28 febbraio 2010

Che cosa vogliamo dire quando parliamo di libertà del Web?

Ancora sul caso Google
di Claudio Cerasa
Bisogna essere sinceri: non servivano certo le parole di un magistrato, di un giudice e di un gruppetto di avvocati indemoniati per capire che dietro i pasticci del caso Google si nascondono problemini mica da poco. Ovvero: che diavolo si vuole dire quando si parla di libertà nella rete? E soprattutto: che razza di stravagante teoria è quella di chi ci vuole convincere che essere liberi sul Web significa davvero avere la possibilità di fare tutto il cavolo che ci pare? A meno che non si voglia ammettere che la libertà della rete significa semplicemente avere la possibilità di utilizzare il Web come se fosse una cassetta delle lettere in cui l’unico vero vincolo per la pubblicazione di un post, di un video, di una foto è la semplice capienza della mail box, beh, dovrebbe essere chiaro che chi in queste ore sostiene che sul Web non sia un illecito pubblicare sempre e comunque tutto quanto quello di cui si dispone commette un grosso errore.
Il filosofo inglese John Locke, lo ricorderete, ripeteva spesso che laddove non c’è legge non c’è libertà e in questo senso sostenere che Google sia giustificata a comportarsi come se fosse un postino – “che non può essere ritenuto responsabile del contenuto delle lettere” – è un modo molto ingenuo per nascondere il problema centrale di questa storia. Perché dire che un’azienda che vive grazie ai contenuti offerti dai propri utenti non ha il dovere di controllare le fonti che costituiscono il core business delle proprie attività è come dire che un editore non è responsabile dell’uso che i cronisti fanno delle proprie fonti giornalistiche. La favoletta dello spazio di Internet visto come un luogo neutro in cui, alleluia, si può fare finalmente ciò che si crede è un’arma a doppio taglio: chi dice borbottando che applicare il modello dell’editore al motore di ricerca sia una sciocchezza dovrebbe pensarci un po’ di più, perché, molto semplicemente, bisognerebbe ammettere che in alcuni casi il controllo preventivo dei contenuti sul Web non è sinonimo di censura ma è sinonimo di qualità e di decenza dell’informazione.
E’ vero che sono molti i lettori dei giornali che apprezzano i quotidiani che sbattono in pagina articoli spesso discutibili – che senza neppure avere la pretesa di essere notizie fanno anche più danni di un video con un bambino autistico malmenato dai compagni. Ma bisognerebbe forse ricordare che deresponsabilizzare significa anche giustificare la pubblicazione di tutto quello che ci passa tra le mani (ora un video orribile, ora una notizia falsa, ora un’intercettazione inutile), e in questo senso hanno probabilmente torto i legali di Google che sostengono che quello del tribunale è un “attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet”. La bellezza di Google, si sa, è quella di essere una sorta di Virgilio che ci accompagna ogni giorno nella profondità della rete e dovrebbe essere dunque normale allarmarsi nel momento in cui si scopre che la nostra guida anziché avere l’ambizione di essere un accompagnatore illuminato ama andare in giro mostrando con orgoglio il robusto strato di affettati ben distribuito sui propri occhi.
«Il Foglio» del 26 febbraio 2010

L’ateista Dawkins, da risorsa del mondo razionale a “deficiente assoluto”

Gli amari disinganni del libero Web
di Nicoletta Tiliacos
Star planetaria dell’ateismo militante e abituato alla venerazione da parte dei propri fan, il professor Richard Dawkins sta da qualche giorno sperimentando che effetto fa ruzzolare giù dall’Olimpo e ritrovarsi nel giro di poche ore additato al pubblico ludibrio come rappresentante del peggiore oscurantismo. Proprio lui, il principe dei “Brights”, l’illuminato tra gli illuminati e ultradarwinista (il suo ultimo libro, pubblicato in Italia da Mondadori, si intitola “Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione”).
Come è potuto accadere? Il Times racconta che il biologo inglese – fresco pensionato dall’insegnamento universitario e ormai dedito a tempo pieno alla crociata contro i credenti, ovunque essi si annidino (lui li chiama “ammalati di fede”) – ha annunciato qualche giorno fa di voler ristrutturare la sezione del suo sito web dedicata alla discussione. Si tratta di una semplice “riorganizzazione editoriale”, dovuta al fatto che, ha modestamente scritto Dawkins, “siamo diventati una delle principali risorse del mondo per quanto riguarda le notizie scientifiche e il pensiero razionale”. Circostanza che, si capisce, comporta non poche responsabilità, oltre alla necessità di limitare al minimo le chiacchiere a vuoto e i pettegolezzi senza costrutto. Così, tempo un mese, sul frequentatissimo sito RichardDawkins.net (“Un’oasi della chiarezza di pensiero”), splendidamente rinnovato, chiunque voglia aprire nuove discussioni dovrà assoggettarsi all’approvazione preventiva dei responsabili dei forum. Un sistema “più pulito e più facile da usare”, allo scopo di “promuovere una più ampia varietà di utenti”. I quali sono da ora in poi pregati di “presentare soltanto nuove discussioni che siano davvero rilevanti per la ragione e la scienza”.
Apriti cielo. Dopo l’annuncio di Dawkins il suo sito è stato subissato di post di migliaia di frequentatori anonimi, offesi e inviperiti, i quali accusano l’ormai ex idolo di voler conculcare la facoltà di esprimersi senza limiti sul Web, vale a dire il prototipo e la premessa di qualsiasi altra libertà contemporanea. In un messaggio intitolato “Outrage”, Dawkins si dichiara stupefatto dalla mole e dalla virulenza degli insulti che hanno provocato la chiusura anticipata dei forum in attesa di ristrutturazione. Motivo per cui un ex fedelissimo ha scritto di essersi sentito ferito e sfrattato, come “chi torna a casa e trova le serrature cambiate. Il mio rispetto per il lavoro di Richard è ancora intatto, ma il mio rispetto per lui come una persona è a brandelli”. Questo è niente. C’è chi ha dato a Dawkins del “deficiente assoluto”, chi l’ha chiamato “ano di un topo in suppurazione”, chi gli ha spiegato di ritenerlo degno di ricevere “una manciata di chiodi giù per la gola”. Insulti al vetriolo dettati da “isteria biliosa”, si lamenta Dawkins, per meritare i quali bisognerebbe almeno “aver mangiato un bambino”, o aver “gasato un convoglio di persone inermi”, o quantomeno aver “stuprato un chierichetto” o scippato una vecchina dopo averla spinta giù dalla carrozzella.
In un commento sul suo sito, Dawkins riflette sul fatto che “sicuramente ci deve essere qualcosa di sbagliato in persone che possono ricorrere a certi eccessi di linguaggio”, e che reagiscono in questo modo spettacolare “a qualcosa di così banale”, come l’annuncio di una normale ristrutturazione di un sito. Ma non ci sono i soliti mostri di intolleranza protetti dall’anonimato. Purtroppo, anche coloro che usano termini più moderati “stanno reagendo alle modifiche proposte in un modo a dir poco isterico”. La conclusione, per Dawkins, è che “c’è del marcio nella cultura dello sfogo su Internet”, e che se ci fosse ancora qualche dubbio sulla necessità di cambiare le regole del sito, per quanto lo riguarda quei dubbi “sono ormai dissipati”. Povero Dawkins: una vita spesa a spiegare l’uomo come frutto dell’evoluzione e poi, in mezza giornata, i frutti più maturi e consapevoli di quel processo, i suoi devoti adepti, gli si rivoltano tutti contro, feroci e irragionevoli come tirannosauri.
«Il Foglio» del 27 febbraio 2010

Miserie della scienza

La prima vittima del profetismo climatico è il principio di verità. Lo dice anche il prof. Cicerone
di Piero Vietti
Commentando l’ultimo sondaggio che in America dà sempre meno persone preoccupate per il riscaldamento globale causato dall’uomo, Ralph Cicerone, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze negli Stati Uniti, ha lamentato come la sempre più scarsa fiducia della gente nella climatologia si stia trasformando in sfiducia nella scienza in generale. Quando a novembre scoppiò il Climategate (la pubblicazione su Internet di e-mail in cui alcuni studiosi del clima si accordavano per truccare i dati delle temperature), ci fu chi scrisse che da quella storia non sarebbero usciti sconfitti né gli scettici né i catastrofisti, ma appunto la scienza tout court. Così è stato, complici anche alcune recenti gaffe quale l’errata previsione dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya fatta dagli scienziati dell’Onu (l’Ipcc).
Lunedì scorso il Financial Times riportava le dichiarazioni di Cicerone a pagina due, e domenica il Corriere della Sera metteva in prima un editoriale di Giulio Giorello che spiegava come gli allarmi “mandano in crisi la fiducia della gente” e che il clima è un sistema troppo complesso per vendere come certezze le previsioni fatte al computer: meno di un anno fa invece si leggeva che il discorso sul clima era chiuso e che gli scienziati erano concordi sul fatto che l’uomo provocasse il riscaldamento globale. “Che non ci fossero certezze lo sapevamo da tempo – dice al Foglio Luigi Mariani, professore di Agrometeorologia all’Università di Milano – Quelle scientifiche sono verità provvisorie, troppo spesso ce lo dimentichiamo: la scienza dovrebbe essere confronto continuo con la realtà. Per questo diffido sia di chi mi dice che tra cento anni farà caldissimo sia di chi mi assicura che tra trenta comincerà l’era glaciale”.
Punita per la sua hybris, la climatologia moderna come una Cassandra all’incontrario fa i conti con previsioni che non si avverano e temperature che non aumentano da un decennio. I dogmi scientifici resi celluloide da Al Gore non hanno retto: il Polo Nord è ancora lì, l’Antartide cresce, in buona parte del mondo fa molto freddo. Assuefatta agli allarmi, l’opinione pubblica si è destata dal torpore mediatico tutto d’un colpo e la politica ha abbandonato il carro del global warming. Giovedì scorso si è dimesso Yvo De Boer, eminenza grigia dell’Onu per le questioni climatiche e padrone di casa durante il fallimento della conferenza di Copenaghen; il direttore dell’Ipcc è a rischio dimissioni e molti chiedono di ristrutturare questo organismo: “Forse bisognerebbe abolirlo – dice Guido Guidi, meteorologo e autore del blog Climate Monitor – non servono organismi burocratici e politici che raccolgano e guidino gli scienziati”. Basterebbe che la scienza ricominciasse a fare la scienza per tornare a essere credibile.
«Il Foglio» del 27 febbraio 2010

