Per la nazione e per la razza. Cittadini ed esclusi nel modello svedese (Carocci, Roma 2005), Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2004) ed Edwin Black, The War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create a Master Race (Four Walls Eight Windows, New York 2003).
In più, sempre da quel pensiero, derivò l’idea secondo cui si può fare qualsiasi cosa dell’uomo, se ciò serve, sin dal suo stadio embrionale. Per esempio, «rigenerarlo» come l’abbé Grégoire, prete giacobino, prospettava per gli ebrei «degenerati».
L’eugenetica, del resto fu inventata, termine e idea, dallo psicologo Francis Galton, il quale introdusse l’evoluzionismo del proprio cugino Charles Darwin nel biologismo “scientifico” con cui poi auspicò la manipolazione umana (tutto da leggere è Richard Weikart, From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany [Palgrave MacMillan, New York 2004]).
200 anni fa, il Terzo Reich
Ora, gli orrori della Shoà hanno prodotto una valanga di riflessioni, ma la cultura occidentale – come bene scrive Marsilio – per non voler essere mai più razzista ha cercato di non esserlo mai stata, rimettendo ogni responsabilità al solo nazionalsocialismo, folle e improvviso.
Eppure la malapianta aveva radici più profonde. Forte delle teorie eugeniste e malthusiane che gli provenivano dai padri illuministi, la Francia rivoluzionaria si macchiò ben 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo. Dai massacri del settembre 1792 con cui si eliminarono anche deboli e perversi prefigurando l’Operazione T4 realizzata nel 1939 dal Reich hitleriano, al primo genocidio della storia, quello praticato in Vandea tra il 1793 e il 1794 con tanto di camere a gas ed esecuzioni anzitutto di donne e di bambini, onde estirpare una «race maudite», una razza maledetta, di oppositori.
Insomma solo in virtù della sua memoria corta, certo Occidente può ancora gloriarsi dell’illuminismo.
«Il Domenicale» dell'ultima settimana del marzo 2006

Le emozioni, la ragione e la realtà

di Mario Calabresi
La distanza tra la parte razionale e quella emotiva del cervello certi giorni appare immensa e insormontabile. Soprattutto se una parte dei cittadini, dei giornalisti e dei politici usa soltanto la prima e una parte consistente degli elettori invece va alle urne guidata dalla seconda.
Ieri mattina le analisi del voto e del successo della Lega, che in cinque anni ha raddoppiato i suoi consensi, parlavano di federalismo, di protesta e di voglia di rottura. Le motivazioni di chi ha scelto il partito di Umberto Bossi appaiono invece completamente diverse e si richiudevano in tre parole: serenità, normalità, sicurezza.
Questa distanza di percezione e interpretazione ci racconta che anche in Italia politici e analisti fanno riferimento solo ad una parte della nostra mente, quella più fredda, razionale e calcolatrice, cadendo così in errore e restando spiazzati di fronte ai risultati elettorali. Prima delle ultime presidenziali americane, Drew Westen, noto professore di psicologia e consulente politico, lo ha spiegato in un libro di successo. I conservatori, sostiene, sanno fin dai tempi di Nixon e poi di Reagan che la politica è soprattutto una «questione di racconto».
I progressisti, aggiunge Westen, hanno perso elezioni a ripetizione concentrandosi solo su questioni astratte e razionali, che non chiamano mai in causa cuore e pancia. Un candidato emergente di nome Barack Obama ha preso appunti e mettendo a frutto la lezione di Westen è riuscito a trasformare le tematiche più «cerebrali» in una «narrativa» capace di coinvolgere i suoi concittadini. E ha vinto.
I leader della Lega probabilmente non conoscono il professore americano, ma istintivamente ne hanno messo in pratica gli insegnamenti, mentre gli esponenti del centrosinistra, pur guardando ad Obama come a un esempio mitico, ripetono regolarmente gli errori storici dei democratici americani.
Il successo della Lega non penso sia figlio delle battaglie sul federalismo, o almeno non in modo preponderante in questa fase, ma nasce dalla voglia di dare il consenso a una formazione politica che viene vissuta come più prossima, più vicina e che parla un linguaggio di certo assai semplificato ma diretto e comprensibile. Difficile ignorare che i toni e le battaglie contro gli immigrati e l’integrazione hanno creato apprensioni e disagio in molti, così come appare irritante una semplificazione della realtà che tende ad identificare il diverso come ostile, ma leggere la vittoria di Bossi come uno scivolamento del Paese nel razzismo sarebbe ingannevole e non spiegherebbe cosa è successo.
La risposta alle politiche leghiste non può ridursi alla demonizzazione e a un nuovo allarme per la calata dei barbari, ma dovrebbe partire da un impegno reale sul territorio. La sede della Lega a Torino, il luogo dove è stata festeggiata la conquista del Piemonte, si trova a Barriera di Milano, in una delle periferie più difficili della città e gli arredi si limitano a foto di militanti sui muri e ad una serie di sedie di plastica verde. La piccola carovana leghista che dopo le due del mattino si è spostata in una deserta piazza Castello, per festeggiare la presa del potere, appariva fuori posto nel centro della città sabauda. Ma questa è sembrata essere la sua forza.
La prima volta che ho incontrato Roberto Cota gli ho chiesto di spiegarmi quali erano le prospettive politiche della Lega in Piemonte e lui mi ha risposto parlandomi per un quarto d’ora sui danni della grandine. Mi sembrava un marziano, ma i risultati della Lega nelle campagne del Cuneese come in quelle del Veneto ci dicono che anche lì c’era uno spazio vuoto che da tempo aspettava di essere riempito.
La teoria del cervello emotivo calza alla perfezione anche con Berlusconi: dopo un anno di scandali, feste dei diciott’anni, escort, processi, leggi ad personam, scontri sulla televisione, è riuscito a tenere in piedi la sua maggioranza e a portarla ad un’altra vittoria. Ha visto un calo dei suoi voti, ma la politica di alleanze che ha messo in piedi 16 anni fa - con la Lega al Nord, con gli eredi della Dc e dell’Msi al Sud - ancora regge e il suo potere di seduzione non si è esaurito. Non è certo tutto merito suo, ma anche della stanchezza di un elettorato che non vede maggioranze o progetti alternativi capaci di spingere ad un cambio di direzione.
La mancata sconfitta di Berlusconi, date le evidenze degli ultimi dieci mesi, dovrebbe allora farci pensare che quei temi che domenica scorsa Barbara Spinelli ci indicava come cruciali - le regole, la legalità, l’indipendenza dell’informazione e i diritti - siano inutili e non efficaci? Non rispondano a esigenze fondamentali? Nient’affatto, dovrebbero far parte del dna dei giornali, delle forze politiche, dovrebbero essere lo sfondo condiviso di una democrazia e sarebbe troppo pericoloso ignorarli. Ma forse dovremmo convincerci, una volta per tutte, che non possono essere i temi esclusivi di un programma elettorale e che da soli non sono capaci di dare la vittoria. La differenza la fanno la capacità di intercettare i bisogni, i desideri e le paure degli elettori e, facendosene carico, dare risposte concrete in un quadro che abbia come riferimento proprio le regole, la legalità e la separazione dei poteri.
Non si può pensare che una battaglia, per quanto corretta e incisiva, sulle firme, sui timbri o sulle procedure di presentazione delle schede sia capace di invertire il risultato di un’elezione, di rispondere ai bisogni dei cittadini.
L’avanzamento della Lega anche in Emilia e in Toscana ce lo ricorda, così come lo sottolineano gli inaspettati successi delle Liste Grillo. Mercedes Bresso - lo ha candidamente confessato l’altra notte di fronte alle telecamere - non immaginava neppure che potessero conquistare un voto. Non era la sola: i giornalisti al completo (noi compresi) le avevano sottovalutate nella stessa misura.
Ma non sarebbe stato impossibile capirlo: sarebbe bastato leggere con attenzione i giornali che produciamo ogni giorno. Non le pagine politiche ma quelle di società, ambiente e costume, dove parliamo degli italiani che si muovono in bicicletta, che chiedono più piste ciclabili, più verde e aria pulita per i loro figli, che si preoccupano per l’effetto serra, che comprano equo e solidale, che riducono i consumi di carne, fanno attenzione a non sprecare acqua e usano Internet e i social network. Nessuna delle forze politiche tradizionali si è però preoccupata di intercettarli, di dare loro rappresentanza, tranne un comico che, non per caso, è stato premiato.
«La Stampa» del 31 marzo 2010

