28 febbraio 2010

Signor giudice, nasconda a mia figlia quel nonno muto ...

La disabilità estrema e noi
di Marina Corradi
«Che mia figlia non viva nella casa del nonno, paralizzato e muto per una sindrome neurologica. È troppo triste, troppo afflittivo per un bambino, assiste­re a certe situazioni». È, in sostanza, la ri­chiesta di un padre separato al tribunale. E non è un caso isolato.
Dunque in quel laboratorio di diritti e af­fetti che sono le divisioni fra coniugi, in cui vengono alla luce prima che altrove que­stioni che altrimenti si discutono fra le mu­ra di casa, emerge una nuova domanda che pretende di essere affermata giuridica­mente: il diritto a non vedere la malattia e la sofferenza. Qualcosa di ulteriore rispet­to al «diritto a morire» teorizzato nella bat­taglia per l’eutanasia: la pretesa di non far vedere quegli stati di vita, che ai sani pos­sono apparire inaccettabili. O almeno que­sta pretesa comincia con i bambini, ve­stendosi di premura paterna: che la bam­bina non entri in quella casa dove il non­no, cui pure vuole bene, ora non risponde, non parla. Benché privo di una sofferenza fisica evidente, il silenzio degli stati vege­tativi o delle sindromi analoghe è giudica­to insopportabile; si va dal giudice, perché non sia mostrato ai figli e ai nipoti. Questa premura di genitori è singolare. Vuole na­scondere la sofferen­za di un vecchio, ren­derla come inesisten­te. Invisibile, come se quell’uomo fosse già morto.
Ma davvero, censu­rando una parte fon­damentale della vita, gli adulti proteggono i figli, o invece non proteggono se stessi da ciò che agli occhi loro, e non del figlio, è intollerabile? Sembra paradossale: in un tempo in cui tutto è visibile anche ai bam­bini, dalla pornografia alla violenza, pren­de forma un ultimo tabù: la malattia, l’in­validità, e quell’area grigia dell’assenza da sé, che a molti sembra una morte da vivi. L’ultimo tabù, l’inguardabile, l’osceno, è la malattia, e tanto più quella che paralizza, allontana – ineludibile primizia della mor­te.
Eppure, chiunque non sia più un ragazzo ricorda di essere stato portato al capezza­le dei nonni, di averli visti magari in ago­nia; di avere avuto in casa un vecchio reso assente e bisognoso di tutto dalla demen­za. Veramente quel vedere ci ha danneg­giato? No: ci ha mostrato che esistono an­che la sofferenza e la fine, dunque ci ha spiegato qualcosa, della vita, di fonda­mentale. Certo, accanto ai bambini una volta c’erano adulti che sapevano stare di fronte alla sofferenza. Che, pure nella pau­ra e nel dolore, avevano la memoria di un senso; che rendeva la fine dei vecchi, e non solo quella dei vecchi, non assurda. La spe­ranza cristiana, magari neanche piena­mente confessata ma respirata da sempre, in una naturale osmosi, alleviava e faceva umanamente tollerabili le invalidità e le a­gonie. Dolore, ma non insensato e cieco: e dunque le stanze dei malati potevano ben essere aperte ai bambini. Che proprio da quei momenti erano, e sono ancora pro­vocati a farsi delle domande: per che cosa si vive e si muore, e cosa ne è di un nonno amato, quando sembra addormentato per sempre, e non riconosce più chi gli è caro. Domande che ne generano altre, che bru­ciano, che sfidano. Che fanno diventare grandi.
Ma forse oggi si preferiscono figli inebeti­ti dal rumore, storditi dai consumi. e il più a lungo possibile ignari della sofferenza, del limite che, in quanto uomini, hanno scritto addosso. O forse sono i padri che, a­vendo perso la memoria di un senso, stan­no atterriti davanti a certe stanze di mala­ti. Lì dentro si è insediato, tenace, assurdo, il dolore: una faccenda che, senza speran­za, è atroce. Per questo vogliono che i loro figli non entrino, che i loro figli non veda­no. Porte chiuse. Tabù. Signor giudice, che mia figlia non veda quel nonno assente, lontano, muto. A cui io, signor giudice, non tollero di stare davanti.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

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