Se un esorcista in Vaticano scopre di avere molto da fare

Escono le “memorie” di padre Gabriele Amorth. Storie curiose e un monito alla chiesa che non crede più a Satana
di Paolo Rodari
Satanisti in Vaticano? “Sì, anche in Vaticano ci sono membri di sètte sataniche”. E chi vi è coinvolto? Si tratta di preti o di semplici laici? “Ci sono preti, monsignori e anche cardinali!”. Mi perdoni, don Gabriele, ma Lei come lo sa? “Lo so dalle persone che me l’hanno potuto riferire perché hanno avuto modo di saperlo direttamente. Ed è una cosa ‘confessata’ più volte dal demonio stesso sotto obbedienza durante gli esorcismi”. Il Papa ne è informato? “Certo che ne è stato informato! Ma fa quello che può. E’ una cosa agghiacciante. Tenga presente poi che Benedetto XVI è un Papa tedesco, viene da una nazione decisamente avversa a queste cose. In Germania infatti praticamente non ci sono esorcisti, eppure il Papa ci crede: ho avuto occasione di parlare con lui tre volte, quando ancora era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Altroché se ci crede! E ne ha parlato esplicitamente in pubblico parecchie volte. Ci ha ricevuto, come associazione di esorcisti, ha fatto anche un bel discorso, incoraggiandoci e elogiando il nostro apostolato. E non dimentichiamo che del diavolo e dell’esorcismo moltissimo ne ha parlato anche Giovanni Paolo II”. Allora è vero quello che diceva Paolo VI: che il fumo di Satana è entrato nella chiesa? “E’ vero, purtroppo, perché anche nella chiesa ci sono adepti alle sètte sataniche. Questo particolare del ‘fumo di Satana’ lo riferì Paolo VI il 29 giugno 1972. Poi, siccome questa frase ha creato uno scandalo enorme, il 15 novembre dello stesso 1972 ha dedicato tutto un discorso del mercoledì al demonio, con frasi fortissime. Certo, ha rotto il ghiaccio, sollevando un velo di silenzio e censura che durava da troppo tempo, però non ha avuto conseguenze pratiche. Ci voleva uno come me, che non valeva niente, per spargere l’allarme, per ottenere conseguenze pratiche”.
Padre Gabriele Amorth è oggi uno dei più grandi esorcisti a livello internazionale. Svolge il proprio incarico nella città di Roma. Nelle sue memorie raccolte da Marco Tosatti in “Padre Amorth. Memorie di un esorcista. La mia vita in lotta contro Satana” (Piemme) è anzitutto una denuncia alla chiesa che intende fare. Alla chiesa e ai suoi vescovi: “Abbiamo moltissimi preti e molti vescovi che purtroppo non credono a Satana”, dice. E ancora: “Ci sono nazioni intere senza esorcisti: la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Spagna, il Portogallo… Molti vescovi non credono nel demonio e arrivano addirittura a dire in pubblico: l’inferno non esiste, il demonio non esiste. Eppure Gesù nel Vangelo ne parla abbondantemente per cui verrebbe da dirsi, o non hanno mai letto il Vangelo o non ci credono proprio!”.
Molti vescovi non credono nel demonio, dunque. E, infatti, la battaglia di padre Amorth è su due fronti: contro l’avversario di sempre e contro il silenzio o l’incredulità della chiesa: “Il codice di diritto canonico dice che gli esorcisti dovrebbero essere scelti fra il fior fiore del clero”, spiega. E, invece, non avviene così. Spesso i migliori sacerdoti sono destinati dai vescovi ad altri incarichi. E quei pochi esorcisti che ci sono hanno poca esperienza. Dovrebbe essere l’opposto. Per tutti dovrebbe verificarsi quanto capitò a don Amorth: il cardinale Ugo Poletti lo affiancò a padre Candido Amantini che da quaranta anni era esorcista alla Scala Santa. Dice don Amorth: “Devo a lui tutto quello che so”. Racconta ancora don Amorth: “Ci sono vari episodi che mi raccontava padre Candido. Un giorno un sacerdote gli disse chiaramente che non credeva a nulla di tutto questo: demonio, esorcismi e così via. Padre Candido replicò: venga una volta ad assistere. Padre Candido raccontò che questo sacerdote stava con le mani in tasca, in piedi; alla Scala Santa gli esorcismi li fanno in sacrestia, e lui stava lì, con un’aria quasi di disprezzo. A un certo punto il demonio si è rivolto a lui e gli ha detto: tu non credi a me ma alle femmine ci credi, eccome se ci credi nelle femmine. Il sacerdote, camminando all’indietro, tutto vergognoso, ha raggiunto la porta ed è filato via”.
Don Amorth riceve nel suo studio centinaia di persone all’anno. Di queste soltanto poche sono davvero possedute. La maggior parte ha semplicemente gravi problemi psichici e psichiatrici. Ma i posseduti ci sono. Si presentano da don Amorth per essere liberati. Lo fanno spontaneamente seppure la “presenza” che si è impossessata del loro corpo faccia di tutto perché gli esorcismi non abbiano effetto. Come avviene la possessione? La maggior parte della gente rimane posseduta dopo aver partecipato a messe nere o a riti satanici. Dice don Amorth: “La principale caratteristica delle messe nere è che c’è il disprezzo dell’eucaristia. Nella vera messa nera c’è una donna nuda che fa da altare, e che dovrebbe essere vergine, e viene violentata da quello che fa da sacerdote e poi da tutti gli altri, dopodiché fra di loro succede di tutto. Ossia diventa un vero bordello. Per cui molti alla messa nera ci vanno per il ‘dopo’, per il bordello”.
Don Amorth ha un metodo – che a volte riesce altre no – per riconoscere se una persona è davvero posseduta: l’acqua benedetta. Ne parla raccontando di una donna che gli chiese di essere esorcizzata. Don Amorth non sapeva se si trattava davvero di una possessione. Così preparò sul tavolo due bicchieri, uno con acqua comune e uno con acqua benedetta: “Le offersi da bere l’acqua comune; mi ringraziò e bevve. Alcuni minuti dopo le porsi l’altro bicchiere, con l’acqua benedetta. La bevve, ma questa volta il suo aspetto cambiò di colpo: da bimba impaurita a persona in collera. Scandendo le parole con timbro di voce basso e forte, come se un uomo parlasse dentro di lei, mi disse: ‘Ti credi furbo, prete!’. Ebbe così inizio la preghiera di esorcismo e solo un’ora dopo, compiuto il rito, avvenne la liberazione in chiesa”.
«Il Foglio» del 28 febbraio 2010

Così Stalin creò un’Urss da parata

Un saggio indaga la «cultura visuale» del socialismo reale che, non riuscendo a cambiare la realtà, stravolgeva le immagini da offrire al mondo
di Luca Gallesi
Parlare oggi di 'stalinismo' fa pensare a qualcosa di irrimediabilmente vecchio, un lontano reperto del Novecento da relegare per alcuni nell’armadio dei ricordi e da tirar fuori, per altri, da quello degli scheletri.
Giovannino Guareschi, che con Peppone ha creato il più azzeccato archetipo dello stalinista nostrano, ha messo in bocca a uno dei suoi personaggi una battuta che sintetizza il culto di Stalin diffuso tra i comunisti negli anni Cinquanta: «La sola differenza – disse lo Smilzo – è che, mentre il vostro Dio nessuno la ha mai visto, Stalin lo si può vedere e toccare. E se anche io non l’ho visto e toccato si può vedere quello che Stalin ha creato: il Comunismo!». A Stalin, e al comunismo sovietico della sua epoca, ha dedicato un bel volume Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa all’Università degli studi di Milano, autore di Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana , un saggio che analizza in modo particolare la percezione visiva durante il periodo del socialismo reale. Ogni mezzo di comunicazione di massa disponibile è infatti utilizzato dal regime per convogliare il messaggio, indiscusso e indiscutibile, che «la vita sovietica è bella». E, dato che trasformare la realtà non è così facile, il comunismo staliniano si è dato da fare per modificare l’apparenza.
Via, quindi, tutte le Avanguardie che, dal cinema alle arti figurative, avevano partecipato in buona fede alla Rivoluzione, descrivendone speranze e paure nelle loro opere.
Per esempio, la censura relega tra gli archivi dell’Ufficio politico un numero impressionante di film, impedendone la circolazione. Non è permesso nessun dubbio, né viene accettata la descrizione della vita com’era realmente: soltanto un vuoto e superficiale trionfalismo è ammesso e, anzi, incoraggiato, tanto nelle opere d’arte che nel cinema, dalla letteratura all’architettura, fino a quei mezzi di comunicazione popolari come i manifesti, le confezioni di prodotti di largo consumo e persino le scatole di fiammiferi, su cui vengono riprodotte immagini propagandistiche. «Vedere, obbedire e combattere» sembra essere lo slogan di un regime pervasivo e onnipresente che dal dinamismo rivoluzionario di Lenin è passato alla ieraticità statica di Stalin. La Piazza Rossa diventa uno spazio sacro, dove il Capo si manifesta nelle rare occasioni ufficiali, pronto a ricevere l’omaggio delle folle disciplinate che gli rimandano l’immagine di se stesso riflessa nelle statue e nei ritratti che affollano le parate. Il suo sguardo ribadisce la superiorità e l’eccellenza che lo caratterizzano, soddisfacendo così quella caratteristica dell’animo russo descritta da Piretto come proverbiale rassegnazione e storica pazienza con cui prima i sudditi dello zar, poi i cittadini sovietici, accettavano vessazioni e tormenti senza protestare. Le cose, oggi, sono cambiate? Una risposta forse ce la dà un servizio televisivo della parata commemorativa del sessantesimo anniversario della vittoria, trasmesso nel 2005 dal Tg3 Rai.
Dopo il filmato ufficiale della parata militare, a metà tra la sfilata in costume e l’operetta, il servizio ci mostrava una manifestazione non autorizzata: sulla piazza della stazione di Bielorussia uno sparuto gruppetto di veterani fronteggiato da poliziotti antisommossa inneggiava a Stalin intonando cori nostalgici. Un accostamento di immagini egualmente false e superficiali, almeno nel confronto con la realtà. Tutto cambia, perché nulla cambi, insomma, nel trionfo dell’apparenza e nell’indifferenza alla verità.
Gian Piero Piretto, Gli occhi di Stalin, La cultura visuale sovietica nell’era staliniana, Cortina, pp. 248, € 22,00
«Avvenire» del 27 febbraio 2010

L'ingiusto oblio di Luzi, maestro di vita e di versi

di Davide Rondoni
Ci sono mancanze che non sono solo mancanza. Ma anche crescita, prodigiosa e strana, di una presenza. Un vuoto colmo, un’ombra che suggerisce. Un attore che è temporaneamente dietro le quinte ma occupa ancora la scena. Accade così per i padri, e per i veri pochi maestri. Per i veri autori, coloro che aumentano (augeo) la vita che hai avuto e hai. Mario Luzi ci manca da cinque anni. E ci cresce dentro e intorno. Con lui il mio rapporto fu serio e lungo, discussivo e allegro. Molti non si sarebbero arrischiati lungo i sentieri umili e alti della poesia, se non avessero avuto Mario davanti, di fianco.
Con altri poeti lo «inseguiremo» a Firenze, stasera, leggendo alla biblioteca delle Oblate, e domani con una messa a San Miniato al Monte. E domani pomeriggio a Bologna, alla Fondazione Identes, leggendo.
Sì, lo inseguiremo, come una lepre nel folto, che ci invita e sfugge. Ci manca e ci chiama, Luzi. Una presenza moltiplicata.
Una giovane brava poetessa, Sara Tardino, mi diceva qualche giorno fa che quando uscì il suo primo libro, aprendo il pacchetto che veniva dall’editore, il suo pensiero fu: e adesso che non c’è più Luzi a chi lo mando? Tale era la capacità di ascolto di Luzi rispetto alle voci meno banali che venivano dai più giovani. Non si trattava solo di generosità. C’era una capacità di ascolto nella persona di Luzi che corrisponde a quella che esiste nella sua opera: ascolto del mondo, del farsi del vivente, del misterioso evento. Un atteggiamento positivo di ascolto, mai ritirato nel cinismo tipico dell’intellettuale attempato, o del saggio inasprito. Un uomo non risentito, una rarità. Una stella. E ovunque vado, in questo inquieto circo e girovagare che taluni poeti fanno per ogni borgo d’Italia, trovo tracce del suo passaggio, del suo mite insegnamento, della sua amicizia. Luzi continua a essere una lama piantata nella cultura italiana. In quella ufficiale, che pur lo celebrò anche ipocritamente negli estremi suoi giorni, facendone icona per motivi politici dopo che lo avevano occultato sistematicamente per anni. (E tu Toscana, sua dolce e dura toscana, trova il modo di onorarlo e indicarlo. Almeno a Roma è nato un bel premio di poesia. Ma a Firenze?). Luzi è una lama che ha tagliato i pregiudizi e le sentenze di «morte» celebrate più volte sulla di lui poesia da intellettuali arroganti di ideologia. Una lama come una inquietudine in ogni pensiero pacificato, in ogni pensiero senza più domande. In ogni fede senza sospiro di conoscenza, e in ogni socialità sclerotizzata e crassa. Ora col tempo, e con la sorpresa di talune sue postume prove, si verifica come la sua lingua permanga e cresca. Il lavoro infinito che ha fatto sull’antico e sul contemporaneo della poesia e della nostra lingua fa parte del nostro tesoro. Luzi ha perseguito la naturalezza della poesia, l’emergere della voce umana come rilievo all’avvenimento della vita. Ha scrutato nei grandi del passato e nei giovani che venivano dopo di lui questo tesoro umile e grandioso. Tesoro che saremmo disgraziati a dissipare. Che saremmo codardi a non offrire. Dopo cinque anni, la forza della sua presenza continua a lavorare e ad essere irriducibile a pochi tratti fissati, partecipando al misterioso evolversi. «Cantami qualcosa pari alla vita», ha scritto. E ha fatto. Per questo dopo cinque anni non celebriamo la memoria della sua morte, ma ancora ne inseguiamo la presenza nel folto degli anni e delle voci.
«Avvenire» del 27 febbraio 2010