La passione della critica? L’orgia di luoghi comuni

Breviario di frasi fatte da applicarsi a scrittori noti e ignoti Così gli esperti assegnano il bollino qualità. Senza faticare. Moresco, Busi, Arbasino e perfino Beckett. Basta dire: "Meglio il primo libro"
di Massimiliano Parente
Come mai i critici, in Italia non appena uno scrittore comincia a avere un’opera importante, cercano di riportarlo nell’ovile della mediocrità, oppure smettono di leggerlo per ridurlo al silenzio? Moresco? Era meglio quando scriveva romanzi brevissimi, tipo La cipolla. Busi? I primi due erano belli, anzi: «un genio, ma il più bello è il primo, Seminario». Parente? Meglio il tuo breve saggio su Proust che i monumentali La macinatrice o Contronatura, furba tecnica dell’elogiarti sul meno per denigrare il più.
Va di moda farlo anche con i grandissimi ormai canonizzati: Beckett? Meglio Primo amore de L’innominabile o dell’ultimo Beckett, troppo estremo, troppo silenzioso, troppo nichilista, troppo Beckett, che palle. Bernhard? Meglio il primo Bernhard dell’ultimo, troppo bernhardiano. Arbasino? Meglio Le piccole vacanze che Fratelli d’Italia, e di Fratelli d’Italia meglio il primo, mai letto, del terzo, pubblicato da Adelphi, troppo lungo, troppo riscritto, chi si crede di essere, Manzoni? Pasolini? Il più bello è Petrolio, il romanzo incompiuto. Proust? Non va più di moda, meglio Piperno, il quale ha scoperto il gusto di piacere al pubblico sovrano e anche che Hermann Broch o Bernhard sono autori da adolescenti. Ovviamente, come raccontato ieri sul Giornale da Luigi Mascheroni, la gogna tocca anche a Isabella Santacroce, che ha scritto un romanzo bellissimo, densissimo, immaginifico, delicato e affilato, un fuoco di artificio di fantasia e poesia, una storia semplice che sprofonda in alto, nel cosmo, sulle nuvole, nel Mondo del Mistero, una Alice moderna nata calva, «orfanella spauracchio» in una città troppo perfetta, che parla della bellezza della mostruosità, una divina commedia moderna, spietata e delicata, una trilogia che inizia con V.M. 18, continua con Lulù e terminerà in un purgatorio santacrociano dalle già annunciate mille pagine. Tuttavia intorno a Lulù non c’è sociologia spicciola, non c’è impegno, non c’è Berlusconi, non si parla di mafia, di immigrati, di camorra, non c’è piccineria narrativa, i critici non sanno come prenderla, dovranno mica leggerlo per scriverne? Insomma, come si permette questa Santacroce di essere così ambiziosa, di non riscrivere mai lo stesso libro declinato al trapassato remoto femminile come la Vinci, la Parrella, la Mazzucco, la Cutrufelli, la Ammaniti o, tra i politici narratrici, la Franceschini o la generosamente rinunciataria Veltroni? Come si permette la Santacroce di essere una scrittrice vera in un paese di timbratori di cartellini editoriali, di critici che fanno gli scrittori o scrivono librini sui critici per dire quanto sono bravi loro, ora che il romanzo è morto?
Cosa volete che gliene freghi, alla casta nauseabonda dei letterati italiani, di Lulù Delacroix (Rizzoli) romanzo luminoso e tenebroso che si legge come un classico e per delicatezza e profondità e stimolo etico e estetico si potrebbe introdurre anche nelle scuole? Nemmeno uscito e subito frettolosamente stroncato da Barilli su Tuttolibri come un libro noioso che «fa il verso a Carroll» (non è vero, è perfino più bello di Carroll e casomai, per orizzonti e profondità, è meravigliosamente swiftiano, e fanculo alla prudenza sui viventi che può infrangere a sproposito solo D’Orrico, e se è per questo Mann faceva il verso a Goethe o Caravaggio a Michelangelo?). Lo stesso Barilli, fra l’altro, che ha stroncato Canti del caos di Moresco prendendolo come «un ottovolante del sesso» e paragonandolo a Benni (sic), lo stesso Barilli amico della domenica del Guglielmi (e entrambi teorici del Gruppo 63, teorici delle non-opere) che ha stroncato Busi con il giudizio ormai memorabile «un grande scrittore che scrive brutti libri» (che significa? migliorò la formula con Moresco, il cui capolavoro divenne «un libro illeggibile»), mentre elogiava, come grandi scrittori («facitori d’arte»), un giorno, lo stesso giorno, su Tuttolibri il romanzo di Nico Orengo, direttore di Tuttolibri, e sull’Unità il romanzo di Furio Colombo, direttore dell’Unità, perché i critici sanno usare la lingua meglio degli scrittori. Come ancora, di recente, l’elogio di Filippo La Porta, «critico letterario», sul Corriere della Sera, al «puntuto» saggio di Pierluigi Battista, uno a caso e che, con tutti i suoi meriti, con la letteratura poco c’entra.
Amico della domenica anche Emanuele Trevi, giurato e candidato al Premio Strega dalla stessa Rizzoli, editore che in compenso alla Santacroce non ci pensa proprio: al limite, se non Trevi, va bene Silvia Avallone, va bene Silvia Ballestra, perché ormai gli editori partono con l’idea di portare allo Strega un libro da Strega, una merdina narrativa da confezionare per farne una merendina vendibile, dopo essersi messi più o meno d’accordo sul turn-over editoriale da rispettare. La Lulù di Isabella è perfino troppo divertente e donchisciottesca, tragica e comica come i grandi romanzi. Di Lulù, che potrebbe diventare il più bel cartone della Pixar o il più bel film di Tim Burton, vorrei scrivere di più ma vorrei che la leggeste e conosceste le terribili gemelle Ada e Dolores, Dorino Griù, il Melampadario, Pipistro, la Scarazebra Esclamativa e tanti altri, e l’incantevole lingua naive infantile parlata dalla piccola Lulù (che esordisce con un: «IO NO U MOSTLO»), come scrivere usando l’Alfabeto della Negazione, e gli Austeriani alti quaranta centimetri da almeno settecentotré anni, e il Leonebano matematico, e Cipò e i Papaveri Vendicatori «che una volta gli mangiassero anche il naso, e poi dopo facevano degli strilli».
Vorrei che la Rizzoli le mettesse una fascetta di qualità: «Non candidato neppure da noi al Premio Strega perché troppo bello». Perché la società letteraria italiana è come la Perfect City in cui vive l’animale bambina Lulù, dove «era proibito parlare ad alta voce dopo le ore venti virgola sette, ascoltare musica prima delle ore dieci virgola cinque, svegliarsi dopo le ore otto virgola trenta», dove «le donne non potevano tagliarsi i capelli più corti di diciassette centimetri, mentre gli uomini dovevano portarli non più lunghi di otto, era vietato indossare abiti dalle tinte sgargianti, cappelli adornati da nastri, scarpe di gomma, foulard variopinti, spinte raffiguranti cetacei...». Lulù è il mostro, la bambina reietta, segregata in casa dalla famiglia Delacroix a causa della sua diversità, lontana dal mondo e isolata nel suo lavoro, metafora della diversità e anche della vera letteratura, metafora dell’isolamento di Isabella dal triste Circolo Pickwick in versione fantozziana dei letterati italiani. Quindi tenetela lontano, meglio premiare la bambina veltroniana del romanzo di Emanuele Trevi o preferibile avallare l’Avallone, si stia lontani dal capolavoro della Santacroce, un oceano di dolcezza e di non rassegnazione senza essere banalmente edificante, almeno non si deve discettare se sia meglio il primo Trevi o il secondo, essendoci solo il primo si fa presto sia a non leggerlo che a leggerlo dimenticandosene. Io scappo con Lulù, l’animale Lulù, la bambina dei lampi, voi fate come credete.
«Il Giornale» del 31 marzo 2010

Punto, punto e virgola & Co.

Una misteriosa convocazione per un gruppo di persone (?). Un presunto sabotaggio subito da uno scrittore (?). Che cosa lega questi due episodi?
di Daniele Abbiati
Il tipo rotondo e bassotto si avvicina alla signorina magra, seduta con le lunghe gambe accavallate.
"Mi scusi, signorina, le dispiacerebbe dirmi il motivo per cui l'hanno chiamata qui? Guardi, glielo chiedo perché io non lo so perché mi hanno convocato, e pensavo che... Insomma, sono un po' preoccupato, visto che sto qui dentro da più di un'ora e nessuno si è ancora fatto vivo...".
"No, me lo chiedo anch'io", fa quella. "Però... ho ricevuto a casa una lettera di convocazione. Scritta decisamente male, fra l'altro".
"Ah, una lettera. Anch'io ho ricevuto una lettera", fa il bassotto. E poi, visibilmente seccato e alzando il tono per farsi sentire anche dagli altri: "Però, è un bel po' che aspetto... Non è che per caso bisogna prendere il numeretto, come in Comune?". La battuta del numeretto la fa ammiccando in direzione di una coppia seduta di fianco alla signorina, su un divano.
"Io distributori di numeretti non ne ho visti", risponde sorridendo quello che probabilmente è il marito. È cortese ma anche lui visibilmente infastidito dall'attesa. "Anche noi abbiamo ricevuto la convocazione per lettera...".
"Certo", conferma la sua signora. "E sono d'accordo con lei, mia cara. Era una lettera davvero poco curata...", aggiunge facendo un cenno d'intesa alla coscialunga.
"Be', a questo punto è chiaro che la lettera di convocazione è uguale per tutti". È la voce flautata di un altro uomo. Sta guardando fuori dalla finestra e ha parlato senza nemmeno voltarsi. "Evidentemente, abbiamo in comune qualcosa, senza saperlo, vero amore?", aggiunge tornando al suo posto e accarezzando la schiena all'amichetto. Sembrano gemelli, più che una coppia di gay.
Il bassotto, la coscialunga, il marito e la moglie non hanno ancora finito di scambiarsi le tipiche occhiate dense di sorpresa e compatimento per i froci, quando la porta della parete opposta alla finestra si apre ed entrano tre ragazzini sui quindici anni. Si somigliano come tre gocce d'acqua e, stranamente composti per essere degli sbarbatelli, camminando in fila indiana salutano all'unisono ("buongiorno a tutti") e vanno ad accomodarsi sull'altro divano.
*** *** ***
"Il signor Fermo?".
"Sono io".
"Prego".
"Finalmente, stavo quasi per andarmene...".
*** *** ***
Uno alla volta, furono chiamati tutti. Anzi, non uno alla volta: dopo il signor Fermo toccò alla signorina Verga; poi fu la volta dei coniugi Manuzi; quindi dei due gay, ovviamente insieme anch'essi; e infine dei tre gemelli.
Non solo. Nel salotto di quel bell'appartamento signorile comparvero, il giorno dopo, altri personaggi che i lettori ben conoscono. Ne citeremo soltanto alcuni: il dottor Ammirante, con il suo incedere impettito e reggendosi a un lungo bastone d'ebano; il cavalier Ricciolo, dallo sguardo indagatore e ammiccante; e tre coppie di sorelle pettegole e zitelle dai cognomi bizzarri: Caporali, Apici e Bisapici.
*** *** ***
"Milano, 4 marzo 2010
Egregio Signore Gentile Signora
la presente per informarLa di un evento increscioso verificatosi or non e molto Si tratta dell inqualificabile atto di sabotaggio subito dalle mie opere in corso di stampa da circa un mese presso l Editrice Il Refuso di Milano Affinche Lei possa verificare in prima persona la gravita del fatto che non ha precedenti nella storia dell editoria italiana e confidando nella Sua comprensione come dire di addettoa ai lavori Le spedisco copia dei volumi in questione Purtuttavia siamo qui e Volendo volare InvitandoLa a prenderne visione posso contare sulla Sua collaborazione al fine di smascherare gli autori dell atto criminoso La ringrazio fin d ora e porgendoLe i piu cordiali saluti La invito a presentarsi il giorno presso lo studio del mio legale avv Antonio Sculacciabuchi Della Prospera sito al numero civico 8 di via Castruccio Castracane alle ore Le trasmetto i sensi della mia piu viva ammirazione
Italo Muso"
«Il Giornale» del 31 marzo 2010

Cannibali della realtà: i segreti degli scrittori

Come nasce l'ispirazione? Le confessioni dei grandi del Novecento
di Paolo Di Stefano
L'antologia della Paris Review, appena uscita da Fandango, è uno zibaldone di racconti, poesie, saggi e interviste ai grandi scrittori della seconda metà del Novecento. Ci sono tutti, o quasi, da Kerouac a Jonathan Lethem, da Ezra Pound a McInerney, divisi per grandi temi: follia, sesso, amore, guerra, Dio, morte, viaggi, eccetera. Molti testi si conoscono già, moltissimi invece non erano facilmente reperibili. I più interessanti sono quelli che si soffermano sull'arte di scrivere, argomento affrontato anche la settimana scorsa al festival di Roma, «Libri come». La Paris Review è stata, per mezzo secolo, dal 1953, una delle riviste letterarie più importanti. Riviste che oggi mancano, sostituite dalla confusione di Internet, dove è complicato capire quali siano i siti autorevoli e quali le bufale. Sull'arte della scrittura e sull'ispirazione ci sono, nell'antologia, osservazioni fulminanti che potrebbero servire ai milioni di aspiranti scrittori che ambiscono alla pubblicazione senza se e senza ma. «Ci metto molto a iniziare - diceva Calvino - se ho l'idea per un romanzo, trovo ogni scusa possibile per non lavorarci». Ma «una volta iniziato, so essere molto veloce». A Hemingway, spesso, le cose venivano più facili, al punto che una sera, dopo aver buttato giù tre racconti senza nessun problema, seduto sul letto sbevazzando il suo Valdepeñas si chiese che razza di scrittore fosse se le parole gli venivano bene al primo colpo. Faulkner sostiene che lo scrittore non conosce ostacoli (onore, orgoglio, decenza, sicurezza, felicità) e pur di portare a termine quel che ha in testa non esiterebbe a derubare sua madre. Per Henry Miller l'ispirazione nasce lontano dalla macchina per scrivere, lontano dalla scrivania: «Direi che succede tutto negli attimi di calma, di silenzio, mentre cammini o ti radi o giochi a qualcosa, persino mentre parli con qualcuno che non ti suscita grande interesse. Lavori tutto il tempo, la tua mente lavora, a quel problema nel retro del tuo cervello». Così, quando lo scrittore si mette seduto, è solo una faccenda di trascrizione. Vargas Llosa rivela che si mette a scrivere spinto da uno stato molto nebuloso, come «di allerta, di vigilanza» e solo dopo, durante il lavoro, arriva l'illuminazione: da quel momento diventa una specie di «cannibale della realtà». Ian McEwan dice che «la gioia è nella sorpresa» anche scoprendo soltanto un'accoppiata felice di nome e aggettivo. García Márquez racconta che una notte un compagno di college gli passò i racconti di Kafka e che quando, tornato alla pensione in cui alloggiava, aprì il libro, la prima riga della Metamorfosi lo fece quasi cadere dal letto e fu così che cominciò a scrivere. Naipaul ricorda che da giovane voleva diventare molto famoso come scrittore, ma non aveva nessuna idea di cosa scrivere. Sembrerebbe questa, oggi, la condizione più diffusa dei tanti che vorrebbero trovare un editore ancor prima di aver messo insieme un incipit.
«Corriere della Sera» del 30 marzo 2010

