15 febbraio 2010

Così i blogger del Settecento calunniavano in libertà la Francia e il suo re

La sottile analogia dello storico Darnton
di Marina Valensise
Pensavamo che la calunnia, quell’arte sottile della diffamazione che tanto più colpisce i personaggi pubblici quanto più li espone nei loro vizi privati, intimi e reconditi, fosse il portato postmoderno del marketing o della trasparenza democratica. Pensavamo fosse l’effetto incontenibile dell’era digitale, da quando Internet ha travolto ogni barriera, condannando il riserbo, il segreto, la discrezione. Errore, la calunnia è un’arte antica e i suoi maniaci che oggi sono diventati i blogger e smanettano giorno e notte sul computer infestando la rete di pettegolezzi, sentito dire e illazioni, vantano un glorioso pedigree. Lo dimostra l’americano Robert Darnton, che da decenni insegna alla Harvard University ed è il massimo conoscitore di anfratti e bassi fondi della comunicazione dell’Ancien Régime. E che da tempo lavora su un nuovo ceppo nella genealogia dei calunniatori.
Nel suo ultimo libro (“The Devil in the Holy Water, or the Art of Slander from Louis XIV to Napoleon”, University of Pennsylvania Press, tradotto ora in francese da Gallimard), lo storico ricostruisce nientemeno che la storia di una colonia di francesi espatriati a Londra alla vigilia della rivoluzione che, grazie ai rapporti di informatori segreti di stanza a Parigi o alla corte di Versailles, passavano il tempo a produrre libelli per ricattare ministri, alti funzionari e cortigiani dopo averne spiattellato gusti e perversioni, debolezze di carattere e segreti indicibili.
I loro libelli, stampati in tipografie clandestine, andavano a ruba. Erano pura pornografia, ma circolavano di mano in mano, entrando di contrabbando nel regno di Francia, come gli “Anedoctes sur Mme la comtesse du Barry”, o l’“Histoire des amours de Louis XV”. Il genio del male era un tal Charles Théveneau de Morande, libellista per antonomasia, scribacchino per fame. Ma c’era anche un marchese di Pelleport, autore di apprezzatissimi scrittori trash come “Le Diable dans le bénitier” che dà il titolo al libro di Darnton e nel quale denunciava lo stato poliziesco dei re Borbone elogiando, in compenso, la libertà inglese. A Parigi, nel 1783, il ministro degli Esteri Vergennes, racconta Darnton che ha compulsato tutti gli archivi segreti, passava più tempo a occuparsi di libelli e libellisti che a trattare la pace con gli inglesi dopo l’indipendenza americana. E alcuni ministri calunniavano in proprio pur di fare fuori i loro nemici.
La calunnia infatti era un’arte in sé. Non bastava il talento di una penna acuminata. Ci voleva anche una rete di informatori attendibili per trasformare una soffiata in un aneddoto. Il modello, in questo senso, era stato fornito dal gran pettegolo di Bisanzio, Procopio di Cesarea. Ma in quella cloaca massima che era la Parigi del XVIII secolo, corte, philsophe, appaltatori, pennivendoli pronti a tutto pur di sfamarsi, aveva dato vita a un genere semiludico e dalle infinite potenzialità, per chi sfrondando tra vero e verosimile riusciva a decifrare il puzzle, trasformando il libello in strumento politico. Una pratica della maldicenza fuori controllo che, già in altri suoi studi, Darnton ha paragonato, con le dovute cautele, all’odierna informazione internettiana.
Non che i calunniatori contestassero trono e altare. Nel 1787, in quel sottobosco, nessuno vide arrivare la rivoluzione: ma tutti contribuirono a prepararla. Il governo se ne sentiva talmente minacciato che spedì a Londra i suoi agenti per farli fuori o assoldarli. Alcuni di loro si finsero baroni per penetrare la “cellula criminale”. I cospiratori finsero di distruggere le loro tirature proibite, mentre alcuni agenti segreti, fiutando l’affare, erano già pronti a voltare gabbana. Naturalmente era una balla. Ma tutti la presero per vera.
«Il Foglio» del 15 febbraio 2010

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