Tiro al Down: ecco un “effetto 194”

di Pier Giorgio Liverani
È stata ge­nerale la indigna­zione della stampa per la costituzione, su Facebook, di un gruppo (1.700 aderenti) che promuoveva il tirassegno sui bambini con sindrome di Down («Eliminiamoli, sono parassiti»). Quel sito è stato oscurato d’autorità per «istigazione a delinquere», ma un solo giornale – Il Foglio, con le cinque righe di un lettore – ha però accennato alla motivazione di quella trovata incredibile: la legalizzazione dell’aborto. La legge 194, infatti, ha suggerito la sindrome di Down come uno dei casi, che si potrebbero definire 'classici', di aborto. Questo, afferma l’articolo 4, è consentito in caso di «previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». E Avvenire ha già documentato (martedì 23) «la strage silenziosa» dei bambini Down, il pauroso incremento delle diagnosi prenatali (più 71 per cento) e il conseguente calo (dal 2 allo 0,5 per cento, non per merito, ma per colpa della medicina) delle nascite di questi piccoli particolarmente amati dal Signore.
La deduzione dei bulli di Facebook è stata logica e prevedibile: se, per legge, è un diritto far morire, con l’aiuto dello Stato e soltanto perché Down, questi bambini ancora nel ventre materno, perché non dovrebbe esserlo prendere i sopravvissuti come bersaglio di un tirassegno on line, in rete? Al solito, però, l’ipocrita buonismo del fronte abortista si preoccupa che non nasca neppure il sospetto che il tirassegno sia uno degli 'effetti 194'.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

Dagli epicurei a Voltaire: l'inutile sforzo della virtù

di Carlo Carena
Le meditazioni dell’uomo sul suo destino e sull’ignoto che si nasconde nel tempo innanzi a lui sono logicamente tra le più gravi e conturbanti per loro implicazioni esistenziali, morali e anche sociali; nessuna persona pensante vi sfugge, tanto meno i filosofi con diverse passioni e avvolti in contraddizioni da cui essi stessi non sanno districarsi. Solo un imbecille può dire: « Il medico ha salvato mia zia e le ha allungato la vita di dieci anni: macché, non ha fatto che eseguire ciò che doveva comunque accadere, mia zia doveva ammalarsi e il medico non poteva non prescrivere le medicine che l’avrebbero guarita » – argomenta Voltaire. Le varie teorie che si affrontano sono già presentate nel De fato di Cicerone, un’ardua opera perché arduo appunto è il problema e perché ci è giunta essa stessa gravemente mutila. I due estremi opposti sono incarnati negli stoici e negli epicurei. I primi affrontano titanicamente il fato inesorabile, la stessa intelligenza divina che governa tutto; gemono sotto la sua volontà con la gloria di esserne coscienti e il vanto di saperlo affrontare. Gli altri neppure si occupano del domani, che è oscuro e in grembo a Giove e la cui inutile preoccupazione ci fa perdere l’oggi: non cercar di sapere… ci consiglia l’indolente e fatalista Orazio.
Ma il problema, almeno, si trova centrato assai bene in Alessandro di Afrodisia, il famoso commentatore di Aristotele del III secolo d. C., nel suo trattato dedicato all’argomento e riportato anch’esso in traduzione in un recente volume di Aldo Magris, Trattati antichi sul destino (Morcelliana). Se tutto avviene secondo qualcosa di prefissato e di inevitabile e noi non siamo padroni di nulla bensì sempre succubi delle circostanze e costretti a fare ciò che siamo comunque costretti a subire, « tanti saluti a ciò che comporta fatica e ponderazione » : saremmo come una pietra che necessariamente cade in basso o come un cilindro che rotola su un piano inclinato; ci si abbandonerebbe con estrema facilità alle cose più piacevoli e non si farebbe mai nulla di buono, che costa fatica; faremmo anche noi come coloro che dicono, nelle parole che san Paolo riprende da Isaia: manducemus et bibamus, cras enim moriemur; ne sarebbe sovvertita l’intera esistenza umana e la convivenza civile, l’uomo sarebbe « il più maltrattato degli esseri viventi prodotti dalla natura » . Voltaire è servito in anticipo.
Il Del destino di Alessandro si presenta così come « il più ampio e articolato manifesto antedeterministico dell’antichità » , da cui esce tutelata e innalzata la dignità della persona umana.
Filosoficamente e tecnicamente serrato, condotto sulla scia aristotelica, il testo si presenta anche con profonde e vere osservazioni psicologiche più utili alla fine su questa materia di molte sottili disquisizioni e rompicapi. Conosce la fragilità del nostro pensiero. Anche su un problema così grave siamo soggetti alle oscillazioni degli umori e delle vicende, delle passioni e delle esperienze. I vari casi della vita ci rendono ottimisti o pessimisti anche nelle nostre opinioni, ci fanno pensare che siamo agenti liberi e lieti ovvero tristi vittime di una causalità inesorabile, nelle avversità accusiamo la fortuna, nei successi ci complimentiamo per la nostra bravura. Altro dobbiamo fare, è il precetto dell’antico filosofo: aderire a una dottrina che ci induce a rendere il dovuto culto agli dèi ringraziandoli per quanto abbiamo ricevuto da loro e chiedendo loro quanto sono comunque padroni di concederci o no: « Coscienti di essere responsabili di quanto accade di meglio o di peggio, ci preoccuperemo della virtù».
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

Luzi: i poeti contro il potere

Superare un ripiegamento intimista e una protesta anti-moderna che hanno permesso sì la nascita di capolavori, ma sono serviti anche da alibi per evitare un confronto arduo con la società contemporanea. Un inedito del grande poeta fiorentino a 5 anni dalla morte
di Mario Luzi
Sarà opportuno ripercorrere con grande velocità sintetica il cammino della poesia moderna – perché è da qui che bisogna partire se vogliamo mantenerci nel concreto di un’esperienza – e ricordare quando è cominciata la separazione, quando è cominciato il divorzio tra la poesia, il poeta e la società. Perché questa separazione c’è stata e in un certo modo c’è ancora, sebbene credo le cose stiano attualmente modificandosi. E proprio dal vivo di questa modificazione in corso penso sia legittimo ripensare agli anni passati, alla condizione del poeta nella società moderna, e trarre qualche indicazione e forse qualche lucidità supplettiva a precisare che cosa siamo oggi, cosa è oggi il rapporto dell’uomo che vive la vita quotidiana con tutto o con l’aspirazione al tutto, con l’Assoluto a cui inconsciamente o consapevolmente tutti, più o meno, tendono.
Dobbiamo dunque ricordare quando la storia dell’uomo ha preso questa piega e si è inoltrata per i viottoli e i sentieri della pura economicità; facendosi depotenziare e spogliare di tante possibilità in nome del profitto, in nome della produzione, in nome dell’organizzazione del lavoro che è stata elevata a criterio dominante. Subito la poesia non poté non reagire e non registrare il colpo di questa modificazione che si stava operando. Questo già in piena fioritura borghese, per esempio nella Germania della fine del Settecento, quando questa inclinazione della civiltà andava manifestandosi.
Nell’euforia della fioritura si ebbero delle contestazioni profonde, delle dissociazioni totali dalla società contemporanea e sono proprio questi gli autori a cui bisogna risalire per avere il senso della Modernità, di che cosa essa è veramente nella letteratura e nel pensiero. Dicendo questo alludo a Hölderlin e Novalis, che già si resero conto, con strumenti analitici diversi dai nostri, di ciò che si stava preparando. Naturalmente queste dissociazioni dalla legge sociale presente portarono a conseguenze disparate, a volte traumatiche. Voi sapete quale sia stato il destino personale di Hölderlin, mentre la sua poesia inaugurava una grande epoca, epoca però di dolore e separazione.
Questo divorzio della poesia dalla società è stato visto soprattutto al negativo, come 'dissenso' dalla ragione prevalente nella polis già violenta, creata appunto dalla borghesia nel suo periodo trionfale. La città della convivenza coatta di cui ci parla già Baudelaire è stata vista sotto questo aspetto come opposizione al potere alienante della società e delle leggi che la dominano, leggi della produzione e del profitto, visti come numi astratti, quindi città già tendenzialmente disumana. Questo divorzio è stato visto come rivolta, come dissacrazione del mito fasullo e tragico dell’egemonia economica su tutto il resto.
Certo, queste cose nella poesia moderna ci sono, questa opposizione di fondo in nome dell’uomo contro il pericolo della disumanizzazione incipiente, allora non vistosa come adesso, è un po’, in fondo, alla base di quello che si chiamava la 'maledizione' dei poeti maudits e dei loro antenati cui abbiamo già accennato. Di questi (mi riferisco a Hölderlin e Novalis) si è molto parlato, si è molto insistito su questo lato 'contestativo', sacrosantamente contestativo, di questo servizio all’uomo che la poesia ha fatto, a cominciare dalla prima presa di consapevolezza e coscienza dello Stato, della città moderna. Ma questo innegabile movimento centrifugo dal potere, che in altre epoche e circostanze sociali aveva delegato i poeti a celebrare i fasti, questo movimento di dissociazione, così diverso dal momento dell’investitura data al poeta nel nome dello Stato – pensate al tempo della signoria agli Estensi, che avevano il loro Tasso, il loro Ariosto come esponenti pubblici della loro civiltà e perfino della loro ragione politica – ha anche un risvolto che è molto meno considerato. Questa fuga della poesia, questa sua autoesclusione dalla città e dalle sue leggi, dalle sue imposizioni, è anche il suo ritiro sulla montagna; è anche occasione – forzata, se volete – ma necessaria, di un ripensamento sulla poesia stessa, sulle sue ragioni, la sua natura, il suo linguaggio.

