20 gennaio 2010

«Tutti parliamo allo stesso modo»: l'italiano perde efficacia e vivacità

Scrittori e docenti intervengono sulle questioni aperte da Cesare Segre
di Ida Bozzi
Scurati: l'osceno ha sostituito il tragico. Pincio: manca un progetto sul futuro
«Diciamo parolacce che non offendono più, e «non siamo più capaci di senso tragico». Riflessioni diverse, quelle suscitate tra scrittori e linguisti dall’articolo di Cesare Segre pubblicato ieri dal «Corriere », sul degrado della lingua e la sua volgarità. Segre ricordava il disuso dei registri diversi, dall’alto al basso, dall’aulico al colloquiale, nel linguaggio giovanile, e in quello televisivo, a partire da una classe politica che «tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso»; per arrivare a chi dà del tu agli immigrati e a chi fa del turpiloquio «indifferenziato » un’abitudine. Commenta il professor Pietro Trifone, ordinario di linguistica all’Università di Tor Vergata: «Ha ragione Segre quando dice che è importante l’appropriatezza d’uso di registri diversi. Anche i registri bassi possono essere utilizzati in certi ambiti: per esempio, se nel corso di una lezione io dico "vi state abbioccando" invece che "addormentando", lo faccio perché proprio il cambio di registro può essere efficace. Il fatto che la nostra lingua degradi è spiegabile: si tratta di un patrimonio comune, ma il confronto con il passato ci dice che c’è stato un progresso rispetto a 30-40 anni fa, quando usavamo molto di più il dialetto, o rispetto al periodo postunitario, quando era circa il 10 per cento della popolazione a usare l’italiano; mentre ora che tutti lo parlano (fondandosi peraltro sul modello televisivo) qualche colpo all’eleganza è spiegabile.
D’accordo anche sul fatto che il turpiloquio, diffondendosi ovunque, toglie vivacità alla lingua e perde efficacia. Anche Dante ha scritto parolacce, ha chiamato l’Italia "bordello", ma è stato il primo a usare questa parola. Pesava». «Non butterei tutta la responsabilità sui giovani—precisa Silvia Ballestra—perché il turpiloquio non è più appannaggio dei giovani. Però è vero: la parolaccia è brutta da sentire ma se diventa un intercalare comune si depotenzia. E quando poi vogliamo usare una parolaccia vera, che facciamo? È una zona di eversione del linguaggio che dovrebbe continuare a esistere — mentre i giovanilismi sono come i brufoli, poi passano: la lingua è in movimento, è un organismo vivo che si evolve». Si evolve, anche nel dialetto, sostiene Vitaliano Trevisan: «Per quanto riguarda il dialetto: è vero che nel registro alto perde qualcosa»—Segre ricordava che «i dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono inopportuni ai livelli alti» — «mentre se è vivo, come dalle mie parti, è molto vivo in basso, e ha intatte le sue caratteristiche di inventiva. Anche sul contemporaneo, che è in grado di tradurre per immagini in modo efficace. Sono d’accordo con Segre su un’altra questione: negli uffici pubblici, per la strada, tra la gente comune, c’è questo dare del tu agli immigrati, che è molto fastidioso, non mi piace». Su questo, Ballestra aggiunge: «Segre ha scelto un esempio particolare, perché la parola "vu cumprà" è proprio brutta. E il lei al posto del tu è difficile sia da usare sia da capire. Ci sono lingue, come l’inglese e lo svedese, dove la seconda persona plurale assolve questa funzione ». A proposito del tu, Tommaso Pincio fa notare un altro tu indifferenziato: «In tv i politici sono soliti darsi del tu, poco il lei e solo per sottolineare la volontà di non scendere a patti, non per rispetto ma per disprezzo, con effetti devastanti ».
E racconta un episodio: «Partecipavo a una trasmissione letteraria alla radio, Fahrenheit, in cui ci si dà del lei per statuto, proprio per senso di rispetto. A un certo punto l’intervistatrice mi ha dato inavvertitamente del tu. Subito gli ascoltatori hanno mandato Sms che dicevano "non perdete le buona consuetudine di darvi del lei"». Un elemento, l’attenzione alla lingua, ai registri, che Trifone sottolinea: «La forte sensibilità intorno a questi temi è un bel sintomo, è sensibilità per un valore importante, la lingua italiana». E suggerisce su quali aspetti puntare: «Sulla scuola. Che è però anche la grande accusata (così poi diventa sempre più povera, riceve sempre meno finanziamenti). Ma è qui che si può avere un contatto con i livelli alti della lingua. Poi l’università. E i media: i giornali e la televisione, perché non è possibile ridurre tutto a rissa, a slogan. Su Internet direi che ci sono blog vivaci e molto ricchi linguisticamente, altri di segno opposto». Giulio Mozzi obietta invece: «Se Segre dice che c’è un’evoluzione nella lingua italiana, avrà certo le basi scientifiche per dirlo. Ma decidere che questa evoluzione è inopportuna, questa è un’opinione». Mentre secondo Antonio Scurati «una sorta di compulsione bassomimetica è la manifestazione più evidente del clima di basso impero in cui viviamo».
E continua: «Quella che al tempo di Pasolini era una scelta stilistica tra le altre, ora è una sorta di impossibilità di scelta, un unico orizzonte angusto. Anche in campo letterario, dove la lingua dovrebbe esprimersi al suo massimo, e dove invece abbiamo il predominio di una mimesi coatta del parlato. I registri alti sono sempre più penalizzati anche da una certa ricezione critica». Rincara la dose Pincio: «Il problema non è della lingua, è altrove. Un impoverimento etico e morale, di un Paese che non progetta più il proprio futuro, e che va subito al "sodo", nel senso del prevalere della quantità sulla qualità, del "sodo" a scapito della forma, che considera una scocciatura. Invece il rituale è anche una forma di rispetto ». «In questa restrizione — afferma Scurati — c’è una perdita secca di interi campi di possibilità umane. Non siamo più capaci di tragico, impedito dallo scomparire dei registri alti, sostituito dall’osceno, suo esatto opposto. L’umano si restringe, le nostre risate ci seppelliscono continuamente».
«Il Corriere della sera» del 14 gennaio 2010

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