L'italiano pulito dei costituenti

Dallo stile impeccabile del testo originario a un'alluvione di commi prolissi e confusi
di Giorgio De Rienzo
Due prose a confronto: la Carta del '47 e gli articoli da poco riscritti
Nel sesto volume della «Lingua italiana d'oggi», di prossima uscita, il «punto» di discussione d'apertura è sul linguaggio della Costituzione, con interventi autorevoli di specialisti come Michele A. Cortellazzo, Tullio De Mauro e Fabio Ruggiano. La storia della Carta è nota. Il 31 gennaio del 1947 una commissione di 75 componenti aveva già preparato una stesura da sottoporre alla Costituente, che fu discussa e approvata alla fine dell'anno, per entrare in vigore il 1° gennaio del '48. Meno noto è invece che il testo fu sottoposto alla revisione linguistica di un letterato raffinato, con larga esperienza giornalistica, come Pancrazi, per garantire la semplicità (insieme all'eleganza) e soprattutto la leggibilità del testo definitivo. Il risultato fu eccezionale. Tanto è vero che la Costituzione può essere oggi proposta come un modello di lingua italiana di grande modernità. Nel suo «Elogio linguistico» della Carta, Cortellazzo mette in luce come siano privilegiati «i periodi brevi e chiari»: dunque proposizioni semplici e uso di frasi coordinate tra di loro, con la tendenza a eliminare una sintassi più complessa, nella preoccupazione di rendere più accessibile il testo alla comprensione. Molto limitato è il congiuntivo: si trova in soli 26 casi (circa uno ogni 5 articoli), là dove è richiesto per norma grammaticale. Molto raro è il gerundio, presente funestamente invece nel linguaggio legislativo e amministrativo d'oggi: nella Carta si tende a rendere esplicite, quando siano necessarie, le frasi subordinate. Mentre sul piano lessicale vengono limitati i tecnicismi: «Non si va molto al di là di termini come estradizione, impugnazione, ratifica, provvedimenti giurisdizionali, organi giurisdizionali, distribuiti comunque in un tessuto costituito da una base lessicale di dominio comune». Si vede benissimo, conclude Cortellazzo, come il testo finale sia «il risultato di un faticoso lavorio», in cui i costituenti «hanno messo sapientemente in atto una tecnica poco familiare nella politica: la tecnica del togliere, del semplificare, non dell'aggiungere, dell'amplificare». Una prova del nove sono le parti della Costituzione sottoposte a modifiche più di recente, che rientrano nel tipo di quella che Ainis ha definito «legislazione oscura», con incastri «di subordinazione, tortuosità, struttura sintattica labirintica e barocca», elementi tipici dei legislatori a noi più vicini, che per tutto elencare e specificare obbligano all'interpretazione, con ciò che ne deriva fatalmente. Tullio De Mauro resta su principi generali. Parte dalla constatazione che «una legge costituzionale mira non solo a regolare in generale un comportamento che possa aver luogo, ma mira anche a sollecitare che si attui tale comportamento, implica, comunque sia formulato, un invito, un ordine: è un testo, come si dice nelle lingue moderne ricorrendo a due latinismi tecnici, suasivo o iussivo», cioè che deve insieme persuadere e prescrivere. Di qui viene nella Costituzione un'astrattezza inevitabile e necessaria: l'invito, vale a dire, a prescrivere norme generali, le cui direttive applicative saranno poi specificate dalla successiva legislazione. Solo che i legislatori non hanno mai saputo riprodurre il modello della lingua della Carta e hanno proceduto nel creare, per troppo esemplificare e distinguere, un linguaggio di casta che può essere solo alla portata degli addetti ai lavori. Ben articolato nella sua analisi più minuta è l'intervento di Fabio Ruggiano, che punta a mettere in luce le caratteristiche più salienti della lingua della Costituzione. Un primo dato costante è l'elissi del soggetto, se facilmente recuperabile dal contesto: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» (art. 9). Un altro dato importante. Quando sia necessario il dettato non evita la ripetizione. Sacrifica in questo caso, se così si può dire, l'eleganza alla chiarezza: in tre articoli consecutivi, per esempio (13, 14, 15) viene ripetuto l'aggettivo «inviolabile» che riguarda la libertà personale, il domicilio, la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. E si arriva così inevitabilmente a una sorta di hit parade dei termini usati dai Costituenti: dove, a parte «Repubblica» come è ovvio, la fanno da padrone parole chiave che derivano da «lavoro» (presente 41 volte), da «libertà» (29) e da «garanzia» (11). Ma ciò che caratterizza e rende un esempio di stile impeccabile la lingua della Carta è la mancanza di rinvii interni, che invece infesta e rende inintelligibile la legislazione ordinaria. Anche in questo caso basta un raffronto con le modifiche recenti per mettersi le mani nei capelli. Si è detto della sintassi lineare e semplice. Ciò non toglie che esistano esempi di variazione, per dare più incisività ai concetti: anticipazione del predicato nominale rispetto al soggetto con il verbo «essere», la presenza del cosiddetto «articolo zero», tipico del linguaggio giuridico. Ma sono variazioni sempre discrete, che diventano impercettibili alla lettura. Nulla a che fare con i testi modificati successivamente: dove aumentano la prolissità degli articoli, il numero dei commi, la loro lunghezza e la complessità dei periodi, spesso in bilico con l' errore grave di sintassi.
Ieri e oggi Art. 120, primo comma (1947) Art. 120, secondo comma (2001) La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito fra le Regioni. Non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni. Il governo può sostituirsi a organi delle Regioni (...) nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l' incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell' unità giuridica o dell' unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
«Corriere della Sera» del 30 marzo 2010

Sesso: Intervista a Fabrice Hadjadj

Parla il filosofo francese che invoca una nuova Mistica della carne contro ogni riduzione dei rapporti a “masturbazione assistita”: «Il tecnicismo e la morale borghese rinchiudono il desiderio sessuale nel preservativo. È la Chiesa l’unica a non aver paura di liberarlo fino in fondo»
di Rodolfo Casadei
Conversare con Fabrice Hadjadj, l’autore di Mistica della carne. La profondità dei sessi, è un’esperienza di grande piacevolezza intellettuale. Attraverso il suo linguaggio sempre lucido si ha l’impressione di sentirsi trascinati contemporaneamente nel profondo degli argomenti e verso l’alto, ben al di sopra del ronzio pseudo-pansessualista. Trentotto anni, francese, nato da genitori ebrei di origini tunisine e convinzioni maoiste, ama presentarsi come un «ebreo di nome arabo e di confessione cattolica». Al cattolicesimo è approdato dopo una giovinezza trascorsa tra l’ammirazione degli ideali rivoluzionari della Comune di Parigi e l’immersione nella lettura dei grandi nichilisti del Novecento. Ha scelto di battezzarsi e diventare cattolico alla soglia dei trent’anni e se gli domandi perché l’ha fatto replica divertito: «Sono io che mi chiedo: perché non l’ho fatto prima? ». Fabrice Hadjadj insegna in un liceo e nel seminario diocesano di Tolone, ma è soprattutto un filosofo, una specie di Nietzsche cattolico, autore di una decina di libri in forma di saggi e drammi teatrali. Ecco una sintesi della conversazione.

«La nozione di educazione sessuale è problematica, perché la sessualità implica l’esperienza del desiderio e del suo eccesso. Il desiderio sessuale non si educa così come ci si educherebbe alla matematica: non è una semplice forma di istruzione. Si tratta di un desiderio che ci fa sentire non più padroni di noi stessi. Questa esperienza di spossessamento chiede di essere vissuta pienamente, e qui si innesta l’esigenza dell’educazione nel senso di un “accompagnamento” del desiderio. Ma non per contenerlo, spezzarlo, diminuirlo, anzi: per andare fino in fondo. Invece oggi ci sono due modalità di praticare l’educazione sessuale fra loro opposte, ma entrambe sbagliate.
 La prima è la presentazione della sessualità secondo una modalità tecnica, centrata sui temi del rischio per la salute e della pianificazione familiare, per cui nei licei si dice: “Guardate che attraverso il sesso si trasmettono malattie e si possono verificare gravidanze”. La gravidanza è messa da subito sullo stesso piano delle malattie a trasmissione sessuale, e perciò si consiglia il preservativo. Il dono della vita è messo sullo stesso piano di una minaccia di morte, è visto come una malattia. Di conseguenza l’educazione sessuale consiste nello spiegare come si applica un preservativo, come si prende la pillola anticoncezionale o la pillola del giorno dopo, eccetera. Ma questa non più è sessualità, è qualcosa dell’ordine di una masturbazione con partner, di una masturbazione assistita.
L’uomo è intrappolato dentro al suo stesso piacere, non incontra nessuno, non è in una relazione sessuale che presuppone l’apertura dell’uomo a una donna che desidera a tal punto che gli pare di vedere in lei la strada della sua vita. 
La sessualità è ridotta a un atto consumistico che deve essere gestito secondo una modalità tecnica. Dicendo ai ragazzi: “Fate quel che volete, però proteggetevi”, si trasmette l’idea che il cuore della sessualità non è l’incontro, l’unione, la comunione, ma la preservazione. Infatti la parola ultima è: preservativo. Ciò significa che l’amore viene pensato in termini di preservazione, che la sessualità viene pensata in termini di protezione di sé. Tutto è centrato su di sé, sul proprio piccolo piacere: ci si serve dell’altro come di una cosa. Pasolini ha ben compreso e denunciato questa distruzione della sessualità da parte del consumismo. Dall’altra parte c’è un’educazione sessuale concepita secondo una modalità morale estrinseca. Cioè da una parte si colloca il desiderio sessuale, dall’altrala morale che viene a fare ostruzione. La morale borghese taglia la strada alla sessualità perché la considera come qualcosa di pericoloso in sé. E quindi cerca di controllarla. Dice che ci vuole il sentimento, il rispetto dell’altro, eccetera. Come se, appunto, la sessualità fosse pericolosa in sé e bisognasse aggiungervi qualcosa che in essa non è già presente. La morale non è pensata a partire da ciò che il desiderio sessuale in quanto tale esige per essere se stesso, ma a partire da qualcosa di esterno che viene a contenere tale desiderio. Dunque da una parte abbiamo il tecnicismo, dall’altra il moralismo, ed entrambi sono inefficaci nell’educare i giovani. I quali, quando gli si dice: “Facendo sesso proteggetevi”, tendono a rispondere: “Sì, ma se tanto devo morire e dopo non c’è nulla, perché devo proteggermi? Che cos’è questo aggeggio da buon piccolo borghese, per preservarsi? Dobbiamo morire! Che ci importa dell’avvenire? Tanto vale andare al massimo, bere, ubriacarsi, farsi tante donne. Mi dite che l’Aids uccide, ma io sono comunque destinato a perire, e allora perché dovrei stare nei ranghi?”. Quando gli adolescenti reagiscono al tecnicismo e al moralismo in questo modo, sono in realtà più profondi degli adulti. Dietro una rivolta come questa, anche quando non è esplicitata, ci sono una profondità e un’esigenza di senso che né il tecnicismo né il moralismo possono dare».