Ci sono dei grandi martyres, testimoni di questo periodo della separazione, della dissociazione, dello scandalo.
Sono coloro che punteggiano come pietre miliari il cammino della poesia moderna, a cominciare da Hölderlin, Leopardi, Baudelaire, per continuare con Mallarmé, Rimbaud e arrivare a Rebora, che mi pare un’indicazione esemplare di questo conflitto: incompatibilità tra la società moderna e le pretese giuste della poesia. Considerando queste vite e questi destini di poeti e considerando il senso profondo della loro opera, noi arriviamo a percepire simultaneamente l’ultima sostanza della condizione poetica, quindi quello che la poesia, per restare fedele a se stessa, ha il diritto di pretendere, quello che ha l’ambizione di raggiungere e l’impossibilità di vedere raggiungibile nel mondo già disumanizzato. Quindi, nello stesso tempo, si alzava moltissimo la mira della poesia, nella sua solitudine del ritiro sulla montagna. Nello stesso tempo si esacerbava la critica alla società contemporanea che rendeva impossibili queste ambizioni, queste mire che non erano egoistiche certo, ma delle conquiste prospettate per l’umanità, delle aperture sulla conoscenza ulteriore rispetto alla tradizione e alla cultura. Tutto ciò che abbiamo continuato a chiedere alla poesia è di non venir meno e di realizzare il nostro destino.
Veniamo da una devastazione che è il luogo della nostra segregazione. Tutti, insomma, scendiamo dalla montagna dove si è compiuta forse una umana reintegrazione di forze e dove in qualche forma il Signore della Creazione e della continuità della vita ha parlato, si è fatto riconoscere in questa solitudine che il poeta moderno ha dovuto vivere. E a me sembra che ora si possa dire che in questa stagione un trasporto nuovo verso gli uomini accenda il discorso dei poeti che sarebbe assurdo mantenere introflesso e riottoso per abitudine e tradizione – sia pure per abitudine e tradizione sublimemente motivate. Tutti gli istituti e i poteri che si opponevano alla familiarità e alla fraternizzazione sono crollati; nemici visibili e dichiarati della parola non ce ne sono, mentre c’è un invisibile, imprendibile avversario che corrompe le parole, moltiplicandole, svuotandole di senso e di peso. È una violenza anche questa, 'l’abuso' della parola, che è anch’essa un modo di tacere e di tacitare. Si può tacere rifiutandosi di parlare, ma si può tacere anche parlando a sproposito, violando il linguaggio con la reiterazione e le proliferazione insensata che tutti i giorni noi sperimentiamo sulla nostra pazienza. Questo avversario invisibile 'corrompe' anche l’uomo sostituendosi alla sua volontà, alla sua libera volontà, subdolamente.
L’uomo della città, l’uomo a cui si possano inoculare e desideri e pensieri e soluzione dei pensieri e bisogni fasulli e modi fasulli di soddisfare questi bisogni, è un uomo eterodiretto, che è un pericolo molto grave.
La poesia sente questo ancora di più, sente che si svolge non tra avversari reali e riconoscibili, ma tutti sono vittime di questo. Per cui quegli istituti pubblici o illustri contro i quali si era ritirata – potremmo dire così – nel suo Aventino o sulla montagna, ecco ora non ci sono più; c’è questa generale sofferenza e questa situazione caotica attraverso la quale noi cerchiamo di percorrere il nostro itinerario – più in balia delle onde mosse da cause a noi sfuggenti e da queste forze insinuanti e subdole che la sommuovono, che dalla nostra coscienza, dalla nostra volontà.
Allora, in questo generale bisogno di ricomposizione, di ricongiunzione fraterna che questo caos contemporaneo ci impone, noi arriviamo, forse un po’ fortificati e consci, divenuti noi stessi per il fatto che pensiamo attraverso la parola, che è lo strumento che distingue l’uomo, quindi l’umano per eccellenza. Divenuti noi stessi emblemi di qualche principio fino ad ora non riconosciuto – oppure non abbastanza riconosciuto. Ne sottolineo due che mi sembra opportuno richiamare: 1) Per amare il mondo bisogna anche sapersene separare. Per questo si parla di un ritiro sulla montagna, che è durato tanto ed era una situazione di sofferenza, un modo di reintegrazione dell’umano, delle proprie visioni ritrovate nella solitudine, tramite il quale è stato possibile riaccendere un amore per il mondo, in virtù di un riacquisto di forza, di volontà, di parola.
2) Il secondo è molto affine al primo. Per catturare la vita, per esprimerla, per comunicarla bisogna morire al mondo, alla vita, per accendere l’immagine viva e valorizzarla, così come dice l’autore del bellissimo studio Mysterium mortis (uscito da Queriniana una ventina di anni fa), Ladislaus Boros, proprio esemplificando il suo discorso con lo studio della poesia, del poeta. Per cui il poeta esemplare in questo senso era Hölderlin, che poi diventerà il poeta per eccellenza, alla fonte di tante speculazioni filosofiche e della filosofia moderna. Di Hölderlin parleranno Heidegger, anche teologi come Bonhoeffer. La poesia diventa un po’ l’esempio vivente di questo profondo sacrificio che impone al poeta di rinunciare a vivere per vivere di più, comunicare di più la vita. C’è qui una specie di mistero, anche un po’ cristico, che la teologia moderna ha riscoperto.
Il poeta dell’Ottocento, il grande poeta della separazione, della dissociazione ha vissuto come frustrato il suo disinganno filosofico, ha avuto come un contraccolpo dalla constatazione che il suo sogno, la sua aspirazione ad un’armonia, ad una totalità di conoscenza era respinto dall’epoca. C’è una pretesa, forse un po’ luciferina, di chiudere il mondo così ostico, in una formula, in una Weltanschauung preliminare che in fondo è già un giudizio negativo sul mondo, di inconciliabilità e di condanna.
Questo fatto è comune ai grandi poeti che abbiamo nominato prima, soprattutto Leopardi, Baudelaire, eccetera. Questa ambizione a prefigurarsi il mondo e a chiuderlo in un giudizio di valore preliminarmente, pregiudizialmente, non si addice più alle generazioni cresciute nell’esperienza del XX secolo, che ha fatto, volente o nolente, l’esperienza dell’esilio dal mondo, talora non solo metaforico. Tutti quelli che hanno fatto l’esperienza dell’esilio e della segregazione hanno ritrovato, o sono stati favoriti nel ritrovare, dopo tanta degenerazione e rifiuto, l’amore, la charitas che poi sarebbe connaturale ab initio col poetare, perché non si dà la parola, l’uso di questa senza amore, senza la generosità di un’offerta che è essa stessa amore.

La poesia, come ogni altra attività del conoscere, come la fede stessa, oggi non sarebbe contenta di sé, se parlasse al cospetto del mondo da un punto convenuto di sicurezza e non dall’interno della realtà, nel suo stesso sfacimento, delle contraddizioni medesime in cui il presente consiste, prima di essere formalizzato come passato. È dunque all’interno del patema, dell’agonia, della malattia, avendole dentro di sé, fatte proprie. Siamo dentro la procella e cerchiamo di attraversarla, guidati da una luce che continuamente rischiamo si offuschi, ma sappiamo che proprio la speranza di ritrovarla sempre più intensa o totale è il senso stesso del viaggio. E questo è appunto il combattimento dell’uomo, questa la sua agonia che ne giustifica e ne onora la presenza nel creato che lo comprende. A mano a mano che il culmine delle cognizioni si accresce, che l’errore trova una provvisoria correzione, nello stesso tempo la quantità del non-sapere si moltiplica; il sapere avanza e procede insieme con il non sapere. La parola mistero che fu irrisa dai positivisti, oggi è considerata plausibile anche dagli scienziati. E noi sappiamo che c’è un mistero che non è soltanto il contrario della conoscenza: l’uomo che esce da tante disfatte della 'ragione razionalista' – la ragione è un grande attributo dell’uomo, però l’uso parziale e funzionale di essa ha tradito probabilmente questa virtù – si dispone a pensare che c’è un conoscere misterioso e cioè che il conoscere è più vasto degli strumenti approntati dalla aridità funzionale a questo scopo. C’è un mistero che è conoscenza, c’è una conoscenza per mistero; il mistero è un modo di apprendere a cui l’uomo è chiamato non per rassegnazione o per diminuzione di intelligenza, ma per un salto nella procedura del conoscere pari all’incomprensibilità dell’oggetto, riguardo alla norma che la ragione si è data finora.
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È una violenza anche questa: l’abuso della parola.
Si può tacere rifiutandosi di parlare, ma si può tacere anche parlando a sproposito, violando il linguaggio con la reiterazione e la proliferazione insensata che tutti i giorni sperimentiamo. Questo avversario invisibile corrompe l’uomo sostituendosi alla sua volontà, alla sua libera volontà, subdolamente
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Nato a Firenze nel 1914, Mario Luzi vive i primi anni a Siena e compie gli studi universitari a Firenze, laureandosi in letteratura francese. Collabora a riviste d’avanguardia come Il Frontespizio , Campo di Marte , Paragone . Nel 1938 inizia l’insegnamento alle scuole superiori, che lo porterà a Parma, a San Miniato e infine a Roma dove lavorerà alla Sovrintendenza bibliografica. Nel 1955 gli viene assegnata la cattedra di letteratura francese alla facoltà di Scienze politiche di Firenze. Nel 1978, gli viene assegnato il Premio Viareggio. Il 14 ottobre 2004, in occasione del suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita. Muore a Firenze il 28 febbraio 2005, lasciando dietro di sé un’opera poetica fra le più importanti del ’900 non solo italiano.
Tra i titoli della sua produzione lirica: La barca (1935), Avvento notturno (1940), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Il gusto della vita (1960), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994).
Pubblichiamo qui il testo inedito di un intervento tenuto il 25 gennaio del 1990 al Centro culturale di Milano sul tema «Uomo e destino: il viaggio di una generazione».
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

Contro i critici. La ribellione silenziosa dei lettori

Per l’antropologo e gesuita «la modernità riserva a nuovi 'chierici' il diritto di fissare il 'giusto' senso di un testo: un monopolio che in pubblico nessuno contesta. Però in privato si riafferma l’inventiva
di Michel de Certeau
La lettura non è che un aspetto parziale, ma fondamentale del consumo. In una società sempre più scritta, organizzata attraverso il potere di modificare le cose e di riformare le strutture a partire da modelli scritturali (scientifici, economici, politici), tramutati poco a poco in « testi » combinati (amministrativi, urbanistici, industriali eccetera), si può spesso sostituire al binomio produzione­consumo il suo equivalente e rivelatore generale, ovvero il binomio scrittura­lettura. Il potere che ha instaurato la volontà ( di volta in volta riformista, scientifica, rivoluzionaria o pedagogica) di rifare la storia, grazie a operazioni scritturali effettuate innanzitutto in campi chiusi, ha del resto per corollario una grande divisione fra leggere e scrivere. « La modernizzazione, la modernità, è la scrittura » , dice François Furet. La generalizzazione della scrittura ha in effetti provocato la sostituzione con la legge astratta, quella dello Stato, delle autorità tradizionali e la disgregazione del gruppo a vantaggio dell’individuo. Ma questa trasformazione è stata effettuata attraverso una ' commistione' fra due elementi distinti, lo scritto e l’orale. Solo la scuola ha congiunto, ma attraverso un sistema rimasto molto spesso fragile, le due capacità di leggere e di scrivere. In effetti queste sono state a lungo separate nel passato, fino al XIX secolo inoltrato; e oggi, nella vita adulta delle persone scolarizzate si verifica ben presto, in molti casi, una dissociazione fra scrivere e 'leggere soltanto'; da cui la necessità di interrogarsi sui percorsi propri della letteratura dove essa si sposa con la scrittura. Ciò che va rimesso in discussione è l’assimilazione della lettura alla passività. In effetti, leggere significa peregrinare in un sistema imposto (quello del testo), analogo all’organizzazione fisica di una città o di un supermercato. Ma è stato dimostrato che «qualsiasi lettura modifica il suo oggetto» , che (come già diceva Borges) «una letteratura differisce da un’altra meno per i suoi testi che per i modi in cui vengono letti» , e che infine un sistema di segni verbali o iconici è una riserva di forme che attendono dal lettore il loro senso. Se dunque « il libro è un effetto ( una costruzione) del lettore» , l’operazione compiuta da quest’ultimo dev’essere concepita come una sorta di lectio, ovvero come una produzione propria del ' lettore'. Questi non sostituisce l’autore né prende il suo posto. Inventa attraverso i testi cose diverse dalla loro ' intenzione' iniziale.
Li stacca dalla loro origine (perduta o secondaria). Ne combina i frammenti e introduce un insaputo nello spazio che essi consentono di creare grazie alla loro pluralità indefinita di significati. Questa attività di ' lettura' è riservata ai critici letterari (sempre privilegiati attraverso gli studi sulla lettura), ovvero a una nuova categoria di chierici, o può estendersi all’intero consumo culturale?
Ecco la domanda alla quale la storia, la sociologia o la pedagogia scolastica dovrebbero fornire elementi di risposta.
L’uso del libro da parte di soggetti privilegiati lo trasforma in un segreto di cui essi sono i ' veri' depositari. Erige fra esso e i suoi lettori una frontiera che può essere oltrepassata solo con un passaporto rilasciato da questi interpreti, trasformando la loro lettura (anch’essa legittima) in una ' letteralità' ortodossa che riduce le altre interpretazioni (egualmente legittime) all’eresia (in quanto non ' conformi' al senso del testo) o all’insignificanza (destinandole così all’oblio). Da questo punto di vista, il senso ' letterale' è l’indice e l’effetto del potere sociale di un’élite. Offerto di per sé a una lettura plurale, il testo diviene così un’arma culturale, una riserva di caccia, il pretesto di una norma che legittima, come ' letterale', l’interpretazione dei professionisti e dei chierici socialmente autorizzati.
D'altro canto, se la manifestazione della libertà del lettore attraverso il testo è tollerata fra i chierici (bisogna però chiamarsi Roland Barthes per permettersela), è viceversa interdetta agli allievi (aspramente o abilmente ricondotti dai maestri all’ovile del senso 'ricevuto') o al pubblico (debitamente avvertito di 'ciò che bisogna pensare' e le cui invenzioni, considerate trascurabili, sono ridotte al silenzio). È dunque la gerarchizzazione sociale che nasconde la realtà delle pratiche di lettura o le rende irriconoscibili. Fino a ieri, la Chiesa, con la sua cesura fra chierici e 'fedeli', considerava la Scrittura come una ' Lettera' indipendente dalle interpretazioni dei lettori e custodita dagli esegeti: l’autonomia del testo era la riproduzione dei rapporti socioculturali all’interno di un’istituzione in cui gli addetti stabilivano come dovesse essere interpretato. Con l’indebolimento di quest’ultima, fra il testo e i suoi lettori è apparsa quella reciprocità ch’essa nascondeva, come se, nel suo ritrarsi, lasciasse intravedere la pluralità indefinita delle ' scritture' prodotte dai lettori, la cui creatività aumentava parallelamente all’indebolimento della gerarchia che la controllava. Questo processo, visibile dopo la Riforma, già inquietava i pastori del XVII secolo. Oggi, l’isolamento dei lettori dal testo di cui il produttore o il maestro si considerano padroni avviene attraverso i dispositivi sociopolitici della scuola, della stampa o della televisione.
Ma dietro lo sfondo teatrale di questa nuova ortodossia si nasconde (come già avveniva ieri) l’attività silenziosa, trasgressiva, ironica o poetica, di lettori (o telespettatori) che mantengono le distanze nel privato e all’insaputa dei ' padroni' del pensiero. La lettura si situerebbe dunque nel punto di congiunzione di una stratificazione sociale (dei rapporti di classe) e di operazioni poetiche (costruzione del testo da parte del lettore): il lettore è spinto così da questa struttura gerarchica a conformarsi all’' informazione' distribuita da un’élite, ma si prende la sua rivincita insinuando astutamente la sua inventività nelle falle di un’ortodossia culturale. In questo modo, da un lato si occulta ciò che non è conforme alla volontà dei ' padroni' rendendolo invisibile ai loro occhi; dall’altro, lo si dissemina nelle sfere della vita privata. Entrambe le operazioni concorrono dunque a fare della lettura un’attività sconosciuta da cui emergono per un verso, in forma teatrale e impositiva, l’unica interpretazione letterale autorizzata, e per un altro, le tracce di una poetica comune , che affiorano come piccole bolle, rare e intermittenti, sulla superficie dell’acqua.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

