15 febbraio 2010

Una via per uscire dallo «scontro» di civiltà

di Gianfranco Ravasi
Fu proprio in quel Settecento tedesco, nel quale si era coniato il termine Cultur/ Kultur con l’accezione specifica attuale, che si iniziò anche a parlare di culture, gettando così le basi per riconoscere e comprendere quel fenomeno che ora è definito come multiculturalità. Ad aprire questa via, che superava il perimetro eurocentrico e intellettualistico e si inoltrava verso nuovi e più vasti orizzonti, era stato Johann Gottfried Herder con le sue Idee sulla filosofia della storia dell’umanità (1784-91), lui che tra l’altro si era già dedicato nel 1782 allo Spirito della poesia ebraica.
L’idea, però, balenava ancora nel pensiero di Vico, Montesquieu e Voltaire che riconoscevano nelle evoluzioni e involuzioni storiche, negli stessi condizionamenti ambientali, nell’incipiente incontro tra i popoli, al seguito delle varie scoperte, nelle prime osmosi ideali, sociali ed economiche, l’emergere di un pluralismo culturale.
Certo, questo approccio si innestava all’interno di una dialettica antica, quella che – con qualche semplificazione – vedevano incrociarsi etnocentrismo e comparativismo. È stata costante, infatti, l’oscillazione tra questi due estremi e noi ne siamo ancor oggi testimoni. L’etnocentrismo si esaspera in ambiti politici o religiosi di stampo integralistico, aggrappati fieramente alla convinzione del primato assoluto della propria civiltà, in una scala di gradazioni che giungono fino al deprezzamento di altre culture classificate come primitive o barbare. Lapidaria era l’affermazione di Tito Livio nelle sue Storie: « Guerra esiste e sempre esisterà tra i barbari e tutti i greci » ( 31, 29).
Questo atteggiamento è riproposto ai nostri giorni sotto la formula dello scontro di civiltà, codificata nell’ormai famoso saggio del 1996 del politologo Samuel Huntington, recentemente scomparso, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
In questo testo erano elencate otto culture (occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo- ortodossa, latino­americana e africana), enfatizzandone le differenze, così da far scattare nell’Occidente un segnale d’allarme per l’autodifesa del proprio tesoro di valori, assediato da modelli alternativi e dalle « sfide delle società non-occidentali».
Significativa in questa visione era l’intuizione che, sotto la superficie dei fenomeni politici, economici, militari, si aveva uno zoccolo duro e profondo di matrice culturale e religiosa. Certo è, però, che se si adotta il paradigma dello scontro delle civiltà, si entra nella spirale di una guerra infinita, come già aveva intuito Tito Livio. Ai nostri giorni tale modello ha fortuna in vari ambienti, soprattutto quando si affronta il rapporto tra Occidente e Islam, e può essere adattato a manifesto teorico per giustificare operazioni politico- militari di prevenzione, mentre in passato avallava interventi di colonizzazione o colonialismo (già i Romani erano in questo maestri).
Il comparativismo è, invece, un termine non proprio felice usato per indicare un ben differente approccio alla multiculturalità.
Esso si basa sul riconoscimento della diversità come una fioritura necessaria e preziosa della radice comune adamica. Si propone, allora, l’attenzione, lo studio, il dialogo con civiltà prima ignorate o remote, ma che ora si affacciano prepotentemente su una ribalta culturale finora occupata dall’Occidente (si pensi, oltre all’Islam, all’India e alla Cina), un affacciarsi che è favorito non solo dall’attuale globalizzazione, ma anche da mezzi di comunicazione capaci di varcare ogni frontiera (la rete informatica ne è il simbolo capitale). Queste culture, nuove per l’Occidente, esigono un’interlocuzione, spesso imposta dalla loro presenza imperiosa, tant’è vero che ormai si tende a parlare di glocalizzazione come nuovo fenomeno di interazione planetaria.
Di fronte a questa dialettica tra etnocentrismo e comparativismo, che ha come terreno di attuazione la multiculturalità, può essere configurato un approccio che potremmo ora abbozzare in modo molto sintetico e approssimativo e che sarebbe possibile definire come interculturalità. Si tratta di un impegno complesso di confronto e di dialogo, di interscambio culturale e spirituale, che potremmo rappresentare in modo emblematico – in sede teologica cristiana – proprio attraverso la stessa caratteristica fondamentale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non è, infatti, un aerolito sacrale piombato dal cielo, bensì l’intreccio tra Logos divino e sarx storica. Si è, così, in presenza di un confronto dinamico tra la Rivelazione e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio- cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, almeno per quanto riguarda l’Antico Testamento, mentre la Rivelazione neotestamentaria si è incrociata col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco- romana e persino con le forme cultuali pagane.
Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne in Gesù Cristo, « la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche» . La stessa esperienza di osmosi feconda tra cristianesimo e culture – che dette origine all’inculturazione del messaggio cristiano in civiltà lontane (si pensi solo all’opera di Matteo Ricci nel mondo cinese) – è stata costante anche nella Tradizione a partire dai Padri della Chiesa. Basti citare un passo della Prima Apologia di san Giustino (II secolo): «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come fra i Greci Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).
Non si può ignorare, però, che in questo dialogo interculturale e interreligioso sono in agguato anche alcuni rischi. Non possiamo, nello spazio ridotto di questa nota, aprire il recente complesso capitolo del dialogo tra le religioni. Aveva ragione il teologo Heinz R. Schlette quando, già nel 1963, nel suo saggio Le religioni come tema della teologia osservava che « ci si trovava di fronte a un terreno dogmaticamente nuovo.
Se si adotta il paradigma dell’opposizione tra popoli, si entra nella spirale di una guerra infinita, come già aveva intuito Tito Livio. Ai nostri giorni tale modello ha fortuna in vari ambienti, soprattutto quando s’affronta il rapporto tra Occidente e islam, e può essere adattato a manifesto teorico per giustificare operazioni politico-militari di prevenzione, mentre in passato avallava interventi di colonialismo paragonabile alle zone in bianco degli antichi atlanti». Al tradizionale paradigma dell’esclusivismo (extra ecclesiam nulla salus) si è sostituito quello dell’inclusivismo, suggerito soprattutto da Rahner, mentre il Concilio Vaticano II dava impulso «al dialogo e alla collaborazione dei cristiani coi seguaci delle altre religioni» (Nostra Aetate 2), così come si tentavano mediazioni ulteriori tra i due citati paradigmi con la proposta di un cristianesimo relazionale.
Al di là di ogni fondamentalismo e relativismo
Ma si poteva anche procedere verso la deriva di un pluralismo che in pratica faceva perdere l’identità alla teologia cristiana stingendone, se non estinguendone, il volto proprio. Si pensi, ad esempio, al cosiddetto paradigma geocentrico proposto dal teologo presbiteriano britannico John Hick nelle sue opere Dio e l’universo delle fedi (1973) e Dio ha molti nomi (1980), destinato a cancellare la specificità cristologica. In sede meno teorica e più etico- politica – e, quindi, con minore assertività – si muoveva anche il noto Progetto per un’etica mondiale, elaborato nel 1990 da Hans Küng e adottato dal ' Parlamento delle religioni' di Chicago nel 1993: esso si basava su un consenso morale minimo verso cui le grandi tradizioni culturali e religiose dovevano convergere per essere al servizio dell’humanum , così da creare un mondo « giusto, pacifico e sostenibile».
Se è vero che il fondamentalismo etnocentrico e integralistico è la negazione esplicita dell’interculturalità, lo sono però anche le forme di sincretismo e relativismo, che più facilmente tentano civiltà stanche e divenute meno identitarie come quelle occidentali. Anche questo atteggiamento – come quello che propone vaghe religioni unitarie su pallidi e inoffensivi denominatori comuni (ne sono esempi le tesi dello storico inglese Arnold Toynbee o del pensatore indiano Vivekananda) – si oppone al vero dialogo. Esso, infatti, suppone nei due soggetti un confronto di identità e di valori, certo per un arricchimento reciproco, ma non per una dissoluzione in una generica confusione o in un appiattimento. Come l’eccesso di affermazione identitaria può diventare duello non soltanto teorico, ma anche armato, così il concordismo generico può degenerare in un incolore uniformismo o in una confusione relativistica.
Conservare l’armonia della diversità nel dialogo e nell’incontro, come accade nel duetto musicale ( che crea armonia pur nella radicale differenza dei timbri di un basso e di un soprano), è la meta di una genuina e feconda esperienza multiculturale e interculturale.
«Avvenire» del 14 febbraio 2010

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