17 gennaio 2010

Galileo scrittore? Oltre la cesura fra scienza e letteratura

di Bianca Garavelli
Che la letteratura italiana abbia anche una dimensione scien­tifica è un fatto che tende a passare inosservato: esempio valido per tutti i tempi è la Divina Comme­dia, in cui Dante per costruire il suo aldilà si serve delle più attuali nozio­ni scientifiche del suo tempo. Ma do­po di lui le distanze tra quelli oggi considerati due saperi si fanno più grandi, fino a far parlare di «due cul­ture » ben distinte Charles Snow nel 1959. Una distinzione che sembra a­verci impoverito: tipico effetto nega­tivo nell’Italia del Novecento ne è stata l’eccessiva ricerca di un’utopica «poesia pura» a partire da Benedetto Croce. Da un lato infatti la scuola crociana ha salvato dal rischio di ca­dere in un eccessivo tecnicismo filo­logico, dall’altro però ha impedito di valorizzare i molti contenuti filosofi­ci, scientifici, e persino religiosi che costituiscono il tessuto connettivo di opere fondamentali della nostra sto­ria letteraria. Ora in questo saggio denso di spunti stimolanti Eraldo Bellini, ordinario di Letteratura Ita­liana all’Università Cattolica di Mila­no, mostra che riconnettere i fili che legano scienza e letteratura è possi­bile attraverso l’analisi di un secolo in cui la cesura in questione si è pro­dotta: il Seicento, dove l’opera di Ga­lileo ha segnato effetti durevoli. In­fatti, se nel grande scienziato e scrit­tore la compresenza di abilità retori­ca e competenza scientifica è inne­gabile, tuttavia proprio Galileo co­mincia a cercare una distinzione fra sapienza «dei poeti» e sapienza di chi, come lui, ha a che fare con la ri­cerca della verità scientifica. In altre parole, se per meglio esporre le pro­prie idee scientifiche Galileo non esi­ta a fare ricorso alle sue conoscenze letterarie e alla sua stessa esperienza di scrittore, tuttavia è sempre lui a considerare la propria identità di scienziato come unica, e a ribadire la sua lontananza dagli altri letterati del suo tempo. Una posizione che in­fluenzerà la letteratura successiva, almeno per i decenni centrali del di­ciassettesimo secolo. Bellini dunque ci fa entrare nel laboratorio retorico di Galileo: in presenza di una profon­da convinzione scientifica, a volte ri­voluzionaria, lo scienziato scrittore mette in atto un apparato di artifici retorici, alcuni dei quali di evidente origine dantesca e ariostesca. Per e­sempio, nel Dialogo sopra i due mas­simi sistemi, descrive le caratteristi­che astronomiche della Terra, in mo­vimento nel cielo, con un’intensa a­nafora, figura rara nei suoi scritti, che somiglia da vicino a quella con cui Dante esalta le qualità della Madon­na nella celebre preghiera dell’ulti­mo canto del Paradiso. Ed è in que­sta capacità di creare immagini l’es­senziale comune denominatore fra Galileo e gli autori coevi, che lui stes­so apprezza con orgoglio: la scrittura è lo strumento quasi miracoloso di diffusione del sapere, che permette di oltrepassare i confini dello spazio e del tempo. Una duplice consape­volezza, di appartenere alla schiera dei letterati ma anche a quella, anco­ra in formazione, degli studiosi delle cose del mondo, che lo rivela un in­novatore e una figura originale, che forse solo in Calvino troverà un de­gno erede letterario.

Eraldo Bellini, STILI DI PENSIERO NEL SEICENTO ITALIANO: Galileo, i Lincei, i Barberini, Ets, pp. 248, € 16,00.
«Avvenire» del 16 gennaio 2010

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