Il contrario della repressione
«Lo scopo di una vera educazione sessuale, a mio parere, deve essere l’affermazione del desiderio sessuale fino in fondo. E del resto è quello che dice anche la Chiesa. La Chiesa non proibisce certo il sesso, non è repressiva, al contrario: è favorevole al sesso fino alle estreme conseguenze, non con un piccolo preservativo che mi protegge, o con un lieve sfregamento che mi procura un lieve piacere e poi me ne vado di corsa. No: fate pure, ma portate l’esperienza alle sue estreme conseguenze. La morale della Chiesa non è contro il sesso, è la liberazione sessuale che è contro il sesso, perché lo riduce a un atto di consumo. La Chiesa è per la pienezza della sessualità».



Il dualismo dell’omosessualità
«Quando dico sessualità penso alla sessuazione: l’uomo e la donna, il maschile e il femminile. La Chiesa rigetta l’omosessualità semplicemente perché non si tratta di vera sessualità. Dire omosessualità è come dire “cerchio quadrato”: se i due hanno lo stesso sesso, viene meno l’ordinazione reciproca dei due sessi. Se la vostra sessualità non è aperta alla fecondità, di cosa state parlando? Prendete in mano il primo manuale di zoologia che trovate, e scoprirete che la sessualità è legata alla questione della fecondità, della procreazione. Attenzione, quando dico che l’omosessualità non è una sessualità io non discrimino: non sto proponendo giudizi di valore, il mio intento non è prescrittivo, ma descrittivo. Anche i greci ritenevano che la pederastia non era sessualità, e proprio per questo la consideravano superiore. Per loro era una realtà spirituale, qualcosa che aveva a che fare con l’emulazione virile ed era legata alla loro visione dualista del rapporto fra anima e corpo. 
Chiamare sessualità qualcosa che non lo è sarebbe una contraffazione. E questo è importante anche per coloro che vengono definiti omosessuali, chiamati a prendere coscienza che il loro desiderio non è propriamente sessuale. Essi in realtà fanno un uso non sessuale delle loro parti sessuali. Non è perché le parti sessuali entrano in gioco che si è obbligati a definire ciò sessualità: io posso, se voglio, ficcare il mio pene in una porta, ma quel che faccio non è sessualità. Non sono necessariamente atti sessuali tutti gli atti che io posso fare con le mie parti sessuali. Se vivo l’amore e la comunione in opposizione al dato fisico del mio corpo, vivo una situazione schizofrenica, dualista. La Chiesa insiste sull’unità di carne e spirito, di anima e corpo. Nessuna posizione al mondo è più unitaria di quella della Chiesa. Essa dice: siete liberi di fare quel che volete, ma vi ricordiamo soltanto che se andate in quella direzione, vi sarà una rottura della vostra unità personale, questa rottura noi la chiamiamo peccato».


L’esperto che uccide l’incontro
«La questione centrale della sessualità è la comunione feconda entro la quale i corpi esprimono quel che le anime vivono. Di fronte a un tema del genere, come può la posizione dell’“esperto” non essere quella di uno che impone una riduzione tecnica? L’incontro umano contiene qualcosa che mi sfugge. L’idea stessa che si possano fare previsioni in materia di incontro ci immette in una logica di calcolo del rischio estranea all’essenza dell’incontro. Non ci sono più l’uomo e la donna che si incontrano per vivere qualcosa di unico. È esattamente quello che troviamo in 1984 di Orwell: anche lì ci sono gli esperti che organizzano tutto. E poi c’è un momento in cui l’eroe del racconto sfugge alla presa dello Stato totalitario: è quando si trova da solo con una donna nella foresta, e lei si spoglia davanti a lui. In quel momento è fuori dalla logica degli esperti, non c’è nessuno che gli dia indicazioni e gli ingiunga come deve comportarsi. 
Bisogna accettare che nell’ambito della sessualità non esistono gli esperti. Altrimenti si finisce nel tecnicismo e nell’ingiunzione sociale. La seconda cosa da dire riguardo agli “esperti” che entrano nelle scuole, è che questo fatto pone un altro problema: rende impossibile agli adolescenti la sessualità come scoperta. Quello che predomina è un massiccio discorso entro il quale i gesti del desiderio sono ridotti a delle pratiche. E perciò a delle tecniche: c’è la fellatio, c’è la sodomia, c’è il rischio dell’Aids. E questo è veramente terribile, perché all’essere in un incontro e nei gesti del desiderio all’interno di un incontro, si sostituisce l’induzione di comportamenti. E anziché essere con l’altro e vivere con l’altro, si cerca di conformarsi a una normatività fatta di norme sessuali, o meglio pseudo sessuali, che vengono imposte alla persona: voi dovete fare così e cosà, se non fate così sbagliate. Questo è pericoloso perché non si è più nella scoperta dell’altro e nel movimento del desiderio, si è in qualcosa che è intrusione: l’intrusione di una serie di norme e inoltre l’intrusione dell’industria del lattice, dell’industria farmaceutica, eccetera. Per cui è vietato inquinare i fiumi, ma è lecito inquinare le giovani donne con prodotti chimici: devono prendere pillole, pastiglie, eccetera. La tecnica interviene in tutti i rapporti, e questo distrugge completamente il desiderio. Alla fine si fa sesso ugualmente, per divertirsi un po’, ma faticosamente, con infinite reticenze, in modo meschino, cercando di rubacchiare qualche nuovo trucco dal Kamasutra. Che infelicità! Il cattolico, invece, è il vero edonista. Ha la sua donna e va fino in fondo. Non passa tutto il tempo a chiedersi: “Oh, cosa succederà adesso? Che rischio sto correndo?”. E se il seme che ha immesso nella donna gli torna indietro sotto forma del viso di un figlio, la gioia è ancora più grande. Il piacere sessuale non sta solo nell’atto carnale, è anche la gioia di vedere il volto del proprio figlio: è piacere sessuale anche quello. L’atto carnale ha un’intensità di piacere molto forte e molto breve, poi c’è una caduta, tutta l’esperienza lo dice. Ma la gioia per l’arrivo di un figlio è un piacere che non si spegne». 



Il femminismo non è femmina
«Oggi la sessualità è sempre concepita in modo fallico. La dimensione femminile della sessualità tende a scomparire. Anche il femminismo, in gran parte, si è dispiegato come rivendicazione di valori maschili da parte delle donne. Non si è ancora visto un femminismo che affermi i valori femminili contro il machismo. C’è stata piuttosto un’interiorizzazione del machismo da parte delle donne, attraverso l’idea che l’uguaglianza è tutto. Ma nell’atto carnale il tempo e lo spazio maschili non sono gli stessi del tempo e dello spazio femminili. L’uomo è in uno spazio che è quello dell’esteriorità: l’uomo penetra, genera ma fuori di sé, compie un atto all’esterno di sé. La donna, invece, è nello spazio dell’interiorità: riceve l’uomo, lo accoglie in sé ed è in grado di accogliere un essere umano intero dentro di sé. La donna è abitabile, cosa che non vale per l’uomo. Perciò il femminile implica l’affermazione che nella sessualità non c’è solo la vagina, c’è anche l’utero. Nei settimanali patinati c’è tantissimo sul sesso della donna, ma non c’è niente sull’utero. La cosa interessante è questa: quando domina la concezione fallica e anche il femminismo è fallico, la donna è percepita come ridotta alla vagina o al clitoride, ma l’utero scompare. Questo è molto interessante: l’isterectomia è la condizione, per così dire, del femminismo odierno.
Per quanto riguarda il tempo, l’uomo si colloca in un tempo corto dentro all’atto carnale. Il suo desiderio sorge immediato, mentre nella donna, si sa, ci vuole più tempo. In seguito, il tempo dell’uomo è quello dell’eiaculazione, dell’orgasmo. Mentre per quanto riguarda il tempo della donna, c’è un tempo femminile lungo, che è quello della gestazione. Nella donna c’è un seguito all’atto sessuale. Che consiste nel portare in sé un figlio, cosa che l’uomo non può fare. Oggi questo spazio dell’interiorità, questo tempo della gestazione, è stato spezzato e anche la donna vuole essere nell’esteriorità, col suo clitoride fra le gambe che tiene il posto del fallo, e nel tempo breve, che coincide con l’ossessione dell’orgasmo. Ma l’orgasmo non è essenziale per l’atto sessuale! Può esserci comunione fra i due anche senza orgasmo. Al limite, un fallimento rispetto all’orgasmo, addirittura rispetto alla penetrazione, può essere un momento di comunione più profonda fra gli sposi all’interno del dramma di quel fallimento. 
Si tratta di richiamare l’autentica sessualità femminile per ritrovare un equilibrio. Occorre ritrovare il vero maschile e il vero femminile: il maschile che è rivolto al femminile, il femminile che è rivolto al maschile. In modo che la donna orienti anche l’uomo verso il tempo lungo e l’interiorità. Questo femminismo della femminilità è una necessità. Quel che viene chiamato educazione sessuale in realtà è l’affermazione massiccia del fallico. Non solo è distruttivo, non solo fa della donna una preda dell’uomo, ma ne fa un sotto-maschio. Una specie di maschio difettoso che squilibra tutta la società». 



Maternità, l’immagine dell’etica

«C’è stata un’epoca in cui la maternità è stata concepita come qualcosa che non atteneva alla libertà della donna. Ella era colei che portava in sé l’erede dell’uomo, ovvero i futuri cittadini: Marianna madre in affitto, incubatrice dei cittadini. La Francia ha conosciuto un intenso natalismo dopo la sconfitta di Sedan nel 1870. Si diceva: “I tedeschi sono più numerosi di noi, fate più figli per la Francia”. Che è come dire: producete carne da cannone, fate figli per lo Stato, per la gloria della nazione. Questo non è riconoscere la maternità come l’avvenimento radicale di un’accoglienza nei confronti di una nuova persona che entra nel mondo, da accogliere per se stessa. Il natalismo ha confiscatola maternità, dunque per reazione la donna ha voluto emanciparsi. Ma bisognava emanciparsi dalla confisca della maternità da parte dell’uomo e dello Stato, non dalla maternità come tale, come è invece avvenuto. Poiché la maternità è una possibilità propriamente femminile, pensare il femminile in opposizione alla maternità come fanno certe femministe è arrivare alla distruzione della donna. E di conseguenza alla distruzione dell’uomo. Perché appunto noi uomini abbiamo bisogno della donna per aprirci al mistero dell’interiorità, della gestazione, della pazienza, del portare l’altro per metterlo al mondo. Quando cerca di definire che cos’è la responsabilità verso l’altro, Emmanuel Levinas propone un’espressione e un’immagine: portare l’altro. E dice: è il femminile che manifesta questo. L’etica ha la sua immagine più forte nella maternità, che è il luogo concreto della responsabilità.
L’accoglienza del figlio per se stesso equivale all’espressione “fare dei figli per Dio”. Perché la sessualità in ultima analisi mira a questo: aumentare il numero degli Eletti; e il desiderio sessuale che ci trascina fuori da noi stessi è ultimamente un’astuzia di Dio. È Dio che chiama, questo è il senso profondo della sessualità. Non si fanno figli per lo Stato, o per noi stessi, o per l’autorealizzazione della donna. Si fanno figli per la vita eterna».
Tratto dalla rivista «Tempi» del 7 ottobre 2009
Source URL: http://www.tempi.it/prima-linea/007708-sesso-intervista-fabrice-hadjadj
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Preghiera
di Camillo Langone
Sia lodato e ringraziato il settimanale Tempi che mi ha fatto scoprire Fabrice Hadjadj. Il giovane studioso ebreo convertitosi al cristianesimo definisce genialmente “masturbazione assistita” ciò che il volgo chiama “sesso”. Preservativi e pillole riducono la vagina a un fazzoletto di carta in cui eiaculare senza seguito. C’è di peggio che masturbarsi ma, guarda guarda, nessuno ama vantarsene. Siamo tutti molto disinibiti ma chi vorrebbe essere identificato come segaiolo? Io no. Lattice e ormoni stanno portando il nostro popolo all’estinzione (altro che Italia Futura) a meno che un cambio di lingua non operi un cambio di cose. Quando la parola “sesso” sarà considerata sinonimo di “pugnette” la vergogna spingerà i più avventurosi a rinunciare alle precauzioni. Gli eroi affrontano nudi il destino.
«Il Foglio» del 10 ottobre 2009

