23 gennaio 2010

Perché gli Usa sono più infelici della Grecia

Due epidemiologi hanno elaborato in un saggio un indice della prosperità. Su Internet il dibattito ha provocato 250 mila riferimenti
di Michele Salvati
Il benessere non dipende solo dal reddito ma dall' eguaglianza. La tesi (imperfetta) di Wilkinson e Pickett
Merita di ritornare sul libro di Richard Wilkinson e Kate Pickett (La misura dell' anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, pp. 304, 18) al quale Michele Farina ha già dedicato una bella recensione su questo giornale il 21 novembre scorso: 250 mila riferimenti su Google nei dieci mesi dalla sua pubblicazione in inglese testimoniano un interesse straordinario e che non accenna a diminuire. La tesi è molto semplice: se si considerano i Paesi ricchi - grosso modo, tra il reddito pro capite del Portogallo e degli Stati Uniti - quelli in cui il reddito è distribuito in modo più diseguale mostrano sistematicamente risultati peggiori per una serie ampia e significativa di indicatori sociali di benessere/malessere. Per citare i principali: disagio mentale (inclusa la dipendenza da alcol e droghe); speranza di vita, mortalità infantile e molte malattie; obesità; rendimento scolastico di bambini e ragazzi; gravidanze in adolescenza; omicidi; tassi di incarcerazione; mobilità sociale; fiducia/sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni. Tranne l'ultimo, che riguarda percezioni soggettive rilevate mediante indagini campionarie, tutti gli altri sono indicatori oggettivi, fenomeni e comportamenti rilevati dalle autorità statistiche sul totale della popolazione. I Paesi più diseguali mostrano risultati peggiori anche se si tratta di Paesi più ricchi, nei quali il reddito pro capite è più alto, spesso molto più alto: gli Stati Uniti, ad esempio, sono un Paese molto ricco, con un reddito pro capite molto elevato, eppure soffrono dei problemi sanitari e dei disagi sociali prima ricordati assai più della Spagna o della Grecia (e anche dell' Italia), che hanno un reddito pro capite assai inferiore. Questo è il messaggio centrale del libro, ribadito e qualificato con un impressionante ammontare di dati per ognuno dei problemi che abbiamo menzionato e per altri ancora: i due autori sono epidemiologi e hanno cominciato a lavorare trent' anni fa sulle cause delle grandi differenze nella vita media e nell' incidenza di varie malattie tra individui appartenenti a diversi strati della società, sul perché le condizioni di salute peggiorano via via che si scende nella scala sociale. Da allora essi hanno esteso le loro indagini a un gruppo sempre più ampio di Paesi e di problemi: non solo problemi sanitari, ma problemi sociali e socio-psicologici, come l' istruzione, la criminalità, la detenzione, la violenza, l' ansia, la fiducia e tanti altri ancora. Ritornando su questo libro straordinario, vorrei soprattutto invitare il lettore a prestare attenzione ad alcuni passaggi fondamentali del ragionamento. Gli sembrano ben costruiti? Lo convincono? Se non lo convincessero, la tesi politica - che bisogna fare quanto è possibile per rendere le società più egualitarie al fine di contenere le gravi disfunzioni sociali cui abbiamo accennato, anzi per renderle «più felici» - ne risulterebbe alquanto indebolita. Anzitutto un problema di metodo. Mostrare che la disuguaglianza nei redditi è fortemente correlata a problemi di disagio sanitario e sociale ancora non vuol dire che la prima sia la «causa» dei secondi. Gli autori sono dei buoni metodologi e conoscono la differenza: assai spesso nel corso del libro e soprattutto in una riflessione conclusiva essi affrontano il problema, eliminando altre possibili spiegazioni del parallelismo tra i due fenomeni in modo da poter concludere che è proprio la diseguaglianza a «causare» le manifestazioni di disagio in esame. Ma non basta eliminare alcune possibili spiegazioni - ce ne possono essere altre - per poter affermare un rapporto causale: bisogna anche spiegare attraverso quali meccanismi, da ultimo di natura psichica, le disuguaglianze di reddito (e non la povertà di per sé) conducono... all' obesità, tanto per fare un esempio. Nello scovare e descrivere questi possibili meccanismi i due autori mostrano una notevole ingegnosità, muovendosi dall' economia alla sociologia, dalla psicologia all' antropologia, dalla storia all' etologia (... saremmo più simili agli altruisti bonobo che agli egoisti scimpanzé), ma grosso modo restando all'interno di quella che gli economisti chiamano «ipotesi del reddito relativo»: per spiegare gli stati d' animo e i comportamenti contano i confronti, le differenze, non i valori assoluti, la ricchezza o la povertà di per sé. Sul fatto che i meccanismi illustrati bastino a dimostrare una relazione causale forte tra diseguaglianza e problemi socio-sanitari e per tutti i fenomeni indagati, io ho qualche dubbio: a volte sono più convincenti, a