Signor giudice, nasconda a mia figlia quel nonno muto ...

La disabilità estrema e noi
di Marina Corradi
«Che mia figlia non viva nella casa del nonno, paralizzato e muto per una sindrome neurologica. È troppo triste, troppo afflittivo per un bambino, assiste­re a certe situazioni». È, in sostanza, la ri­chiesta di un padre separato al tribunale. E non è un caso isolato.
Dunque in quel laboratorio di diritti e af­fetti che sono le divisioni fra coniugi, in cui vengono alla luce prima che altrove que­stioni che altrimenti si discutono fra le mu­ra di casa, emerge una nuova domanda che pretende di essere affermata giuridica­mente: il diritto a non vedere la malattia e la sofferenza. Qualcosa di ulteriore rispet­to al «diritto a morire» teorizzato nella bat­taglia per l’eutanasia: la pretesa di non far vedere quegli stati di vita, che ai sani pos­sono apparire inaccettabili. O almeno que­sta pretesa comincia con i bambini, ve­stendosi di premura paterna: che la bam­bina non entri in quella casa dove il non­no, cui pure vuole bene, ora non risponde, non parla. Benché privo di una sofferenza fisica evidente, il silenzio degli stati vege­tativi o delle sindromi analoghe è giudica­to insopportabile; si va dal giudice, perché non sia mostrato ai figli e ai nipoti. Questa premura di genitori è singolare. Vuole na­scondere la sofferen­za di un vecchio, ren­derla come inesisten­te. Invisibile, come se quell’uomo fosse già morto.
Ma davvero, censu­rando una parte fon­damentale della vita, gli adulti proteggono i figli, o invece non proteggono se stessi da ciò che agli occhi loro, e non del figlio, è intollerabile? Sembra paradossale: in un tempo in cui tutto è visibile anche ai bam­bini, dalla pornografia alla violenza, pren­de forma un ultimo tabù: la malattia, l’in­validità, e quell’area grigia dell’assenza da sé, che a molti sembra una morte da vivi. L’ultimo tabù, l’inguardabile, l’osceno, è la malattia, e tanto più quella che paralizza, allontana – ineludibile primizia della mor­te.
Eppure, chiunque non sia più un ragazzo ricorda di essere stato portato al capezza­le dei nonni, di averli visti magari in ago­nia; di avere avuto in casa un vecchio reso assente e bisognoso di tutto dalla demen­za. Veramente quel vedere ci ha danneg­giato? No: ci ha mostrato che esistono an­che la sofferenza e la fine, dunque ci ha spiegato qualcosa, della vita, di fonda­mentale. Certo, accanto ai bambini una volta c’erano adulti che sapevano stare di fronte alla sofferenza. Che, pure nella pau­ra e nel dolore, avevano la memoria di un senso; che rendeva la fine dei vecchi, e non solo quella dei vecchi, non assurda. La spe­ranza cristiana, magari neanche piena­mente confessata ma respirata da sempre, in una naturale osmosi, alleviava e faceva umanamente tollerabili le invalidità e le a­gonie. Dolore, ma non insensato e cieco: e dunque le stanze dei malati potevano ben essere aperte ai bambini. Che proprio da quei momenti erano, e sono ancora pro­vocati a farsi delle domande: per che cosa si vive e si muore, e cosa ne è di un nonno amato, quando sembra addormentato per sempre, e non riconosce più chi gli è caro. Domande che ne generano altre, che bru­ciano, che sfidano. Che fanno diventare grandi.
Ma forse oggi si preferiscono figli inebeti­ti dal rumore, storditi dai consumi. e il più a lungo possibile ignari della sofferenza, del limite che, in quanto uomini, hanno scritto addosso. O forse sono i padri che, a­vendo perso la memoria di un senso, stan­no atterriti davanti a certe stanze di mala­ti. Lì dentro si è insediato, tenace, assurdo, il dolore: una faccenda che, senza speran­za, è atroce. Per questo vogliono che i loro figli non entrino, che i loro figli non veda­no. Porte chiuse. Tabù. Signor giudice, che mia figlia non veda quel nonno assente, lontano, muto. A cui io, signor giudice, non tollero di stare davanti.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

L'eterno ritorno del conflitto tra arte classica e avanguardia

Dall'antica Grecia fino alla «body art» di Marina Abramovic
di Francesca Bonazzoli
Ordine e disordine: queste due visioni antitetiche del mondo hanno segnato anche religione e filosofia, rappresentando l'inquietudine che segna irrimediabilmente la condizione umana
Contro l'accademismo della cultura ufficiale, contro il convenzionalismo vittoriano e contro i mali della società industriale. Nuovo e radicale: così sembrava ai preraffaelliti il loro programma. Ma a ben guardare la storia dell'arte è un continuo bisogno di negare. Una dialettica di tesi e antitesi che nella riflessione estetica ha assunto la definizione di alternanza fra classico e anticlassico illustrata dal Wölfflin, mentre nella speculazione filosofica ha trascinato con sé concetti religiosi. Nelle sue Lezioni di estetica Hegel aveva teorizzato che l'arte, come la religione e la filosofia, è portatrice del contenuto spirituale universale, ma lo esprime in modo sensibile. Dunque non stupisce che i movimenti artistici contro, come appunto quello preraffaellita, abbiano lanciato appelli nello stesso tempo artistici e spirituali. In generale la definizione di classico esprime un' idea di forma compiuta e stabilizzata che si sposa con un' idea appagante del mondo e una fiducia nelle possibilità umane. Anticlassico è invece ciò che scompagina i canoni, distorce le forme portandole alla loro forzatura espressiva estrema ed è quindi una ricerca ansiosa, inappagata, una tensione mistica verso un assoluto. Eppure, anche all' interno dell' arte greca, classica per eccellenza, abbiamo almeno tre periodi anticlassici. E perfino un pittore come Caravaggio, che fece dell' imitazione delle imperfezioni della natura una rivoluzione pittorica, ha dipinto quadri di una qualità classica (perfezione formale) altissima. Il fatto è che «lo spirituale nell' arte», come lo chiamava Kandinsky, si infiltra nel terreno paludoso dell' arte come un fiume dai mille rivoli. A volte addirittura fra l' inizio e la fine della vita di uno stesso artista, come successe a Michelangelo che da giovane praticò il culto della bellezza classica, attraverso gli idoli del David e della Pietà vaticana, ma poi morì rinnegandola dando avvio, nel turbine caotico del Giudizio finale, al grande movimento anticlassico del Manierismo che proprio sulla venerazione di Michelangelo, lo scultore che rivaleggiò con i classici, fondò la nuova religione del capriccio e dell' artificiosità. Spesso, dunque, è proprio il ritorno al classico, anziché la contestazione anticlassica, a sventolare il vessillo della spiritualità. Questo fecero i Nazareni, il Purismo o il suprematismo di Malevic che, chiedendo di riportare la pittura al grado zero del quadrato bianco, andava addirittura oltre la classicità, oltre le colonne doriche del Partenone, per entrare nel silenzio della cella del tempio, nel sancta sanctorum dove la forma si dissolve nel puro spirito. Per i Supramatisti russi, dunque, persino l' ordine composto dell' arte classica era inadeguato, come aveva profetizzato Hegel: «sono trascorsi i bei giorni dell' arte greca, come pure l'età d'oro del basso Medioevo... l'arte ci invita alla meditazione, ma non allo scopo di ricreare l'arte, bensì per conoscere scientificamente che cosa sia l'arte». Proprio a partire dal Novecento, l'arte si presenta allora nella forma della filosofia, a cominciare da Duchamp, che mette in bottiglia l'aria di Parigi, per passare attraverso l' arte astratta (lo spirituale di Kandinskij), l'epressionismo astratto con i gesti di Pollock mutuati dallo sciamanesimo e le campiture di Rothko che ricordano la magia ipnotica delle iconostasi bizantine. Chi è spirituale e chi terreno fra la mistica esoterica del Simbolismo e la metafisica di Mondrian che vi si oppose con le sue gabbie geometriche? Chi è classico e chi anticlassico fra De Chirico, con il suo ritorno all'ordine antiavanguardista, e Joseph Bess che come uno sciamano usava l'arte per asserire «la rivoluzione siamo noi»? E la body art di Marina Abramovic, che digiuna tre mesi per prepararsi a una performance dove mette alla prova i limiti della resistenza fisica e psichica umana e arrivare così al distacco dal corpo, è classica come la purezza nervosa della Nike di Samotracia o è l'emanazione distruttiva dello spirito anticlassico dell' avanguardia? La questione è antichissima: l'arte corrompe l'Idea, come voleva Platone che la rinnega nel X libro della Repubblica, o al contrario ha una dignità altissima, come voleva Plotino che la ritiene visione intellettuale delle essenze, imitazione dei supremi principii del mondo? L'artista è la scimmia della natura o si trova nella posizione stessa dell'Intelletto supremo che imprime il sigillo della forma alla materia? Nessuno avrà mai una risposta certa. Perché anche la speculazione teoretica si dibatte nell' eterno dualismo di spirito e materia, classico e anticlassico, avanguardia e conservazione. Nel frattempo gli artisti continueranno a dirsi contro, interpretando così l' eterna inquietudine del mondo.
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2010