30 marzo 2010

One dollar baby per Caschi Blu degeneri

Storie di stupri e di pedofilia alle Nazioni Unite
di Giulio Meotti
Un’inchiesta rivela come i colpevoli restino impuniti. I favori sessuali in cambio di un dollaro (e una tazza di latte) e il caso clamoroso del Congo
La violenza sessuale dentro alle Nazioni Unite continua a essere un problema talmente serio che il presidente Barack Obama gli ha dedicato un incontro ristretto con alcuni rappresentanti dei paesi coinvolti nello scandalo. Sulle 85.000 truppe dell’Onu dispiegate in oltre sedici operazioni di peacekeeping pesa l’onta più grave: l’abuso sessuale su donne e bambini. Non poco, soprattutto per chi ha vinto il premio Nobel per la Pace. Un’inchiesta del Wall Street Journal rivela che, da quando nel 2003 il Palazzo di vetro ha riconosciuto il problema, nulla o troppo poco è stato fatto per punire, scovare e processare i colpevoli. Anzi, c’è stata una certa opera di copertura degli abusi sessuali da parte dell’Onu. Il quotidiano americano ha studiato tre recenti casi: Sri Lanka, Marocco e India. Nel novembre del 2007 cento peacekeepers dello Sri Lanka furono accusati di aver abusato di bambini haitiani dai dieci ai sedici anni, nelle docce, nelle torrette di guardia, persino nei camion dell’Onu. Abusi sono stati commessi ancora da truppe marocchine impegnate nella Costa d’Avorio e truppe indiane sono state incriminate in Congo due anni fa.
E’ una storia che ha ricoperto di vergogna anche i segretari generali dell’Onu. Ruud Lubbers in qualità di Alto commissario per i rifugiati è stato accusato di aver molestato una sottoposta. L’inchiesta interna fece emergere le prove dell’abuso, eppure l’allora segretario dell’Onu Kofi Annan chiuse la vicenda. Furono le pressioni pubbliche, un anno dopo, a costringere Lubbers a dimettersi. L’inchiesta guidata dal principe giordano Zeid Raad al Hussein, citata anche dal Wall Street Journal, rivela che gli abusi sessuali “sembrano essere significativi, molto diffusi e ancora in corso”. I Caschi blu dell’Onu hanno commesso stupri e sono stati coinvolti in scandali sessuali anche in Bosnia, in Kosovo, in Cambogia, a Timor Est, in Burundi e nell’Africa occidentale. In Africa si parla ormai di “peacekeepers babies”, sono i bambini illegittimi dei soldati umanitari. Visto che l’Onu non è autorizzato a perseguire i colpevoli, il segretario generale Ban ki-Moon ha chiesto che i governi consentano che i Caschi blu accusati di abusi vengano sottoposti a giudizio. Ovviamente quasi nessuno lo ha fatto e il ciclo di violenze e impunità continua come prima.
Di tutte le missioni Onu, quella congolese – nota come “Monuc” – ha accumulato più denunce relative ad atti di corruzione e a violazioni dei diritti umani commessi dal suo personale. La missione in Congo è stata stabilita con l’obiettivo di pacificare il paese alla fine della guerra civile. E’ stata la seconda più grande missione di pace dell’Onu. Stupro, pedofilia e sfruttamento della prostituzione sono le accuse principali contro l’Onu. Un civile francese che lavorava all’aeroporto di Goma per le Nazioni Unite era solito filmare giovani ragazze congolesi, e commerciava in videocassette e fotografie pornografiche. La sua stanza era attrezzata con specchi sui tre lati del letto, mentre sul quarto lato c’era una videocamera azionabile con un telecomando. La polizia lo ha arrestato mentre stava per stuprare una bambina di dodici anni. Due peacekeepers russi hanno pagato due ragazzine di Mbandaka, le hanno cosparse di marmellata e poi hanno filmato l’orgia. A Bunia, una dodicenne di nome Helen è stata stuprata da un peacekeeper dell’Onu che l’aveva attirata offrendole una tazza di latte. Il soldato, dopo aver abusato della bambina, le ha dato un dollaro. Queste bambine sono conosciute come “one dollar baby”. Nella stessa base una tredicenne di nome Solange che cercava di vendere frutta è stata adescata con un biscotto, e poi stuprata. Dagli stessi inviati dell’Onu, che ha condannato lo stupro come “arma di guerra”.
«Il Foglio» del 25 marzo 2010

Questo sesso non mi eccita

Ha senso raccontare le scene di erotismo in modo esplicito? No, risponde un celebre scrittore. E spiega, a partire da Flaubert e Nabokov, il fascino irresistibile del non detto
di Alessandro Piperno
Avete presente i romanzi in cui un'impudica signorina ci spiattella il catalogo delle sue copule con i maschi più disparati? Il guaio è che le autrici di questi capolavori si ritengono dotate di un eloquente spregiudicatezza (che talvolta rasenta la sboccataggine). E allora ci danno dentro con espressioni quali 'il membro pulsante', 'il fiotto del suo piacere', 'mi prese da dietro', 'lo sentii dentro'. Eccetera. Mi sono sempre chiesto se l'imbarazzo che mi suscita certa paccottiglia derivi da tanta non richiesta impudicizia. O dall'incellofanata confezione stilistica in cui questi coiti mi vengono serviti. Sia come lettore sia come scrittore non ho un rapporto sereno con il sesso. Ho sempre paura che una scena di sesso rischi di essere divertente solo per chi la scrive. Mi domando se mezzo secolo di rivoluzione sessuale non abbia trasformato il sesso da tabù etico in tabù letterario. Se ciò che a suo tempo è apparso scandaloso non sia frattanto diventato di retroguardia.
Tempo fa sull'inserto domenicale del 'New York Times' Katie Roiphe accusava le scene di sesso dell'ultimo libro di Philip Roth, L'umiliazione (Einaudi), di essere prive di ogni energia, soprattutto se paragonate a quelle scritte da Roth (e da illustri colleghi quali Norman Mailer, Saul Bellow, John Updike) alla fine degli anni '60. Ma il vero obiettivo della Roiphe erano gli scrittori della nuova generazione: Michael Chabon, Jonathan Franzen, David Foster Wallace. Tacciati di essere, a confronto dei loro predecessori, più o meno degli eunuchi puritani. Non impazzisco per certi sociologismi americani. E ritengo triviali gli appelli alla mascolinità scomparsa. Però su una cosa devo convenire con la Roiphe. L'ultimo Roth è indigeribile. Il problema non è che lui ogni tanto senta l'esigenza di raccontarci le sue scopate senili. Il guaio è che lo faccia ogni volta in un modo più sciatto e ridicolo.
Tra i libri minori di Roth, L'umiliazione è di certo il più minore di tutti. A conferma di una mia vecchia idea: malgrado quel che si dice, non è il sesso ciò per cui Roth verrà ricordato. Non è un caso che lui sia diventato lo scrittore sommo che è nel momento in cui, in Pastorale Americana, ha castrato chimicamente il suo alter ego Nathan Zuckerman. Così come non è un caso che il vertice dell'arte rothiana sia affidato alle artritiche mani di Mickey Sabbath, un personaggio a cui non restano che "pochi anni di potenza relativamente affidabile, e forse ancor meno anni di vita". Roth è un narratore della nostalgia, non del sesso. Lui, come tutti i grandi artisti, ha un talento naturale per l'evocazione di ciò che è ineluttabilmente perduto. Il rapporto sessuale tra il vecchio Sabbath e la giunonica amante Drenka Balich è reso grandioso e struggente (in modo quasi shakespeariano) dall'apparizione, a fine coito, del volteggiante fantasma della defunta mamma di Mickey.
La mia idea è questa. Una buona scena di sesso ti deve eccitare come una donna che ti sta sbottonando i calzoni. Capirete la difficoltà considerando che ormai anche una sbottonatrice in carne e ossa rischia di non ottenere l'effetto desiderato. Si tratta di una passeggiata su un filo sottile. Basta un soffio di vento per farti precipitare nell'abisso del ridicolo, dell'enfasi, della noia, della ridondanza. Può accadere che uno scrittore utilizzi il sesso per altri scopi. Quello praticato dai personaggi di Bret Easton Ellis, per esempio, è feroce, asettico, industriale. Tutto perché Ellis vuole denunciare il livello di alienazione raggiunto dai ragazzi dopo la rivoluzione sessuale. Ma, sebbene l'umorismo nero di Ellis sia spaventosamente efficace, trovo questo modo di trattare il sesso didascalico. Insomma, una scena di sesso, per eccitarti come una donna che ti sta sbottonando i calzoni, deve essere spudoratamente esplicita, o allusiva in modo funambolico. Ogni via mediana è da considerarsi inefficace. Ogni via mediana rischia di suscitare ilarità nel cosiddetto lettore avvertito. E allora, caro scrittore, dacci dentro con la brutalità, o altrimenti impara la sublime arte della sublimazione. E ricorda che quest'ultima opzione è sempre la più difficile ma anche la più soddisfacente.
"Rodolphe, con il sigaro tra i denti, aggiustava con il temperino una briglia spezzata". È con questa meravigliosa frase che Flaubert ci informa che il rapporto sessuale tra Emma Bovary e il rupestre Rodolphe si è appena concluso. Con pochi tocchi Flaubert ci offre tutto quello che c'è da sapere: la rudezza di Rodolphe (sigaro tra i denti, temperino, la groppa del cavallo che immaginiamo non meno fremente e non meno sudata di Emma). C'è l'odore del bosco. La luce incerta. Il profumo umido di funghi. Poche righe più su ci è stato detto che il sangue di Emma "circolava nella carne come un fiume di latte", ma anche che lungo tutto l'amplesso (mai nominato) Emma ha sentito un grido lontano accompagnare "come una musica le estreme vibrazioni dei suoi nervi turbati". Questo è quel che si chiama genio. Tanto Flaubert ci va giù duro con Rodolphe, tanto mantiene la sua eroina in uno stato di voluttuosa e pudica interlocuzione. La brutalità dell'amante che si specchia nel romanticismo dell'amata. Ecco la cifra del genio. Flaubert allude al sesso, ce lo fa sentire. Sta attento a non usare metafore vaghe, affidandosi a similitudini di flaubertiana concretezza: fiume di latte, vibrazioni dei nervi. Ma spostiamoci con un bel salto temporale e spaziale in un'altra campagna: quella inglese. L'inizio del secolo scorso. Stavolta tocca a un guardiacaccia (non meno zotico di Rodolphe) affrontare una signora altolocata nel buio di un fienile. Il nostro villico è un tantino impaziente: "E dovette entrare subito in lei, entrare nella pace terrestre del suo corpo tenero e arrendevole". Parola di David Herbert Lawrence. È Lady Chatterley che se la spassa per la prima volta con il suo amante. Lawrence non si permette la precisione anatomica che si consentiranno i suoi epigoni (da Miller a Houellebecq). Ma non omette niente, neppure "il fluire del seme" di lui in lei. La sua descrizione dell'amplesso appare più circostanziata di quella di Flaubert. Ma allora perché il sesso di Emma non smette di eccitarci dopo un paio di secoli e quello di Lady Chatterley con il tempo sembra essersi disinnescato? Perché il "fiume di latte" funziona così tanto meglio dello sperma?
Omissione e invenzione. Ecco il segreto. Ora provate a immaginare gli spaventosi ostacoli (morali ed estetici) cui Nabokov si trovò di fronte con la sua Lolita. Dover mettere nello stesso letto un uomo di mezza età e una dodicenne. E farlo senza che ciò risulti ingiurioso. Mettersi dalla parte dell'uomo di mezza età che stupra una bambina. Coinvolgerci nello stupro. Renderci complici del suo crimine. Spingerci a fremere del suo amore e del suo desiderio. Un esercizio stilistico degno di un genio non meno fecondo di quello di Flaubert.
Nabokov porta a estreme conseguenze la tecnica flaubertiana. Non nomina, allude. Se Flaubert risolve la cosa in poche righe Nabokov la dilata in un modo estenuante. Uno squallido hotel. Una notte afosa. È la prima volta in cui Humbert si trova solo con Lolita. Può disporre di lei a suo piacimento. E non è un bruto, ma un intellettuale pedante e spaventato. Il suo sogno è godere di lei senza farle male. Per questo la sua tecnica di seduzione risulta così incresciosamente subdola. Le dà del sonnifero. Mirabile la passeggiata nella hall dell'albergo in attesa che lei nel frattempo crolli. Tutto è sospeso in un'eccitata fantasia. L'uomo si trova a pochi passi dal piacere criminale che insegue da tutta la vita. Normale che non riesca a decidersi. Quando rientra in camera, Lolita è là, sul letto, semivestita e semi-incosciente. Proprio come Flaubert Nabokov dà conto dei rumori circostanti: i fremiti di un albergo americano. Da vecchio maiale qual è Nabokov si concentra sui suoni liquidi e triviali: gli sciacquoni delle stanze limitrofe, un ubriaco che vomita, Lolita che, nel dormiveglia, chiede un goccio d'acqua al patrigno e che, una volta accontentata, beve con gratitudine. La notte è infinita. Humbert la passa accanto alla sua Lolita senza neppure toccarla. All'arrivo dell'alba è un uomo stremato. È allora che l'affare prende la più imprevista delle pieghe. È lei, Lolita, a provarci con lui. Così Nabokov trasforma il tremebondo stupratore in un tremebondo stuprato. Ed ecco il solo commento retrospettivo offertoci da Humbert su quel primo amplesso: "Basti dire che in quella bellissima, acerba ragazzina totalmente e irrimediabilmente corrotta dalle moderne scuole miste, dai costumi giovanili, dal raggiro delle serate intorno al falò e via dicendo, io non riuscii a discernere la minima traccia di modestia". E poco più in là Humbert annota ciò che per chi come me scrive appare una lezione formidabile: "Il tema del così detto 'sesso' non mi interessa affatto. Chiunque può immaginare quegli elementi di pura animalità. Ciò che mi alletta è un'ambizione superiore: fissare una volta per tutte il periglioso sortilegio delle ninfette". Sostituite alla parola 'ninfette' qualsiasi altro vocabolo che indichi un oggetto della vostra passione sessuale, e avrete un'idea di ciò che occorre fare quando ci si trova a dover scrivere una scena di sesso.

