28 febbraio 2010

Che cosa vogliamo dire quando parliamo di libertà del Web?

Ancora sul caso Google
di Claudio Cerasa
Bisogna essere sinceri: non servivano certo le parole di un magistrato, di un giudice e di un gruppetto di avvocati indemoniati per capire che dietro i pasticci del caso Google si nascondono problemini mica da poco. Ovvero: che diavolo si vuole dire quando si parla di libertà nella rete? E soprattutto: che razza di stravagante teoria è quella di chi ci vuole convincere che essere liberi sul Web significa davvero avere la possibilità di fare tutto il cavolo che ci pare? A meno che non si voglia ammettere che la libertà della rete significa semplicemente avere la possibilità di utilizzare il Web come se fosse una cassetta delle lettere in cui l’unico vero vincolo per la pubblicazione di un post, di un video, di una foto è la semplice capienza della mail box, beh, dovrebbe essere chiaro che chi in queste ore sostiene che sul Web non sia un illecito pubblicare sempre e comunque tutto quanto quello di cui si dispone commette un grosso errore.
Il filosofo inglese John Locke, lo ricorderete, ripeteva spesso che laddove non c’è legge non c’è libertà e in questo senso sostenere che Google sia giustificata a comportarsi come se fosse un postino – “che non può essere ritenuto responsabile del contenuto delle lettere” – è un modo molto ingenuo per nascondere il problema centrale di questa storia. Perché dire che un’azienda che vive grazie ai contenuti offerti dai propri utenti non ha il dovere di controllare le fonti che costituiscono il core business delle proprie attività è come dire che un editore non è responsabile dell’uso che i cronisti fanno delle proprie fonti giornalistiche. La favoletta dello spazio di Internet visto come un luogo neutro in cui, alleluia, si può fare finalmente ciò che si crede è un’arma a doppio taglio: chi dice borbottando che applicare il modello dell’editore al motore di ricerca sia una sciocchezza dovrebbe pensarci un po’ di più, perché, molto semplicemente, bisognerebbe ammettere che in alcuni casi il controllo preventivo dei contenuti sul Web non è sinonimo di censura ma è sinonimo di qualità e di decenza dell’informazione.
E’ vero che sono molti i lettori dei giornali che apprezzano i quotidiani che sbattono in pagina articoli spesso discutibili – che senza neppure avere la pretesa di essere notizie fanno anche più danni di un video con un bambino autistico malmenato dai compagni. Ma bisognerebbe forse ricordare che deresponsabilizzare significa anche giustificare la pubblicazione di tutto quello che ci passa tra le mani (ora un video orribile, ora una notizia falsa, ora un’intercettazione inutile), e in questo senso hanno probabilmente torto i legali di Google che sostengono che quello del tribunale è un “attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet”. La bellezza di Google, si sa, è quella di essere una sorta di Virgilio che ci accompagna ogni giorno nella profondità della rete e dovrebbe essere dunque normale allarmarsi nel momento in cui si scopre che la nostra guida anziché avere l’ambizione di essere un accompagnatore illuminato ama andare in giro mostrando con orgoglio il robusto strato di affettati ben distribuito sui propri occhi.
«Il Foglio» del 26 febbraio 2010

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