Preraffaelliti: la confraternita della purezza

Al Mar oltre 150 opere di un movimento che scelse i paesaggi dell'Italia e la nostra cultura come fonte d'ispirazione
di Francesca Montorfano
È il settembre 1848 quando un gruppo di giovani, William Holman Hunt, John Everett Millais, Dante Gabriel Rossetti e suo fratello William Michael, a cui presto si uniranno altri artisti e intellettuali, fonda a Londra la Confraternita dei Preraffaelliti, primo nucleo di quello che diventerà uno dei più interessanti movimenti artistici del secondo Ottocento. Il loro scopo è rivoluzionare il corso stesso dell'arte, rifiutando i dettami del classicismo accademico e le convenzioni della società vittoriana, vagheggiando un ritorno al Medioevo, sostenendo il recupero di una pittura più schietta e immediata, quella degli artisti che hanno preceduto Raffaello, sublime, sì, ma troppo intellettuale, troppo «studiato» nella sua ricerca di una superiore armonia. Italia e cultura sono sinonimi nelle concezioni inglesi del tempo. Così, se atmosfere gotiche, rielaborazioni romantiche e richiami shakespeariani sono presenti nella poetica dei Preraffaelliti, principale fonte d' ispirazione sarà per loro la letteratura italiana del Trecento, con la «Divina Commedia» e la «Vita Nova» di Dante, da John Ruskin definito «uomo cardine della scena mondiale, capace di coniugare in perfetto equilibrio qualità creative, morali ed intellettive nella loro massima espressione». Anche la natura occupa un posto di rilievo nella produzione del gruppo. Architetture e paesaggi colti en plein air, dipinti con colori vividi e brillanti, con minuziosa cura dei dettagli ma anche con grande spontaneità così da renderne la più vera, intima essenza. «Giardino del mondo dalle inesauribili bellezze naturali», descrive l' Italia Frederic Leighton, che vi soggiorna per tre anni traendone emozioni indelebili e delicate vedute. Un viaggio nel Belpaese è la tappa finale del Grand Tour, un sogno per tutti, anche se realizzabile solo per alcuni. Se Ruskin visiterà per la prima volta l' Italia a quattordici anni e vi ritornerà in seguito più volte per riprodurre a disegno, in modo da conservarne una testimonianza visiva, gli edifici che amava e riteneva in pericolo, Dante Gabriel Rossetti nonostante la sua origine italiana (il padre, carbonaro, era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra dopo i moti napoletani del ' 20), non riuscirà ad andarvi mai. Dell' Italia, che pure è per lui un luogo carico di ispirazione, potrà conoscere direttamente i capolavori solo durante un viaggio compiuto in Francia nel 1849, un anno dopo la nascita della Confraternita, quando al Louvre potrà ammirare opere dell' Angelico, di Leonardo e di Mantegna. Sono temi, motivi e suggestioni messi in luce dalla bella mostra del MAR, realizzata con la collaborazione dell' Ashmolean Museum di Oxford e il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, che per la prima volta presenta in Italia oltre 150 opere del movimento, tra dipinti, incisioni, disegni e acquerelli provenienti dalle più prestigiose istituzioni europee. «Si tratta un evento che compiutamente documenta gli stretti legami dei Preraffelliti con l' Italia, la loro predilezione per l' arte, la letteratura e il paesaggio italiani, anche attraverso un' ampia selezione di acquerelli, tecnica che proprio nell' Ottocento conobbe una fase di grande splendore», sottolinea Claudio Spadoni, curatore della mostra insieme a Colin Harrison e a Christopher Newall. «Un evento che vuole mettere in luce anche l' influenza esercitata sui Preraffaelliti da John Ruskin, storico sostenitore del gruppo (celebri furono le sue lettere del 1851 al Times in cui difendeva le loro opere), presente in mostra con una serie di disegni di straordinaria abilità e raffinatezza». Dopo una prima parte dedicata ai dipinti di Beato Angelico, Perugino, Taddeo di Bartolo e Timoteo Viti e alle incisioni del Lasinio che tanto suggestionarono i Preraffaelliti, il percorso continua con le splendide interpretazioni che dell' Alighieri ha dato Rossetti, tra cui il celeberrimo Paolo e Francesca o Dante che disegna un angelo. Ma non solo al sommo poeta si ispirarono i Preraffaelliti. Se lo stesso Rossetti dipinse la sontuosa «Amante di Fazio» rifacendosi all' opera di Fazio degli Uberti, Marie Stillman per il suo «Giardino Incantato» preferì il Boccaccio, mentre Millais nel suo «Cavaliere Errante» addirittura l' Ariosto. Più di trenta sono gli artisti chiamati a raccontare il movimento, a documentare le glorie e le bellezze d' Italia. Come Hunt con la serie di magnifici acquerelli toscani e quel «Dolce far niente» che già riecheggia echi tizianeschi, George Price Boyce con le sue vedute veneziane o Giovanni Costa e i suoi seguaci britannici, che dell' Italia diedero toccanti rappresentazioni e ne sostennero il diritto all' indipendenza politica. Grandioso il finale, che vede per la prima volta esposti i cartoni e i disegni realizzati da Burne-Jones per la decorazione musiva della chiesa di San Paolo dentro le Mura a Roma, di tale stupefacente qualità pittorica da venir considerati non un'opera preparatoria, ma un capolavoro in sé finito.

Da domani al 6 giugno 2010 il Mar-Museo d' Arte della città di Ravenna ospita la mostra I Preraffaelliti - Il sogno del ' 400 italiano da Beato Angelico a Perugino, da Rossetti a Burne-Jones. Sarà possibile ammirare i lavori degli artisti inglesi della Confraternita Preraffaellita (1848), da Dante Gabriel Rossetti a Edward Burne-Jones, che, spinti dalla volontà di un radicale rinnovamento della pittura britannica, si ispirarono, nell' utilizzo dei colori, dei particolari naturali e della semplicità e intensità dell' espressione, alla pittura italiana del Quattrocento prima di Raffaello, qui rappresentata anche da quadri del Perugino e del Beato Angelico. Una sezione è dedicata anche alla Scuola Etrusca di Nino Costa. Il catalogo della mostra (252 pp, 35 euro) è pubblicato da Silvana Editoriale.Info: tel. 0544-482477, http://www.museocitta.ra.it/
«Corriere della Sera» del 27 febbraio2010

La menzogna del velo

Il poeta siriano attacca il fondamentalismo islamico che cancella la donna come soggetto e la riduce a un' appendice del maschio. E intanto esce, da Guanda, il nuovo libro
di Adonis
Non è un simbolo della fede, ma un oltraggio ai principi della democrazia
Nonostante l'eccessivo attaccamento religioso di alcuni al velo (hijab), esso non è uno dei pilastri dell'Islam. Se così fosse stato, ci sarebbe un Testo al riguardo, come c' è per la preghiera, il digiuno, l'elemosina, il pellegrinaggio e la jihad (la difesa dell'Islam). Invece non abbiamo un Testo coranico preciso e chiaro che faccia del velo un pilastro dell'Islam. Piuttosto è una questione semireligiosa, accostabile più alla consuetudine, al mantenimento di un certo contegno o a una condotta decorosa. La storia ci dice che nella pratica molte musulmane di alto rango sociale e religioso non mettevano il velo per rivolgersi agli uomini. L'attaccamento al velo sembra rivelare una strategia politica e sociale che mira a legare il presente a un passato illusorio da un punto di vista religioso, in modo che si preservi nella pratica e nella memoria collettiva. Ciò rivela un'arbitraria e ottusa interpretazione di alcuni testi religiosi e indica il senso profondo della natura dei rapporti fra uomo e donna all' interno della società arabo-islamica. Il senso del velo sta nel suo essere la manifestazione più evidente del rafforzamento del dominio maschilista-patriarcale sulla società. E potrebbe essere la manifestazione più evidente del sentimento del maschio-padre che «escludendo» la donna esclude un «nemico», evidenziando così, in modo diretto ed eclatante, la vittoria della virilità-paternità. Attuando questa «esclusione», gestendo la donna a suo piacimento, il maschio-padre sente di avere in pugno la «maternità», ossia il futuro delle «nascite», e di controllare l'andamento delle nascite nella società, oltre ad avere in pugno la cosa più bella: la femminilità. In tal modo è più tranquillo nella fede perché sente che con questa sua azione compie un «esercizio» preordinato nel quale le donne, nella vita terrena, vivono all' ombra dell' uomo e sotto la sua protezione, per apparire in perfetto splendore, senza velo, dopo la morte, in paradiso, in forma di ninfe (huri) al totale servizio dei desideri dei maschi fedeli. A dire il vero, la geografia dell'aldilà, nell'immaginario islamico, è illuminante per la comprensione della geografia del mondo terreno. Anzi, non possiamo comprendere bene la seconda se non partiamo dalla prima. Nell' immaginario legato a questa geografia, la femminilità più compiuta in senso religioso non esiste se non nell' aldilà, in paradiso. Essa esiste precisamente come piacere e godimento: il godimento più appagante e il piacere più completo. Questo spiega l'insistenza dei fondamentalisti nel voler guardare la donna nella vita terrena soltanto come un «recipiente», un «utero», un «ponte» che porta alle ninfe. Le huri esistono in sostanza per accogliere il fedele nell'altro mondo, per essere «letto» di gioia e piacere. È nella loro natura, per maggiore piacere e godimento, tornare vergini dopo ogni accoppiamento, come confermano la maggior parte dei dotti e degli interpreti. Come si fa, allora, a non dire che questa visione religiosa patriarcale-maschilista cancella la donna come essere, come soggetto? Come si fa a non dire che ne fa un'appendice, un'ombra del maschio? Come si fa a non dire che la sua esclusione in vita non è altro che una sorta di «morte» in vista di una vita eterna nell'aldilà, cioè in eterno senza velo? Nell'eternità non ci sarà alcun velo. La ninfa nella vita eterna è assolutamente legittima, il fedele la sceglie a suo piacimento, o è scelta per volontà divina. Ma, nella vita terrena, il velo non sembra un rimando al suo abbandono nella vita eterna, cioè un rimando alla totale libertà? Non sembra una prigione provvisoria, una forma di «timore» in attesa di incontrare la libera femminilità, l'eterna verginità? Sì, sottomettere la donna all'opinione di chi sostiene il velo significa riconoscere consapevolmente la sua schiavitù e arrendersi a tutto ciò che essa comporta.(...) C'è chi sostiene che in Occidente la donna musulmana sceglie liberamente il velo. È un'opinione molto discutibile. Quando vediamo, a Parigi per esempio, delle bambine velate, alcune delle quali non hanno più di quattro anni, ci è forse possibile affermare che abbiano indossato il velo liberamente? Qual è la libertà di una bambina a quell' età? Perché gli immigrati musulmani fondamentalisti vedono nell' apertura dei Paesi ospiti soltanto una possibilità di dichiarare la loro chiusura e il loro isolamento, di migrare all'interno della loro migrazione? Si trovano in questi Paesi grazie a un'apertura. Perciò quando esprimono il loro credo o lo praticano a volte attraverso il velo, a volte con la barba, offendono in primo luogo l'Islam, perché lo riducono a una forma superficiale e lo espongono al mondo come uno slogan o un vessillo e ne fanno un rito formale. È forse così che i musulmani dovrebbero presentare l'Islam in questo secolo, un Islam che è stato per molti secoli simbolo di creatività e irradiazione della civiltà? Non comprendono che con questo comportamento mettono il «velo» all'Islam stesso, gli «coprono il volto», ne danno un' immagine distorta e lo «soffocano»? Invece di rispettare la democrazia e i suoi principi, questa minoranza musulmana in Occidente cerca di rinnegarli, di imporsi con la forza non solo ai musulmani, ma anche alla democrazia. È una posizione che non saprei giustificare o difendere né tantomeno saprei dire come possa giovare all'Islam, esserne la corretta espressione. È una posizione che impone di guardare ai suoi sostenitori non come uomini devoti e religiosi, ma come uomini politici. La moschea è l'unico luogo che distingue un musulmano, svelandone l'identità religiosa in Occidente (la medesima cosa dovrebbe accadere nei Paesi arabi). È l'unico luogo dove esercitare appieno i propri diritti religiosi. Al di fuori di essa l'esercizio sociale o pubblico di tali diritti è un oltraggio ai valori comuni. Le istituzioni, in particolare quelle educative, la scuola, l'università, sono luoghi civici pubblici, collettivi. Luoghi d'incontro. Luoghi aperti a tutti, dove dovrebbero scomparire i diversi simboli religiosi, qualsiasi essi siano. Alle istituzioni si aggiungono le strade, i caffè, i club, i cinema e le sale pubbliche per conferenze e convegni. La comparsa di simboli religiosi distintivi in luoghi come questi è una violazione del loro senso e delle loro finalità. Una violazione della comune appartenenza e della comune identità. Un simbolo di volontà separatista. Rifiuto dell' integrazione. Affermazione di un'identità speciale e diversa all'interno di un'identità pubblica e unificante. E questo costituisce una sfida al sentimento pubblico, al gusto, alla cultura e alla morale pubbliche. Oltretutto, l'affermazione esteriore del privato in pubblico è una forma di spettacolarizzazione indegna della religione. Fondamentale nell'esperienza religiosa è il fatto che sia intima, che sia vissuta in modo semplice, in silenzio e in solitudine, una sorta di ritiro da ogni genere di «apparenza». Se qualcuno obietta che la donna musulmana mette il velo in nome del diritto alla libertà religiosa, bene, questo diritto è preservato e rispettato finché è privato e esercitato nel contesto privato. Quando se ne esce, il diritto diventa violazione, una forma di aggressione nei confronti dell' altro, una mancanza di rispetto per le idee e i sentimenti altrui, oltre che manifestazione di disprezzo per i principi, le leggi civiche e gli sforzi e i grandi sacrifici che le hanno prodotte. Riassumendo, l'interpretazione religiosa che impone il velo alla donna musulmana che vive in un Paese laico dove la religione è separata dalla politica, dove la donna è pari all'uomo per diritti e doveri, rivela una mentalità che non vela soltanto la donna, ma anche l'uomo, la società e la vita. Vela la mente. È un'interpretazione che dà diritto a molti occidentali di considerare l' imposizione del velo un'azione tendente a minare le fondamenta su cui si è basata la lotta dell' Occidente per la libertà, la giustizia e l'eguaglianza. Dà anche diritto di vederci la pretesa di cancellare il ruolo della donna dalla vita pubblica, sociale, culturale e politica, un fatto totalmente in contrasto con i principi della vita civile in Europa e in Occidente. È perciò un'interpretazione che, in ultima analisi, cerca di trasformare l'uomo e la religione insieme in meri strumenti al servizio di una macchina di potere manovrata da una tirannia cieca.
Nato nel 1930 in Siria e residente a Parigi, Alì Ahmad Sai' ïd Esber (vero nome di Adonis) è una della voci più autorevoli della cultura araba. Guanda ha già tradotto i suoi volumi di poesia «Memoria del vento» e «Cento poesie d'amore», e le raccolte di saggi «La preghiera e la spada» e «La musica della balena azzurra»
Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi di due interventi sul velo islamico inclusi nel libro di Adonis «Oceano nero» (Guanda, pp. 190, 14), in uscita giovedì 7 settembre, che raccoglie le riflessioni del poeta siriano su vari temi di attualità. Sabato 2, Adonis interverrà al Festival della Mente di Sarzana
«Corriere della Sera» del 30 agosto 2006