P.S. Tempo fa parlavo con Luca Canali dell'articolo che avete appena letto. Lui (grande traduttore del Satyricon) mi ricordava come Petronio, che in quanto a trasgressione non è secondo a nessuno, non racconti mai il sesso in modo esplicito. Forse ancora oggi il migliore modo per parlare di sesso in un libro è evitare di chiamare le cose per nome. Inventando assai più efficaci pseudonimi. Ricordate 'La sventurata rispose'? La frase con cui Manzoni ci rivela che Gertrude ha ceduto alle lusinghe di Egidio. Ecco, questa è la più eccitante scena di sesso della storia della letteratura italiana. E la monaca di Monza il personaggio più arrapante. Anche se nulla ci vien detto sulla forma o sulla viscosità dei suoi genitali.
«L'Espresso» del 30 marzo 2010

Alessandro D'Avenia: "Gli adolescenti cercano più realtà che reality"

E' palermitano l'autore dell'ultimo caso letterario - Bianca come il latte rossa come il sangue - pubblicato dalla Mondadori
di Barbara Giangravè
A dieci anni dal mio diploma, mi è stato sufficiente leggere il suo libro per ricordare tutto, esattamente com'era: le mie aule, i miei banchi, i miei compagni, i miei professori. Ma anche i miei primi battiti del cuore, le amicizie che credevo sarebbero durate per sempre, gli amori che pensavo non sarebbero finiti mai. Ma - come uno dei più celebri aforismi attribuiti a Eraclito - Panta rei, cioè tutto scorre.
Così, tutti questi anni mi sono scorsi addosso senza che (quasi) me ne accorgessi e la mattina in cui, dopo la doccia, guardandomi allo specchio mi sono accorta del primo capello bianco, ho avuto paura. Ma lui - col suo libro - mi ha aiutato a riconciliarmi col mio passato e mi ha aiutata a capire che non rinnego davvero niente di quello che è stato.
Volete sapere chi è questa specie di "terapeuta"? Si tratta di Alessandro D'Avenia, il palermitano autore dell'ultimo caso letterario (Bianca come il latte rossa come il sangue) pubblicato dalla Mondadori, di cui - anche con un pizzico di sano campanilismo scolastico, dato che frequentava il mio stesso liceo - vi invito a leggere quest'intervista.
Ciao Alessandro. Prima di parlare di te come insegnante (dato che insegni all'istituto San Carlo di Milano) o come scrittore, vorrei parlare di te come studente.
Beh, non c'è niente di particolare da dire. I miei anni al liceo sono stati normalissimi. Frequentavo il Vittorio Emanuele II di Palermo e avevo la mia figura di riferimento nel professore di lettere, Mario Franchina. A 16 anni volevo già essere come lui: con la stessa balbuzie e la stessa luce negli occhi quando ci spiegava qualcosa. Era emozionato ed era felice di fare il suo lavoro. Guardavo con un certo interesse, inoltre, al professore Pino Puglisi, docente di religione, ma non nella mia classe. Lo incrociavo spesso in corridoio e mi sembrava che fosse un uomo fragile. Uno di quelli che, se gli avessi soffiato sopra, sarebbe volato via. Quando non tornò più a scuola e seppi anche il perchè, capii che era un uomo fortissimo, invece.
Dal ritratto che hai appena fatto di te, potrei anche pensarti come una specie di secchione ...
No, assolutamente no. Tutto il resto è andato come nella vita di ogni adolescente che si rispetti. La scuola era il luogo delle prime battaglie, delle prime occupazioni. Il fulcro attorno al quale ruotavano i tornei di calcetto. Indubbiamente, io ero uno studente a cui piaceva studiare, ma soprattutto le materie umanistiche. Di quelle scientifiche è meglio non parlare. Ancora oggi sogno l'esame di maturità e mi chiedo come abbia fatto a sostenerlo.
A un certo punto, però, hai deciso che volevi diventare insegnante: quando è successo?
Come ti dicevo, a 16 anni avevo già deciso cosa volevo fare da grande. Ricordo anche un altro insegnante, Roberto Picone, sempre del Vittorio Emanuele II, ma anche lui - così come padre Puglisi - non docente della mia classe. Ogni tanto, veniva a farci qualche ora di supplenza e io m'incantavo ad ascoltarlo. Mi piacevano tanto gli insegnanti come lui. Poi accadde che, un giorno, vidi "L'attimo fuggente" e fu la consacrazione della mia scelta. Condivido solo in parte la figura del professor Keating, ma quel film è un capolavoro.
Questa mi giunge nuova: perchè condividi solo in parte la figura di Keating?
Perchè Keating è un narcisista che soffre di un delirio d'onnipotenza. Alla fine del film porta i ragazzi a sè, non a loro stessi. E' per questo che non lo condivido. Un insegnante deve aiutare i ragazzi a raggiungere loro stessi, nessun altro.
Quando e com'è nato l'Alessandro D'Avenia scrittore, invece?
Diventare scrittore è stato un fatto tanto naturale quanto graduale per me. Quando ero ancora uno studente di liceo, non brillavo particolarmente nei temi. Ricordo di avere preso anche delle insufficienze al ginnasio. Ma mi piaceva leggere e inventare delle storie fin dalle scuole elementari. Capitava spesso, infatti, che da bambino mi distraessi, perchè mi lasciavo trasportare dalla mia fervida immaginazione. Usavo i personaggi dei cartelloni appesi al muro e costruivo delle storie su misura per loro. Durante l'intervallo le raccontavo ai miei compagni. E così, tra una scuola e l'altra, eccomi qui.
Eccoti qui: ma dalle storie inventate alle elementari al primo romanzo, deve essere successo per foza qualcos'altro ...
E' successo che ho fatto leggere dei miei testi a Susanna Tamaro. Lei mi ha detto che c'era del talento in me, ma che ero completamente privo di tecnica. Mi consigliò di frequentare un corso di sceneggiatura e, dopo aver vissuto per oltre 10 anni a Roma, mollai tutto per andare a Milano e seguire il suo consiglio. Il resto è storia dei nostri giorni.
Qual è la storia di Bianca come il latte rossa come il sangue, che in parte ci è stata raccontata da una polemica ospitata sulle pagine del Corriere della Sera?
Il romanzo ha avuto due anni di gestazione. E' nato dal racconto dei ragazzi di una classe liceale di Roma. Ero il loro supplente per una sola ora e mi parlarono di una loro compagna morta di leucemia l'anno prima. Non li ho mai più rivisti, ma quella storia mi è rimasta dentro. Il Corriere della Sera ha montato una polemica - che personalmente non accetto - con la madre di questa ragazza. Io non conoscevo la ragazza e non conosco neanche la madre. La signora ha riconosciuto la sua storia nel mio libro e, sebbene prima mi avesse fatto tanti complimenti, poi ha avuto un inspiegabile voltafaccia nei miei confronti e ha innescato la pubblicazione di tutti quegli articoli al riguardo. Ho già spiegato come sono andate le cose: ho preso spunto da quella vicenda, costruendoci sopra il mio romanzo. Non mi sono appropriato di niente che non appartenesse già alla vita.
Tu che lavori con loro, oltre ad averne parlato nel tuo libro, come vedi gli adolescenti di oggi?
Li vedo proprio come li decrivo. Non come l'immagine di loro che si vuole proiettare al mondo, ma come la parte spirituale che li contraddistingue. A quell'età s'indossa una maschera - più o meno spessa - che serve ai ragazzi per difendersi dal mondo. Generalmente li accusiamo di essere menefreghisti e superficiali, cosa che può essere anche vera. Ma sotto c'è dell'altro. I ragazzi cercano più realtà che reality. Spesso, siamo noi cosiddetti adulti che non siamo in grado di fornirgliela. Gli adolescenti sono tutti belli dentro. L'ideologia dell'adolescenza è un'altra cosa.
So che Bianca come il latte rossa come il sangue ha già varcato i confini nazionali ...
Sì. Il libro è uscito giovedì scorso in Spagna e io ho appena ricevuto una richiesta di traduzione per Taiwan. Dopo l'estate uscirà anche in Brasile, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo, Russia, Serbia, Spagna, Turchia, Ungheria.
Insomma, farai un bel giro del mondo letterario ...
Il merito non è mio, ma del lavoro che sta facendo la casa editrice. Ed è anche grazie ad autori come Andrea Camilleri, Paolo Giordano e Roberto Saviano che la letteratura italiana si sta facendo largo nel mondo.
A quando il tuo prossimo lavoro?
Entro il 2012 uscirà il mio secondo romanzo. Sto scrivendo, perchè non posso stare senza scrivere. Ma non posso dirti di più, davvero.
Leggo anche quello che scrivi sul tuo blog. Che mi dici di questo diario in rete?
L'ho aperto due anni fa. E' una palestra di scrittura e del cuore. L'ho fatto per non dimenticare le cose. Scrivo anche per questo motivo. E l'ho fatto perchè è uno strumento che mi consente di stare ancora più vicino ai miei allievi. E' un modo per dare loro degli spunti di riflessione e aiutarli a guardarsi dentro.
Con le dovute differenze, sei una specie di Keating anche tu. Ma non vuoi lasciare l'insegnamento per dedicarti esclusivamente alla scrittura?
Assolutamente no. Voglio continuare a fare entrambe le cose. Insegno italiano e latino in un liceo privato di Milano. Sono un precario con la cattedra in due classi e mi va bene così, perchè riesco a vivere con continuità sia il rapporto con i ragazzi che quello con i colleghi.
Perchè hai lasciato Palermo, dopo il diploma?
Perchè volevo studiare Lettere Classiche in una delle migliori università italiane. Quella di Palermo non è esattamente tale. Pur essendo profondamente attaccato alla mia terra, ne vedo tutti i limiti e la mia vita doveva andare avanti. Dopo la laurea, ho vinto un dottorato di ricerca, ho frequentato la Sissis e mi sono inserito nelle graduatorie per insegnare...ma ho fatto tutto questo fuori dalla mia città. Con i tempi che corrono, pensare di trovare lavoro nella propria città è quasi un'utopia. Ma se capitasse l'occasione, potrei anche tornare a casa. A Milano sto bene e potrebbe anche sembrare un controsenso, ma non ho idea di cosa mi riservi il futuro.
Il tuo passato, però, ti consentirà di rispondere a questa domanda. Qual è la prima cosa che ti fa venire in mente la tua città?
Palermo è il profumo delle cose e i loro colori. Non a caso i colori sono l'anima del mio libro. Viceversa, Milano è una città praticamente inodore (per non dire che sa solo di smog). Sì, è questa la mia riposta: i profumi e i colori.
«Sicilia on line» del 24 marzo 2010