volte meno. Come ho qualche dubbio che gli autori dimostrino al di là di ogni ragionevole obiezione che una maggiore eguaglianza faccia bene anche ai più ricchi e soprattutto sia percepita da costoro come benefica e per questo li possa indurre a sostenere politiche più egualitarie. Non potendo ora approfondire, mi limito a rinnovare l'invito a esercitare attenzione critica. Lo stesso invito vale per un altro passaggio, altrettanto importante. Uno dei meriti del libro - l'ho già segnalato - è che gli autori si concentrano su manifestazioni oggettive di disagio sociale, non su dichiarazioni soggettive di soddisfazione o insoddisfazione, felicità o infelicità, rilevate attraverso questionari. Ma per passare da quei dati ad affermazioni generali sulla qualità della vita o sulla «felicità» di una società - come spesso fanno i nostri autori - un riferimento alle percezioni soggettive è indispensabile, e di fatto tali riferimenti abbondano nell'analisi dei singoli fenomeni studiati. Quel che mi ha sorpreso è il riferimento brevissimo e insoddisfacente al suicidio. Non solo si tratta di un dato oggettivo, ampiamente disponibile, ma tra i dati oggettivi è forse quello più direttamente collegabile alla felicità percepita soggettivamente: chi si suicida o tenta il suicidio (altro dato disponibile) non è certo una persona felice, mentre potrebbe esserlo una ragazza madre, una persona poco istruita e persino un malato o un carcerato. E non solo i dati sono disponibili, ma la riflessione su di essi è amplissima: con Émile Durkheim, la sociologia è nata alla fine dell' Ottocento proprio riflettendo su questo fenomeno, sul quale è tornato di recente Marzio Barbagli con un libro straordinario (Congedarsi dal mondo, il Mulino, pp. 568, 32). Non sarà che i nostri autori omettono di trattare adeguatamente il suicidio perché i dati contraddicono la loro tesi, perché il suicidio non è per nulla correlato alla diseguaglianza? Da ultimo un passaggio che merita la massima cautela: il passaggio dalle analisi alle raccomandazioni, dall'evidenza scientifica alla politica. Nella prefazione gli autori confessano serenamente che - prima di optare per il titolo prescelto - avevano pensato di intitolare il loro libro «La politica basata sull' evidenza», in analogia con la «medicina basata sull' evidenza», che denomina il principio per cui i trattamenti medici dovrebbero essere basati sui migliori risultati scientifici disponibili circa l' efficacia delle diverse cure. Non potrebbe valere lo stesso per la politica? Non sarebbe il caso di togliere i grandi obiettivi della politica - quelli che definiscono i cardini di un ordine sociale benefico, più egualitario - dalle mani dei politici e degli ideologi, e affidarli agli scienziati? Ho esagerato un poco nel rappresentare le intenzioni ultime degli autori, ma è impossibile non scorgere nella parte finale del libro una buona dose di ingenuità. Sia i poveri che i ricchi sarebbero avvantaggiati «oggettivamente» da una maggiore eguaglianza: di conseguenza non dovrebbe essere difficile spiegare loro come stanno realmente le cose e determinare un radicale cambiamento nell' opinione pubblica, che induca i politici di tutte le tendenze a tenerne conto. È in questo spirito che gli autori hanno creato un sito web (www.equalitytrust.org.uk) per divulgare materiali e creare scambi e legami che favoriscano quel cambiamento. Non vorrei che i miei richiami all' attenzione critica del lettore sminuissero l' interesse per questo libro: la mia intenzione era anzi quella di accrescerlo, di sottolineare la straordinaria importanza dei dati e delle riflessioni che i due autori hanno accumulato. Che una eguaglianza maggiore di quella oggi prevalente in molti dei Paesi più ricchi faccia bene alla società e ai singoli è una convinzione che esce molto rafforzata dalla lettura, anche in coloro che vi erano arrivati attraverso percorsi differenti, meno «scientifici» e più ideologici. E anche nei più scettici, in coloro che temono che una maggiore eguaglianza possa andare a discapito della libertà e dell' iniziativa individuale. E siccome il libro, per quanto leggibilissimo, è pur sempre impegnativo, in questo clima di vacanza lo accompagnerei con un bel romanzo di fantascienza di Ursula Le Guin, The Dispossessed del 1974 (I reietti dell'altro pianeta, Tea edizioni, 2002), dove si racconta di due società, una su un pianeta e l'altra su un suo satellite; una povera e rigidamente egualitaria, ma triste e noiosa; l'altra ricca e con differenze di reddito e status amplissime, ma dinamica e molto piacevole per chi sta dalla parte giusta della distribuzione del reddito. Ogni riferimento al lavoro scientifico che abbiamo appena segnalato, o più in generale al rapporto tra libertà ed eguaglianza, è da intendersi come puramente casuale.
«Corriere della Sera» del 28 dicembre 2009

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