Caro Mario, la tua poesia è vita

Il ricordo dello scrittore scomparso cinque anni fa. «Non sposti un sasso, ma dai senso al mondo»
di Adonis
L'omaggio di Adonis all'amico fiorentino e una lirica inedita di Luzi
Ho incontrato Mario Luzi a Firenze circa dieci anni prima della sua morte. Ci avevano invitato insieme a una serata di poesia. Finita la lettura, che aveva avuto un discreto successo, ho visto raccogliersi attorno a Luzi un certo numero di donne di età diverse. S'erano trattenute con lui e ad alcune aveva firmato suoi libri. Era calmo, sereno e molto felice. Mi piacque vedere un poeta circondato da donne che lo ammiravano e stimavano, anche se i suoi versi non parlavano in modo specifico di loro. Mi dissi, pensando al rapporto delle donne arabe con la poesia: allora, la donna, qui a Firenze, ama la poesia per la poesia, non come una cosa che la riguarda in modo specifico. Da quell' incontro ho incominciato a leggere tutte le sue poesie che trovavo tradotte in francese. E oggi, ogni volta che lo leggo mi tornano alla mente le donne raccolte attorno a lui in quella serata. Al tempo stesso mi viene alla mente questo interrogativo: perché la poesia di Luzi è così influente su di loro? E questo porta a un' altra domanda: che cosa può fare la poesia? Specie quando i lettori di questo tempo hanno perso la facoltà di distinguere fra la buona e la cattiva poesia, anzi, gran parte di loro non ha più un alto e vitale interesse per la poesia. La poesia di Luzi viene dai luoghi intimi e profondi dell' uomo, luoghi di meditazione ed esplorazione dove si fondono sogno e realtà, sensoriale e immaginario, visibile e invisibile, poesia e scienza, religione e filosofia. Così possiamo descrivere la sua poesia come un viaggio in questo spazio intimo, attraverso lo spazio esterno, che penetra e supera - lo spazio del caos socio-politico, degli eventi e della tecnica. L'occhio del volto qui è l'occhio del cuore, l'uno fa da guida all' altro, si completano nel superare l'oscuro, per accogliere ciò che illumina, dove valori e rapporti tornano alla loro natura prima, dove la parola diviene corpo, come se la poesia, nel linguaggio e nell' esistenza, fosse un altro utero accanto a quello naturale femminile, per la nascita e per rinnovare la vita. Così il poeta non si serve di parole già preconfezionate, le usa ricollocandole in un contesto inconsueto. Il femminile del linguaggio è il luogo di questa riallocazione. Come la donna è il luogo della nascita, anche il linguaggio è luogo di nascita della poesia. Alla prima l' uomo deve la propria esistenza, alla seconda la propria identità. La particolarità della poesia è quella di nascere dall' utero del linguaggio-vita così come l' infanzia viene dall' utero della donna-femminilità. I rapporti d' amore sicuramente non sono facili e nemmeno il rapporto del poeta col linguaggio. Quando sembra che la lingua fuoriesca dal poeta come un profluvio, questo fa sorgere qualche sospetto sulla poesia in sé e sulla sua qualità artistica. La poesia è sempre contro: anzitutto contro il poeta, intendo contro la sua debolezza, sottomissione e arrendevolezza. Contro la macchina dello schiavismo nella società, che è una macchina infernale, contro la bassezza del mondo. Il rapporto col linguaggio, quindi, è un rapporto di respingimento, rifiuto, perdita, dolore e attesa. Che cosa può fare, allora, la poesia? La mia risposta viene dalla poesia stessa e da te, Mario Luzi, amico in poesia - la mia risposta a Mendrisio tra coloro che ti hanno conosciuto e ti stanno celebrando è che la poesia non può spostare un sasso ma nonostante ciò, come la religione, riesce a dare un senso al mondo: che possa essere sempre una nascita-inizio.
(Traduzione dall'arabo di Fawzi Al Delmi)
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2010

L'elogio del libro da leggere a letto

L'orgoglio della carta contro l'iPad
di Luca Goldoni
Preferisco le pagine perché posso farci le orecchie
Pietà! Ho appena acquistato l'iPhone e annaspo nella sua schermata di icone (giochi, messaggi, immagini, Internet, YouTube, foto, Gps, mappe, Borsa, musica scaricabile, ecc.). Non mi sono ancora assuefatto ai tasti telefonici virtuali che basta sfiorarli e ti mettono fulmineamente in comunicazione con ignari interlocutori. Mi sono appena familiarizzato con un terzo, sì e no, dei servizi offerti (come un taxista che usi una Lamborghini). E mi sento aggredire dal nuovissimo iPad, l'ultima diavoleria con una ulteriore concentrazione di magie tecnologiche, per esempio una vasta biblioteca digitale fra cui scegliere romanzi e saggi. A questo punto non scriverò il solito elogio del libro tradizionale celebrando la sua «fisicità» (il fruscio delle pagine, il sentore della vecchia carta, l'odore di colla della rilegatura). E neppure m'inchinerò al primato ecologico del libro elettronico (per fabbricarlo neppure un ramo d'albero abbattuto e per trasportarlo neppure un Tir inquinante, basta un tasto per fiondarlo da una parte all' altra del pianeta). Mi limiterò a illustrare due motivi biecamente utilitari per cui continuerò ad adorare il libro di carta e a bocciare l'altro, «liofilizzato» come le fiorentine degli astronauti.
Motivo n. 1. Il grande Gillo Dorfles confessa in un' intervista di preferire ai segnalibri l'orecchietta alla pagina e di martirizzare il testo sottolineando e commentando con punti esclamativi o interrogativi. Spiega che aiutano la sua memoria visiva. Se esistesse sul telecomando un tasto «interactiv» avrei abbracciato Dorfles perché, se qualcosa può avvicinare il pigmeo che sono io al gigante che è lui, sono proprio le sconvenienti orecchiette e la memoria visiva. Da studente sottolineavo furiosamente, nella convinzione che un concetto o una data, debitamente evidenziati, si trasferissero automaticamente nella mia memoria. Senonché finivo col sottolineare tutto e rischiavo di imprimermi bene in testa solo le frasi non sottolineate, per esempio «non si può non osservare che». Oggi, pur distribuendo commenti con maggior sobrietà, riesco benissimo a orientarmi nel già letto e, grazie a questa «personalizzazione», ho l' alibi per stroncare il fenomeno dei libri che prestiamo e che non rivedremo più, perché ce ne dimentichiamo noi e il destinatario: «L'ho scarabocchiato con note personali che ti disturberebbero nella lettura».
Motivo n. 2. Proprio su queste colonne ho esaminato tempo fa i vari stili di lettura. Tutto è cominciato quando, digitando Google, mi sono azzardato a porre il quesito «leggere a letto» e - tenetevi forte - ho scoperto 632 mila voci. Si va dalle confessioni («Per me non leggere a letto significa non esistere») alle invenzioni per rendere tale consuetudine più confortevole (un piccolo leggio collegato a un faretto posteriore «che non disturba il coniuge» oppure le «pagine luminose» brevettate dal dottor Haito dell' Università di Edimburgo). Da non credere.
È una vita che i libri li leggo soltanto a letto: ne ignoro i motivi anatomici e metabolici, ma so di essere uno dei 600 mila. Ecco dunque il mio manuale di lettura orizzontale: se il libro è un tascabile ci si pianta il pollice in mezzo e si procede senza problemi. Ma se è massiccio bisogna ricorrere a tecniche defatiganti: per esempio, lo si appoggia «a L» sul cuscino e ci si mette di fianco. Però si legge solo la pagina verticale e per passare alla successiva si deve spostare la «L» sull'altra parte del cuscino e torcere il collo in quella direzione. Se la rilegatura lo consente, si tenta di piegare il volume a tenda canadese. Dopo una decina di pagine e di relativi esercizi, generalmente ci si mette supini e si alza il libro, impugnandolo a braccia tese come un volante. Ma è una posizione in cui si resiste pochissimo. Allora si abbassa il libro appoggiandolo sullo sterno e si flette la testa fino al cric dell' epistrofeo. A questo punto si prova a pancia in giù, prima appoggiati ai gomiti con la colonna vertebrale tesa come una balestra, poi col libro sul pavimento, metà faccia sul cuscino e solo un occhio utilizzabile. Dopo di che, si ricomincia: libro a L, «a V» rovesciata, paralume di tre quarti a destra, ecc. In genere, dopo un quarto d' ora di questo estenuante kamasutra libresco, mi addormento, mi cade il libro, mia moglie mi toglie gli occhiali e spegne la luce. Bene. Mi chiedo che accadrebbe se piombasse sul pavimento da 70 cm d'altezza il fragile sofisticatissimo romanzo elettronico. Quanto ricaverei dalla sua rottamazione o dalla supervalutazione di un usato che vale zero? È certo che non mi posso permettere di perdere 7/800 euro per notte.
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2010

