25 febbraio 2010

A Cuba nessuna svolta: i dissidenti muoiono in cella

L'illusoria «primavera» di Raul Castro
di Giorgio Ferraro
Il più celebre rimarrà forse il poeta Reinaldo Arenas, perseguitato dal regime per la sua omosessualità ma soprattutto perché non allineato alla prosopopea del partito unico e riluttante a divenire cantore ad oltranza dei fasti di Cuba. Ma il nome di Orlando Zapata, l’ultimo della lunga serie di dissidenti a morire nelle prigioni di Castro, non fa che confermarci come la breve stagione di Raul, che assunse i pieni poteri nel 2007 all’indomani della malattia invalidante del Líder Maximo, non sia stata che un’ingannevole primavera, uno squarcio nell’interminabile regno di Fidel che aveva fatto sognare il mondo democratico e in qualche misura anche i cubani stessi, e che ora si richiude come un sipario di piombo sull’illusione di un durevole cambiamento. Non c’è nulla da fare, come nel torbido principato caraibico descritto da Gabriel García Márquez nell’Autunno del patriarca, Cuba rimane identica a se stessa nella sua stagnante immobilità, il potere in mano a Raul è assolutamente simile a quello gestito in prima persona dal più dotato fratello Fidel e i dissidenti, i molti dissidenti detenuti nelle carceri speciali dell’isola, rimangono dove sono. Se ne contano almeno una settantina, accusati di aver cospirato a favore del 'nemico' americano, e un numero imprecisato di altri oppositori, dei quali si sa poco o nulla, tranne che nessuno vedrà la luce del sole (dire la libertà sarebbe troppo) prima di trent’anni. E poco importa che da qualche anno a Cuba esista un Comitato per i diritti umani e la riconciliazione nazionale, tollerato dal regime in quanto sostanzialmente innocuo: nelle carceri si continua a languire e a morire, come accadde nel 1972 al poeta Pedro Luis Boitel, che si lasciò spegnere come Zapata per inedia. Zapata, operaio quarantaduenne, è morto dopo uno sciopero della fame durato quasi tre mesi. Il suo crimine: «vilipendio alla figura di Fidel Castro», oltre all’appartenenza al Movimento per l’alternativa repubblicana. Il suo decesso ufficialmente non è ancora stato reso noto, ma neppure Cuba – nonostante l’occhiuta sorveglianza sui pochi Internet point del Paese e il raggelante dispositivo di interdizione delle comunicazioni satellitari graziosamente offerto dalla Cina – riesce a bloccare del tutto personalità come la 'blogger' Yoani Sanchez o l’ancor più famoso Oswaldo Payá, leader del Movimento cristiano di liberazione, le cui parole oggi suonano come un tragico epitaffio: «Zapata è stato assassinato, giorno dopo giorno.
Ma il movimento non cerca dei martiri, bensì si batte per la difesa della libertà, dei diritti e della dignità del popolo cubano». Sarà una strada molto lunga. Payá aveva dato vita nel 1998 al Progetto Varela, dal nome di un prete cattolico padre dell’indipendenza cubana e maestro di un liberalismo per molti aspetti simile a quello di Rosmini. Il regime castrista ha reagito emendando la Costituzione e assegnando a Cuba il vincolo permanente di Stato socialista. Come dire che ogni idea di democrazia sarebbe stata fuorilegge e perseguita. Come infatti accade ai dissidenti più attivi. Per i più morbidi (o i più inoffensivi) c’è la pelosa tolleranza del regime, similissima in ciò alla politica zarista, che alternava la ferocia dell’Ochrana – la polizia segreta – alla falsa indulgenza nei confronti delle opposizioni. Inutile illudersi. La svolta di Cuba, quella vera, quella democratica, non quella che si limita a salamelecchi diplomatici con gli etnocaudillos come Chavez o Morales, si avrà solo quando nessuno dei Castro sarà più al potere. E quel lungo regno dove la parola libertad è soltanto uno slogan sarà finalmente concluso.
«Avvenire» del 25 febbraio 2010

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