25 febbraio 2010

L'equilibrio dei diritti

Le
di Massimo Gaggi
Negli
Giustificato o meno che sia sul piano del formalismo giuridico, il tintinnio di manette della sentenza di ieri rischia di trasformare il quasi monopolista Google, giustamente «processato» dalle opinioni pubbliche di mezzo mondo per alcune sue tendenze orwelliane, nella vittima di un sistema giudiziario arcaico, incapace di capire quello che sta accadendo nel mondo della tecnologia e della comunicazione.
La condanna di tre dirigenti di Mountain View, California, per un video messo su YouTube da alcuni ragazzi italiani e subito ritirato da Google (proprietaria di YouTube) quando si è resa conto del suo contenuto intollerabile e illegale ha provocato una sollevazione planetaria del mondo che si riconosce in Internet: l'accusa è rimbalzata perfino in una nota ufficiale dell'ambasciata americana di Roma che, ribadendo «il principio fondamentale della libertà di Internet, vitale per le democrazie », ha finito per usare parole simili a quelle pronunciate da Hillary Clinton contro la censura cinese.
Un altro rischio, come ha notato la britannica Bbc, è che le polemiche sollevate da questa sentenza mettano in cattiva luce tutta la legislazione europea in materia di tutela della «privacy»: un bene che nel nostro continente è difeso molto più che negli Stati Uniti. E molti ieri, sulla rete, hanno utilizzato questa sentenza per sostenere che la protezione della «privacy » può diventare un modo di limitare la libertà d’espressione.
Tutti questi commenti prescindono, però, da un fatto centrale: pubblicando un video di violenze commesse contro un ragazzo autistico, è stato commesso un reato penale. Il governo Usa non è d'accordo sulla responsabilità preventiva del «provider» dei servizi Internet su quello che viene pubblicato, ma una responsabilità oggettiva nel nostro sistema esiste. E il fatto ha una sua rilevanza, la parte lesa ha diritto di chiedere giustizia, anche se l’Italia ha un peso limitato nel palcoscenico mondiale del web.
Del resto se le aziende americane della Silicon Valley, pur di non perdere i loro business, hanno accettato per anni di sottoporsi alle norme nazionali dei più duri regimi autocratici, anche esponendo a rappresaglie dissidenti che combattono per la democrazia, non si vede perché non dovrebbero rispettare una sentenza che può essere discussa, ma che, comunque, si limita, appunto, a punire un reato.
Un intervento che non incide sulla libertà d'espressione ma richiede a chi immette contenuti altrui nelle sue «pipeline» (guadagnandoci sopra) di avere l'accortezza minima di eliminare quelli che violano la legge. Certo, fissare i limiti entro i quali si può muovere la rete non è cosa da far decidere ai magistrati. E non è nemmeno opportuno che i governi fissino regole troppo stringenti che finirebbero per mortificare la libertà della rete. Ma non si può nemmeno lasciare tutto in mano agli ingegneri, come è stato fatto fino a oggi. Se siamo giunti a questa sentenza senza precedenti e se negli stessi Usa monta la rivolta contro Google che anche di recente ha abusato dei dati privati dei suoi utenti di G-mail per cercare di recuperare terreno su Facebook e Twitter nell'area delle reti sociali, è proprio perché a sovraintendere non solo sulle nuove tecnologie ma anche sulle loro conseguenze culturali, sociali e sui diritti dei cittadini sono quasi sempre gli uomini degli algoritmi trasformati in manager. Per i quali la «privacy» è una merce da acquistare o, addirittura, un'eredità ingombrante da abolire in nome dell'«accesso» (e dello sviluppo del business). Può anche darsi che nella «Internet society» alcuni diritti e alcune libertà siano destinati a subire mutamenti rilevanti. Ma vorremmo che a deciderli non fosse un «softwarista».
«Corriere della Sera» del 25 febbraio 2010

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