Educare alla banalità

di Piergiorgio Liverani
Sul Corriere della sera (mercoledì 24) il prof. Veronesi spiega la sua «pre­venzione » dell’aborto: «La via da in­traprendere è quella educativa spe­cialmente nelle scuole: educazione sessuale, pillola anticoncezionale, preservativo». E sostiene: «Il vietare non ha alcun valore educativo». Am­messo che sia così, davvero crede che il consenso a una sessualità ba­nalizzata lo abbia? Dopo trentadue anni di 'informazione' sessuale gli aborti legali sono tuttora molti più di quelli che le stime più serie de­nunciavano prima della legge 194 (molto meno di centomila) e più fre­quenti là dove gli anticoncezionali sono più diffusi. Inoltre: «Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sa­nità, sono circa 20.000 le italiane an­cora schiave dell’aborto clandestino. Una cifra spaventosa, che però non comprende il numero di tutte le straniere costrette alla stessa prati­ca » (Il Fatto, giovedì 25). Ma per Ve­ronesi «questo è il senso del soste­gno che [noi laici] abbiamo dato alla pillola RU 486». Che, comprata su Internet, riporterà la pratica dell’a­borto al suo inizio fai-da-te.
«Avvenire» del 28 marzo 2010


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Come si combatte l'aborto
La strada obbligata della prevenzione
di Umberto Veronesi *

Caro Direttore, noi laici condividiamo il pensiero dei vescovi sull' aborto e abbiamo in comune con loro l'obiettivo di evitare l'interruzione di gravidanza. Ciò su cui non siamo d'accordo sono i metodi e gli strumenti per farlo. Noi pensiamo che la via da intraprendere sia quella educativo-preventiva. Intendiamo sviluppare la diffusione, soprattutto nelle scuole, dell'educazione sessuale e della conoscenza dei metodi anticoncezionali, nel rispetto della multi-confessionalità e multietnicità della nostra attuale comunità. Intendiamo informare meglio le donne sull'uso della pillola anticoncezionale, che non deve essere demonizzata dal punto di vista medico, ma semmai favorita perché, tra l'altro, previene il carcinoma ovarico. Pensiamo che siano necessarie campagne di informazione affinché il preservativo, che previene molte malattie veneree e infettive (come l' Aids), sia considerato un elemento integrante del rituale del rapporto sessuale e un segno di rispetto e di amore nella coppia, anche, e soprattutto, occasionale. Non abbiamo dubbi: se si vuole evitare l'aborto bisogna mettere in atto delle misure preventive, che stanno nell'uso corretto delle pratiche anticoncezionali e bisogna creare più conoscenza e più responsabilità, anche da parte dei maschi. In linea, del resto, con la legge 194 che ha fra i suoi obiettivi la tutela della maternità. I vescovi invece, come risulta dalle dichiarazioni della Cei che definiscono l'aborto un crimine, sono a favore del proibizionismo. Sicuramente rendere illegale l'aborto è una strategia per limitarne il numero, ma il problema è che non è efficace. Si è confermato in passato in Italia il modello che si applica ad ogni forma di proibizionismo: il vietare non ha alcun valore educativo, non riduce il fenomeno che si proibisce e rafforza il potere criminale. In molti casi l'ignoranza è il male peggiore perché genera paura, e la paura ci fa facilmente cadere in balìa di chiunque facilmente ci prometta di liberarci dai nostri spettri. Rinunciare alla maternità fa paura e dovremmo ricordare sempre che la finalità della legge 194 era quella di ridurre gli aborti clandestini e non di promuovere il principio che interrompere una gravidanza è «giusto e buono». La scelta di rinunciare ad un figlio non è influenzata dal fatto che sia vietata o no, è sempre frutto di un dramma e succedeva che le donne meno informate e meno abbienti finivano nelle mani sbagliate e quelle con più mezzi culturali e finanziari si rivolgevano alle cliniche di lusso, spesso all'estero. Con la legalizzazione il numero di aborti è drasticamente diminuito e il «mercato nero», tradizionalmente legato alla criminalità, è scomparso. Il contrario del proibizionismo non è infatti la permissività, ma la legalità, che rappresenta la scelta del male minore ed è una posizione che offre il massimo di libertà e di tutela alla donna. Quando si parla di interruzione di gravidanza, troppo spesso si dimentica che se, come ho detto all' inizio, nessuno, laico o credente, vuole l'aborto, le prime a non volerlo sono le donne, per le quali è un atto che va contro l'imperativo del loro Dna alla riproduzione. Nella mia professione di oncologo ho combattuto anch'io la mia battaglia per la maternità. Mi sono impegnato per trovare il modo di non interrompere la gravidanza quando si manifesta un tumore al seno e neppure quando la gravidanza occorre in una donna già operata. Fino a pochi anni fa, l'aborto era un dogma intoccabile nel caso di tumore mammario, e io mi sono battuto per dimostrare scientificamente che una gravidanza a termine non fa male, né durante né dopo la malattia; anzi, in qualche caso, potrebbe avere un valore protettivo. Questa conoscenza ha fatto nascere centinaia di bambini e reso felici altrettante donne, che inutilmente avrebbero sofferto un doppio dramma, quello della malattia e quello della mancata maternità. Oggi all'istituto europeo di oncologia esiste un team dedicato specificamente ai problemi di fertilità e oncologia sia per la donna che per l'uomo a cui possono fare riferimento tutti i centri italiani per la riproduzione. Oggi l'obiettivo di noi laici è non solo evitare l' aborto ogni volta che è possibile, ma anche, se questa è la scelta della donna, renderla meno traumatica. Questo è il senso del sostegno che abbiamo dato all' introduzione della Pillola RU486 in Italia, che è semplicemente una modalità farmacologica, in alternativa a quella chirurgica, in linea con l' evoluzione della medicina mondiale.

* Direttore scientifico Ieo

«Corriere della Sera» del 24 marzo 2010

Gli ingredienti dello scientismo

di Pier Giorgio Liverani
Un altezzoso, ma confusio­nario «Elogio della scienza» com­pare su La Repubbli­ca (lunedì 22) a firma del matematico Pier­giorgio Odifreddi. Per costui «i letterati so­no ancora peggio dei filosofi, perché della scienza capiscono ancora meno». E non si parli di «mitologia e religione, perché costituiscono i baluardi più a­vanzati dell’antiscientismo». Per que­sto scientista non sembra esservi dif­ferenza tra scienza e scientismo, che sono, invece, due modi assai diversi e poco compatibili di approccio alla co­noscenza della realtà: il secondo, quel­lo difeso da Odifreddi, consiste nel da­re alla scienza un valore assoluto, che esclude ogni altra forma di conoscen­za. Questo spiega sia l’accostamento da lui fatto tra mitologia e religione (cioè la non conoscenza di due assai di­verse «realtà fattuali») sia la definizio­ne di «cariatidi» affibbiata a coloro «che ancora pensano che il cervello maturi di più recitando rosa, rosae, rosae che non imparando a scrivere algoritmi». Non basta: «Il bello è che quello che viene bollato come 'scientismo' non è altro che una miscela di tre semplici ingredienti: buon senso, razionalità e rigore. Ciascuno di questi ingredienti è raro, ma se anche fosse casualmen­te distribuito al 50 per cento, la com­binazione di tutti e tre sarebbe co­munque posseduta solo dal 12,5 per cento della popolazione: il che spiega la percentuale bulgara degli antiscien­tisti e la difficoltà degli 'scientisti' di far sentire la propria voce». Testuale: una inavvertita odifreddura.
«Avvenire» del 28 marzo 2010
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Elogio della scienza
di Piergiorgio Odifreddi