In cerca di mio nonno, la tigre Pavolini

Un viaggio (storico e personale) nelle tenebre: esce da Fandango un romanzo di memoria e passioni. «Chi era quell'uomo?»
di Franco Cordelli
Il nipote credeva che il gerarca fosse un eroe come Saint-Exupéry. Poi scopre la verità sui libri di scuola
In questi giorni si sono potuti leggere tre scritti di varia natura nei quali viene nominato Enzo Siciliano. Emanuele Trevi lo rammenta in uno stralcio di diario apparso sull' ultimo numero di «Nuovi Argomenti»; Arnaldo Colasanti in modo straziante ne rievoca la morte nel suo secondo romanzo, La prima notte solo con te; infine ce ne parla, in ragione della loro amicizia, Lorenzo Pavolini, anche lui in un romanzo, il suo terzo, Accanto alla tigre (Fandango). Tutti e tre lo chiamano per nome. È un particolare che mi ha colpito. Perché tanta confidenza? Di chi parlano Trevi, Colasanti e Pavolini: dello scrittore o dell' amico? Naturalmente dell' uno e dell' altro. Ma il continuo slittamento dall'una all'altra dimensione ingenera un equivoco e in ultima istanza a Siciliano non rende il dovuto. Questo aspetto che direi aneddotico-sentimentale è, in apertura (e nell'ultimissima pagina), il tono del romanzo di Pavolini. È anche il tono di tanta letteratura colta degli ultimi anni. Sto pensando a scrittori di altra origine rispetto a quelli che ho nominato, come Antonio Pascale, Ascanio Celestini o Elena Stancanelli. Sono accomunati dall'inclinazione a una familiarità con il lettore che in natura non esiste, che forse si desidera perché si teme il peggio (che lettori eccellenti non ve ne siano, tranne gli amici), che alla letteratura scappi il terreno sotto i piedi. Essa non ha più potere, non ha più statuto. Ma il caso di Pavolini è diverso. Poiché è turbato, egli comincia così, divagando. Il suo argomento è preciso, è il nonno Alessandro, il gerarca fascista impiccato per i piedi a piazzale Loreto, accanto a Mussolini e alla Petacci. Lui, ne sapeva poco, credeva fosse morto in volo, come il suo amato Saint-Exupéry. Poi ne vide una foto in un libro delle medie. Da allora, per anni Pavolini ha inseguito questo pensiero, chi era davvero mio nonno, e alla fine ci è riuscito, ha cominciato ad accostarsi alla tigre. Ma, lo ripeto, con un certo timore. Come non averne? Egli, nato nel 1964, ha avuto un' educazione tutta diversa, è abituato a retrocedere nel guscio della tribù, della famiglia, del lavoro, dei valori universalmente condivisi (la democrazia), infine della stessa letteratura e di chi la letteratura la fa, la scrive. Enzo Siciliano non era, un poco, un padre e un nonno, tutti e due insieme, l' uomo che lo rassicurava e rappresentava tutto ciò che Alessandro Pavolini non fu? Su questa falsariga, per saperne di più, si accosta anche ad altri amici, i coetanei, quelli che di Pavolini ne sanno e che gliene parlano di propria spontanea volontà o che lui da anni è abituato a interrogare. O, se non si accosta alle persone, sta lì, come imbambolato e scappa via da quella scritta sul muro, PAVOLINI EROE, che lo sgomenta, che non capisce, su cui torna a riflettere senza venire a capo di niente. Più tardi Lorenzo (ora sono io a chiamarlo per nome perché, come lui stesso mi ricorda, la prima volta che ci siamo incontrati, tanti anni fa, mi parlò di questo romanzo, che avrebbe voluto scrivere), più tardi egli comincia a sfogliare libri, lascia che la sua scrivania ne sia invasa; o, addirittura, si spinge in luoghi pericolosi: nel cimitero di Milano, dove il nonno è sepolto, sembra che non riesca a entrare; a Salò ci capita per caso, per un concorso letterario; ma entra, cauto, in Casa Pound, dove dell' arditissimo Alessandro Pavolini, accanto a quelli di Céline, Tolkien, Mishima e Massud, spiccano il nome e l' immagine. A questo punto il libro ha già cambiato tono, forse l' autore non se ne è accorto, non ha voluto. Ma gli è successo proprio ciò che meno voleva: voleva essere accanto alla tigre, invece ci è salito sopra: «Ma io preferisco stare dalla parte di Tracy il non domatore. Il Tracy di Saroyan». Sta parlando del racconto di uno scrittore americano che gli fu a lungo d' esempio, mentre di esempi ne incalzano ben altri, William Blake o Lao-Tzu: facile è cavalcare la tigre, difficile è scendere. Un giorno Lorenzo aveva detto a un amico: «Tu non puoi proprio rassegnarti, eh? Il fatto che si possa stare bene lo stesso, anche senza raccontarsi fino in fondo le cose, non ti sembra accettabile, vero?». Alessandro Pavolini, a pensarci bene, si comportò come lui. Aveva cominciato scrivendo romanzi e racconti, di cui a lungo il nipote ci parla. Poi non resistette. Non volle andare fino in fondo, con il raccontare fino in fondo le cose, e cambiò «patria», lui il grande italiano, il magno patriota del partito fascista. Divenne un uomo d' azione e, in questa seconda veste, tra tutti gli uomini che gli erano accanto, fu l' unico a morire con le armi in pugno. Ecco, nello spingersi sempre più avanti nelle tenebre, il nipote Lorenzo ora non è da meno di nessuno, è anzi molto più poetico, cioè coraggioso, lui, il non fascista, di Giose Rimanelli con il suo Tiro al piccione o di Carlo Mazzantini con il suo A cercar la bella morte. Ma come era, in realtà, Alessandro? Man mano che ci si allontana dalle chiacchiere retoriche (Alessandro l' etrusco), Lorenzo ne scopre l' ineluttabile e così italiano scivolare dalla serietà, se questa si è voluta, nella tragedia; ne scopre la faccia cordiale e disponibile («Egli agisce di solito per pura cortesia e gli capita di essere sospinto in situazioni che non desidera»); ne mette a fuoco la raffinatezza che tanto facilmente finisce nella viltà o in ciò che crediamo il suo opposto, il cosiddetto eroismo; ne ascolta l' inclinazione ad aver delineato, tra i primi, i tratti di quanto più tardi si chiamò fasciocomunismo, la maggiore tra tutte le consolazioni; ne vede il desiderio ma in specie l' impotenza a spostare la storia, proprio come i ragazzini, al Foro Italico, girano intorno a quella immobile palla che ne è al centro senza smuoverla di un millimetro; infine riesce, a bassa voce, con pudore, con delicatezza, a dirne il peccato maggiore, la sua incapacità di accettare la banalità del bene, il suo rifiuto di ciò che più importa nella vita, nei meandri dell' uomo, in democrazia o in qualunque luogo si sia, accanto o a cavallo della tigre.

Esce giovedì 4 marzo il romanzo Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini (Fandango, pagine 248, 16,50). Nato a Roma nel 1964, Pavolini è autore di altri due romanzi: «Senza rivoluzione» (Giunti) e «Essere pronto» (Pequod)
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2010

Un mito segnato dalla commistione e integrazione di stirpi

Roma multietnica meglio di Atene
di Eva Cantarella
Roma, 40 d.C.: l'imperatore Claudio propone di concedere ad alcuni Galli la possibilità di essere magistrati o senatori. L'opposizione insorge: «Roma non ha bisogno di stranieri per ricoprire cariche di governo». Ma alla fine la proposta viene accettata. Nel racconto di Tacito, dopo il seguente discorso: «A quale ragione si deve la rovina degli ateniesi e degli spartani se non alla loro ostinazione nel non accogliere gli stranieri? Romolo invece fu così saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Su di noi hanno regnato degli stranieri, i figli dei nostri ex schiavi possono diventare magistrati. La storia di Roma ne ha dato molti esempi...». Non è questo, ovviamente, il momento di discutere quale fu la causa della rovina dei greci, ma certamente il loro rapporto con gli altri è stato diverso da quello dei romani. A dimostrarlo, in primo luogo, stanno i miti di fondazione delle loro città: quei miti, vale a dire, attraverso i quali le città si raccontavano, dandosi un' identità e definendosi, appunto, nel loro rapporto con gli altri. Gli ateniesi, secondo il mito, erano nati dal suolo patrio, fecondato dal seme di Efesto, finito per terra dopo un vano tentativo del dio di possedere la vergine Atena. Erano autoctoni dunque, gli ateniesi, e tali volevano restare: non volevano essere «contaminati» da altri popoli. Non solo nel mito, anche nella realtà. A darne una prova sta la loro politica verso gli stranieri che risiedevano stabilmente nella città: i famosi «meteci» (da metoikein, vivere insieme). Difficile dire quanti fossero. Secondo il censimento voluto da Demetrio Falereo, tra il 317 e il 307 a.C. erano circa la metà dei cittadini. E la loro presenza, trattandosi prevalentemente di commercianti, era una risorsa fondamentale per l'economia ateniese. Ma Atene non concesse loro diritto di cittadinanza. Si limitò ad accoglierli, a condizione che entro un mese dall' arrivo si registrassero nelle apposite liste. Se non lo facevano potevano subire la confisca dei beni ed essere venduti come schiavi: sanzioni forti, capaci di garantire che non ci fossero molti sans papier. Chi si registrava, invece, acquistava il diritto di residenza, a condizione che un cittadino garantisse per lui, e diventava un contribuente, pagando una speciale tassa (il metoikion). Ma non poteva possedere terre né immobili; non poteva sposare un'ateniese; la sua uccisione era punita meno di quella di un ateniese e in giudizio poteva testimoniare solo sotto tortura (come gli schiavi). Una scelta chiara, molto diversa da quella dei romani, il cui carattere etnicamente composito era celebrato dal mito di fondazione, che riconduceva la nascita della città al matrimonio tra l'eroe troiano Enea e Lavinia, figlia del re Latino. In Romolo, che da quell'unione discendeva, scorreva dunque sangue laziale e sangue troiano. La leggenda raccontava inoltre che per popolare la città egli aveva aperto un asilum nel quale aveva offerto rifugio a tutti gli stranieri che chiedevano ospitalità e protezione, e che le prime mogli dei romani erano Sabine (inutile ricordare il celebre ratto), come il re Tito Tazio. Il mito di Roma, insomma, racconta una città nella quale si aveva da sempre commistione e integrazione di stirpi, e in cui all'apertura etnica si accompagnava l'apertura sociale: gli schiavi liberati, che ad Atene diventano meteci, con la libertà acquistavano anche la cittadinanza romana. Il dato etnico era meno importante di quello politico. Come scrive Polibio, i romani erano più pronti di ogni altro popolo ad adottare costumi stranieri, se migliori dei loro. Simmaco ricorda che avevano adottato le armi dei Sanniti, le insegne degli Etruschi e le leggi dei legislatori greci, Licurgo e Solone. Ma la prova migliore della loro apertura viene dalla politica della cittadinanza in età imperiale. Prima che Caracalla, nel 212 d.C., concedesse la cittadinanza a tutti, nel 198 d.C. divenne imperatore, con il nome di Settimio Severo, un semita di Leptis Magna, che parlava con forte accento punico. E dopo il 212 erano romani tutti gli abitanti dello sterminato impero. Non è inutile, oggi, ricordare i miti che parlano della commistione e della integrazione dei popoli come di una ricchezza, e pensare che vi sono stati momenti in cui così è stato. Sarebbe bello che oggi uno straniero potesse dire, del Paese che lo ha accolto, quel che disse di Roma, nel IV secolo d.C., il poeta Rutilio Namaziano. Costretto a tornare nella Gallia, dove era nato, devastata dall' invasione dei Vandali, Rutilio (nella traduzione di Giosuè Carducci) salutò Roma con queste parole: «Desti una patria ai popoli dispersi in cento luoghi /... del tuo diritto ai sudditi mentre il consorzio appresti / di tutto il mondo una città facesti».

Il Convegno : Terza identità, da Obama a Rosarno. La sfida delle grandi migrazioni
Anticipiamo qui sopra l'intervento di Eva Cantarella al convegno che si svolge oggi a Firenze sulla «Terza identità. Da Obama a Rosarno fino al Vangelo secondo Luca» (Palazzo Medici Riccardi, ore 9.30 la sessione del mattino e 15.30 quella del pomeriggio). Sul tema delle migrazioni come fenomeno fondante delle civiltà, sui processi di globalizzazione e sulle politiche migratorie, si confrontano tra gli altri Luigi Luca Cavalli Sforza, Enrico Chiavacci, Massimo Livi Bacci, Enrico Deaglio. Il convegno è organizzato dalla Provincia di Firenze e dal Gabinetto Vieusseux.
«Corriere della Sera» del 19 febbraio 2010