18 febbraio 2010

Caravaggio, realista con sguardo su Dio

In giro per le sale ancora senza pubblico (fino al 20) della grande mostra romana sull'artista. A tu per tu con un genio che ha ritratto la vita, anche quella interiore, dal suo punto di vista
di Vittorio Sgarbi
Ho visto, ancora una volta, in perfetta solitudine le opere di Caravaggio arrivate alle Scuderie del Quirinale. La mostra è in allestimento. Le pareti, per volontà dell’allestitore, l’architetto Michele De Lucchi, sono prevalentemente rosse, alcune grigio-scure. È un corpo a corpo in una situazione di privilegio. Da sabato prossimo al 13 giugno migliaia di persone passeranno davanti a questi dipinti e sarà molto difficile rivederli nelle stesse condizioni. Se ne sente il respiro, se ne sentono gli odori. Nessun pittore, evitando la maniera, senza compiacimento, in una verità assoluta, è riuscito a restituirci come Caravaggio la vita. Hic et nunc. Ogni sua opera non potrebbe essere diversamente concepita, anche se lo è stata, come le due versioni della Conversione di Saulo o del San Matteo e l’angelo. Avvertendone le intrinseche diversità non riconosciamo due modi di affrontare il medesimo soggetto, ma due situazioni diverse, persino due persone diverse, anche se hanno lo stesso nome. Nessun pittore è stato più individualista di Caravaggio. Per lui sono individui anche le mele, l’uva, le foglie.
Come era giusto, a Roma, tutte le opere di Caravaggio sono rimaste nelle chiese. Le possiamo vedere nella stessa situazione in cui egli le concepì e le vide. Ma in mostra possiamo annusarlo, seguire con il pensiero il movimento del suo pennello. Perché in Caravaggio il pensiero è più veloce della pittura. La pittura deve correre, non ha tempo di fermarsi. Certo l’immagine è definita, a fuoco. Nella mente di Caravaggio si stabilisce con la realtà un rapporto fotografico. Come per Cartier-Bresson, ciò che gli interessa è «l’attimo decisivo». C’è una realtà insignificante. Ci sono anche uomini e donne, volti più o meno espressivi; ma non sono la realtà, sono presenze. La realtà è drammatica e vuole essere rappresentata nella sua complessità.
In verità, Caravaggio appena arrivato dalla Lombardia è ancora contemplativo, apollineo, ideale, come si vede in quel capolavoro, dipinto a 22-23 anni, che è il Riposo durante la fuga in Egitto (proveniente dalla galleria Doria Pamphilj). Qui la realtà è intermittente rispetto a un sogno: la si trova nell’occhio dell’asino, nelle masserizie di San Giuseppe, nei sassi e nelle foglie. Tutto il resto è sogno, con una musica celeste che arriva alle nostre orecchie. D’altra parte gli strumenti musicali ritorneranno in numerose altre opere di Caravaggio. Dal Suonatore dell’Ermitage all’Amore vincitore di Berlino. Il rapporto con il reale di Caravaggio è tale che non avvertiamo la differenza tra soggetti profani e soggetti religiosi. Possiamo dire che egli raggiunge se stesso abbastanza presto, ne I bari ora al Kimbal Art Museum di Forth Worth da cui subito si passa al pingue Bacco degli Uffizi, immagine sgradevole quanto ammirata: quando mai un ciccione sgraziato è stato rappresentato così solennemente?
Caravaggio ama le contraddizioni. Nella mostra c’è un rebus come la Conversione di Saulo, della collezione Odescalchi, così confusa e senza un centro, diversamente da quella che fu la capacità di sintesi di tutte le sue composizioni. Ma subito ritroviamo la concentrazione nell’Incoronazione di spine di Vienna dove i bruti si accaniscono contro una vittima di cui quasi non vediamo il volto. Caravaggio è alternativamente apollineo e dionisiaco. Riesce a essere apollineo, classico, nella Flagellazione di San Domenico a Napoli; e dionisiaco nella Adorazione dei pastori di Messina, immaginata in una notte senza fine sotto una capanna rotta con la Madonna distesa nel fango su un po’ di paglia. È uno dei quadri più drammatici di Caravaggio; eppure esalta l’evento fausto, non rappresenta un momento di violenza o una tragedia.
Caravaggio sente la tragedia della Storia, e la ripropone anche nelle due così diverse versioni della Cena in Emmaus, con quella così straordinariamente umana percezione della divinità di Cristo nelle persone semplici, la donna soprattutto nel dipinto di Brera; e nel pellegrino che salta sulla sedia nel dipinto di Londra. Viene da lontano e mostra meraviglie in San Giovanni Battista di Kansas City con la formidabile idea dell’ombra del braccio sul petto, a fianco del più lirico San Giovannino della galleria Corsini. Ritorna a Roma la Cattura di Dublino, tra gli ultimi capolavori scoperti del pittore.
Ma la mostra tocca il sublime con la Deposizione della Pinacoteca vaticana, di una evidenza plastica che non conobbe neppure Michelangelo nel Tondo Doni, e con l’Annunciazione di Nancy, tarda larva uscita dalla testa dolente e umiliata che vediamo nelle mani di Davide, un Golia-Caravaggio; e che è concepita come dall’altra parte della vita. Le cattive condizioni ne favoriscono l’espressività. Mai Annunciazione fu più tragica e contrastata di questa, con un angelo avvitato su se stesso e una Madonna, in basso, umiliata davanti a una alcova sconvolta. Da un’esperienza come questa appare meno misterioso il mistero dell’Immacolata concezione: è un tumulto, un sogno, una apparizione come sarebbe piaciuta a Füssli. Nei suoi anni estremi Caravaggio è capace di essere anche visionario, riproducendo una realtà non vista, la realtà interiore. Altrove i suoi angeli erano stati scugnizzi volanti, fratelli dei suoi Bacchi.
Nell’Annunciazione di Nancy l’angelo è un’apparizione da un’altra dimensione, e visto dalla parte della morte. Altrove, a Malta nella Decollazione del Battista e in Sicilia nel Seppellimento di Santa Lucia, ritroveremo il Caravaggio pittore tragico della realtà.
Qui rivediamo l’anima tormentata, il lampo improvviso della fede in chi non ha mai creduto ad altro se non a quello che si vede. Perché soltanto ciò che è reale è razionale. Ma anche per Caravaggio Dio resta inspiegabile e occorre fare i conti con ciò che non si capisce. In questo estremo margine di dubbio c’è la grandezza di Caravaggio, la forza di ciò che non si può spiegare. Neanche per chi ha avuto gli occhi aperti come lui.
«Il Giornale» del 18 febbraio 2010

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