Si racconta che negli anni ' 60 una multinazionale andò in giro per l'Africa, con uno schermo portatile e un generatore di elettricità, per mostrare nei villaggi sperduti un filmato sui grandi macchinari agricoli che produceva. Dopo varie proiezioni, si accorse però che il filmato non sembrava avere alcun effetto, e alla fine si decise a domandare agli spettatori che cosa avessero recepito. La sorprendente e unanime risposta che ricevette fu: la presenza di un pollo che passava a un certo momento in un angolo dello schermo, e di cui gli occidentali non si erano nemmeno accorti. La sorpresa svanì quando si rifletté sul fatto che, in fondo, ciascuno può percepire della realtà soltanto ciò che è in grado di riconoscere e comprendere. Questo episodio è una perfetta metafora del rapporto tra la scienza e i media. Uno scienziato, e più in generale una persona acculturata di scienza, che legga i giornali, ascolti la radio o guardi la televisione, anzitutto ci troverà solo molto raramente notizie scientifiche, e praticamente mai in posizione di rilievo come la prima pagina. Ma quelle rare volte che ce le troverà, si accorgerà che in genere sono solo insignificanti polli notati da ignari selvaggi. I quali, nella migliore delle ipotesi, avranno anche sfogliato le pagine di Nature o Science, ma senza percepire altro che ciò che potevano riconoscere e comprendere. A complicare le cose c'è poi il fatto che spesso, più che di polli, si tratta in realtà di pavoni. Cioè di notizie con la coda variopinta messe lì, apposta per attirare l' attenzione, da scienziati furboni e a volte senza scrupoli, che sanno benissimo a quali esche si abboccherà. E il motivo per cui ce le mettono, è ovviamente per ottenere visibilità e finanziamenti, che verranno spesi per perpetuare quel genere di ricerche che poi attrarranno altra attenzione mediatica, in una perversa e futile spirale che costituisce uno degli argomenti di Scientisti e antiscientisti di Massimiano Bucchi (Il Mulino, pagg. 128, euro 11,50). Il sottotitolo Perché scienza e società non si capiscono, senza punto interrogativo, promette una risposta che viene data nella conclusione: «scienza e società non si capiscono perché si intendono fin troppo bene», nel senso che ciascuna si appoggia all'altra in maniera analoga alla spirale descritta sopra, in cui i giornalisti diffondono colposamente notizie trash, spesso fornite dolosamente dagli scienziati. Ora, è sicuramente innegabile che ci siano questi aspetti deleteri del rapporto fra scienza e società, ma Bucchi tende ad enfatizzarli al punto da cancellare la differenza stessa tra scientismo e antiscientismo, considerandoli due facce di una stessa medaglia e ribattezzandoli addirittura, rispettivamente, «scientismo positivo e negativo». L'operazione è sospetta, e in un certo senso analoga a quella di coloro che considerano anche la fede e l'ateismo come due facce di una stessa medaglia, come suggeriva il titolo del libro di Umberto Eco e Carlo Maria Martini Cosa crede chi non crede? Una domanda singolare, dello stesso tipo di "Cosa mangia chi non mangia?", alla quale non si può certo rispondere che mangia qualcosa di diverso dal cibo, come invece tendonoa fare coloro che ritengono che l'ateismo sia un tipo diverso di religione, invece che la sua mancanza. Questi giochi di parole tendono più a confondere i termini del dibattito, che non a chiarirli. Per chiarire cosa sia lo «scientismo», bisogna anzitutto notare che il termine ha già di per sé un connotato negativo, al contrario di «umanesimo». E che non c'è nessuna parola che descriva positivamente, o anche solo neutralmente, la constatazione che «i metodi caratteristici delle scienze naturali rappresentano l'unica fonte genuina di conoscenza fattuale, e solo essi possono produrre un' effettiva conoscenza dell' uomo e della società»: che è, appunto, il modo in cui Bucchi definisce lo scientismo. L'antiscientismo è ovviamente l'opinione contraria, professata più o meno apertamente dalla quasi totalità della società umanista, che spesso si trincera dietro ad aperti fraintendimenti dell' impresa scientifica. Uno degli esempi più influenti, citato rispettosamente anche da Bucchi, è La struttura delle rivoluzioni scientifiche del filosofo Thomas Kuhn, al quale si appigliano tutti coloro che vorrebbero assegnare alla verità scientifica un carattere puramente storico. Chi non conoscesse i fatti e leggesse quel libro, così come La rivoluzione copernicana dello stesso autore, potrebbe infatti dedurne che il passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano abbia costituito un radicale cambiamento di prospettiva fisica, mentre invece i due sistemi sono perfettamente equivalenti dal punto di vista della descrizione dei moti planetari. E' l'immagine metafisica del mondo che è cambiata, nel passaggio dal geocentrismo all'eliocentrismo, ma questo è un problema della filosofia,e non certo della scienza! Analoghe considerazioni si potrebbero fare a proposito del falsificazionismo del filosofo Karl Popper, ampiamente citato da coloro che vorrebbero invece assegnare alla verità scientifica un carattere puramente negativo. Senza tener conto, ovviamente, del fatto che ciò di cui parlano sia Popper che Kuhn non è per niente la scienza reale che praticano gli scienziati, bensì quella fittizia che si immaginanoi filosofi.I quali, avendo maggior accesso ai media, finiscono per imporre i propri fraintendimenti come se fossero, questi sì, verità assolute e positive. Per forza di cose, i letterati sono ancora peggio dei filosofi, perché della scienza capiscono ancora meno, ma hanno un accesso ancora maggiore ai media. Un caso emblematico è la considerazione di cui godono le opere «scientifiche» di Wolfgang Goethe, che avrà anche scritto dei bei versi in tedesco, ma quando si è avventurato a pontificare nei campi dell'ottica o della chimica si è reso semplicemente ridicolo. Il suo romanzo Le affinità elettive faceva pateticamente partorire a due genitori una figlia con i tratti somatici dei rispettivi amanti, ai quali essi pensavano al momento del concepimento. Dire che ciò che importa in quei libri è la forma, e non il contenuto, equivale ad ammettere che la letteratura non è impresa di verità, ma di bellezza. Il che potrà anche essere vero, ma conferma appunto la visione «scientista», che la conoscenza fattuale sta di casa altrove. Ma non certo nella mitologia o nella religione, che costituiscono i baluardi più avanzati dell'antiscientismo. Come si può infatti combinare con la scienza la credenza nelle anime e negli spiriti immateriali, quali angeli e demoni? O la fede nei miracoli, che sospendono le leggi di natura per permettere interventi soprannaturali? Si ha un bel dire che l' antiscientismo non esiste, se non come altra faccia della medaglia dello scientismo! Non solo esso esiste, ma impera! E ogni passo avanti compiuto dall' immagine della scienza viene contrastato da cento passi indietro compiuti da filosofi, letteratie religiosi. L' ultimo in ordine di tempo è la decisione del ministro Gelmini di offrire sì, agli studenti del Liceo Scientifico, un baratto dell'anacronistico latino con la moderna informatica e un po' più di scienze. Ma solo in un indirizzo facoltativo, attivato solo in alcune scuole, e avversato dall'esercito delle cariatidi che ancora pensano che il cervello maturi di più recitando rosa, rosae, rosae che non imparando a scrivere algoritmi! Il fatto è che quello viene bollato come «scientismo» non è altro che una miscela di tre semplici ingredienti: buon senso, razionalità e rigore. Ciascuno di questi ingredienti è raro, ma se anche fosse casualmente distribuito al 50 per cento, la combinazione di tutti e tre sarebbe comunque posseduta solo dal 12,5 per cento della popolazione: il che spiega la percentuale bulgara degli antiscientisti, e la difficoltà degli «scientisti» di far sentire la propria voce.

«La Repubblica» del 22 marzo 2010

Greci e latini, che istrioni!

Da Plauto a Terenzio: il teatro antico rivive in una rassegna sulle maschere, i personaggi e gli spettacoli nel mondo antico, tra tragedia e commedia
di Rosita Copioli
A Sarsina Plauto va sempre in scena. È un caso? L’Emilia Romagna ha mantenuto, perfino nei travestimenti moderni, lo spirito del mas­simo innovatore della com­media antica. Plauto fu l’in­ventore di un linguaggio ge­niale, mobilissimo, ricchis­simo, libero fino al selvag­gio, prima che il dolce Te­renzio addomesticasse defi­nitivamente le tradizioni dei mimi e dei fescennini, delle Sature e delle Atellane che gli Italici ormai romanizzati (Andronico, Nevio, Ennio, Cecilio Stazio, Luscio Lanu­vino, tra i più noti), traevano dagli Osci, dai Sanniti, dai Falisci, dagli Etruschi, dagli Umbri, forse dai Veneti e dai Celti. Per una vocazione na­turale, che dura fino a oggi oltre Totò e Sordi, in Italia la commedia è prevalsa sulla tragedia. Da Seneca ad Al­fieri i nostri tragici suonano retorici e artificiali. Ma Hila­rotragoedia è il primo libro felice di Manganelli, che al­lude alla parodia delle tra­gedie rappresentate nelle Dionisie di Taranto nel III secolo. Plauto e Terenzio a­vevano entrambi a modello Menandro e scrissero pal­liate, con personaggi greci che indossavano il mantello nazionale (e poca fortuna a­vrebbe avuto la commedia togata, con personaggi ro­mani che indossavano la to­ga). Plauto, che serbava il sapore dell’atellana, usava ancora le maschere, i tipi.
Terenzio passò definitiva­mente ai caratteri, ai perso­naggi. Ma come nacque il teatro latino? Di certo fu in­fluenzato da quello greco, dai miti greci e dai culti di Dioniso, che dal VI secolo compaiono nelle rappre­sentazioni funebri e ludiche dei vasi e delle tombe, in E­truria e in Magna Grecia.
Nella bella mostra allestita dalle Soprintendenze per i Beni Archeologici di Emilia­Romagna e di Napoli e Pompei per RavennAntica nel Complesso di San Ni­colò (i reperti provengono dai Musei di Napoli e dell’E­milia Romagna), è visibile il percorso complesso del tea­tro latino, sopravvissuto fi­no a noi nel suo spirito (la mostra è a cura di Maria Ro­saria Borriello, Luigi Malna­ti, Valeria Sampaolo. Catalo­go Skira a cura dei medesi­mi e di Giovanna Montevec­chi). Gli scavi archeologici, soprattutto in aree etrusche, hanno messo in luce resti di edifici che possono far pen­sare a usi teatrali, agonistici, pubblici, ma di veri teatri si può parlare, in Campania ed Emilia Romagna, solo per gli oltre venti centri del­la Campania, dove spiccano quelli di Napoli, Teano, Ercolano, da cui vengono le statue in bronzo di Livia e di L. Mammius Maximus, della seconda metà del I se­colo d.C. Così come, per l’E­milia Romagna, di Parma, Bologna, Mevaniola (Galea­ta), Rimini. Degli edifici rende conto il catalogo, ma anche nella mostra sono presenti diverse ricostru­zioni, e un notevole model­lo di frons scenae di terra­cotta a stampo colorata del III-II secolo a.C., forse di provenienza magnogre­ca, che sembra una ce­ramica votiva. Le testimonianze sul teatro nel suo complesso ­gli attori, histriones, le maschere, perso­nae dal Phersu che compare nelle tombe etrusche, con tutte le caratte­rizzazioni, le scene, gli strumenti musi­cali, prodotti dal cul­to religioso - proven­gono per la maggior parte dalle case, le do­mus dove il gusto per que­ste raffigurazioni non pas­seranno mai di moda. Un ricco, talora splendido cor­redo di ornamenti che si comincia a trovare tra la metà del I sec. a. C. fino a tutto l’impero, comprende le antefisse con maschere fittili ai cornicioni dei tetti, gli oscilla da appendere in marmo, le pareti affrescate, i rilievi, le statue, i pavi­menti in mosaico, i vasi, le appliques , le lucerne. La va­rietà delle maschere aveva settantasei tipi, ventotto per la tragedia, quarantaquattro per la commedia, quattro per il genere satiresco. Un gruppo di quindici masche­re in gesso trovato a Pompei nel 1749, davvero unico, po­teva figurare da campiona­rio di bottega, come scrive Ma­ria Rosaria Bor­riello, per la riconoscibilità dei tipi: su due sono graffiti nomi: uno, Buco, è Bucco, che con Pappus, Maccus, Dossennus, era personaggio dell’atellana. Le cinque se­zioni del nitido progetto e­spositivo di Paolo Bolzani, culminano con Dioniso: dai suoi miti e dai suoi culti na­sce il teatro. Qui i dicianno­ve meravigliosi, grandi vasi apuli, magnogreci, lucani, attici anche da Spina (come nella IV sezione il cratere di Paestum e l’hydria attica), raccontano di satiri, ninfe, menadi, delle divinità del suo pantheon, come Apollo e Afrodite, Orfeo, Arianna. Il dio viene smembrato e rina­sce, simbolo della tragedia e della speranza dell’uomo.
Il sacrificio è crudeltà totale. Il ventre del ca­pro rovesciato sulla tavola, è sezionato da vivo, carni e vi­scere mangiate mentre è vivo.
Come il capro, l’acrobata, l’at­tore sulla tavola o la scena, l’uo­mo ruota, si ro­vescia, è smem­brato a morte, rimbalza a nuova vita. Occorre sicu­rezza per il gioco e­stremo, leggerezza dello spirito purificato.
Catarsi, ebbrezza, riso, commedia, sono strumenti e simboli. Dioniso è il teatro. In Cristo si riassume il fina­le.
Ravenna, Complesso di San Nicolò, HISTRIONICA, Teatri, maschere e spettacoli nel mondo antico, fino al 12 settembre
«Avvenire» del 30 marzo 2010