06 gennaio 2010

Elogio ragionato della ricchezza e dello spreco (di michette)

di Carlo Stagnaro
L’ultima è quella del pane. Se raccogliessimo ogni briciola e ogni avanzo, farebbero 244 mila tonnellate di cibo all’anno, pari a un miliardo di euro, abbastanza per 636.600 persone, col corollario immancabile e politicamente corretto di 291.393 tonnellate di anidride carbonica in meno. Com’è possibile? Semplice: possiamo permettercelo. Lo spreco non è uno scandalo, è la condizione dell’esistenza. Lo spreco è un giudizio soggettivo: esiste perché, nella nostra percezione, i beni scartati valgono meno dello sforzo che dovremmo fare per salvarli. Lo spreco esiste in qualunque economia non di sussistenza, e probabilmente anche lì. Ora, sarà vero che è possibile – a costo zero, o addirittura guadagnandoci – ridurre gli avanzi. In fondo, trovare un equilibrio è lo sforzo quotidiano di milioni di aziende, e di famiglie, che cercano di centellinare i quattrini. Il problema è pretendere di misurare lo spessore etico della gente con le baguette ammuffite, e trasformare uno sforzo individuale in un obbligo collettivo.
E poi non solo pane spreca l’uomo. Anche l’energia, che se solo spegnessimo il fottutissimo led rosso della tivù, bye bye Arabia Saudita. Per non dire dell’acqua, che se tenessimo le mutande del giorno prima ci disseteremmo eserciti di poveracci. E via via. Gran parte dell’isteria antispreco poggia su un pregiudizio: poiché con gli scarti di uno si potrebbe nutrire l’altro, tra le due cose si istituisce un nesso causale. Se Tizio non sprecasse, Caio starebbe benone. Se gli italiani abolissero il bidet, l’acqua zampillerebbe nel deserto. In verità, se mangiassimo tutto saremmo solo un po’ più obesi. Non c’è alcuna relazione, in generale, tra l’opulenza di questo e la miseria di quello. Anzi: è più spesso vero il contrario. Il povero sarebbe ancora più povero, se il ricco fosse meno ricco, perché questi consumerebbe meno. Lo ha detto incredibilmente bene nei giorni scorsi Victoria Beckham che, accusata di aver ecceduto nei regali, ha risposto: “La sobrietà non aiuta l’economia, la uccide”.
C’è semmai un legame, strettissimo, tra spreco e ricchezza (sociale così come individuale): non è che siamo ricchi perché sprechiamo (e per lo stesso motivo altri sono poveri), è che sprechiamo perché siamo ricchi. E se anche astrattamente fosse vero che l’uomo frugale sarebbe migliore di quello dalle mani bucate, il mondo vero è popolato dalla seconda categoria di individui. I primi vivevano nelle caverne. Pensarla altrimenti significa credere che esista uno stock finito di beni e servizi e dunque una fetta più grande va sempre assieme a un’altra fetta più piccola. Per dare l’acqua agli assetati c’è una sola scelta: farli diventare capitalisti e dotarli delle tecnologie necessarie a fare pozzi più profondi o desalinizzare l’acqua del mare, e stendere le condutture da dove l’acqua c’è a dove serve.
L’economia di mercato, occorre ricordarlo, è una prodigiosa macchina per creare e distribuire benessere e ricchezza: e in questo senso causa sprechi. Cioè: ci mette nella condizione di vivere di più e meglio, consumando più cose e migliori. Oltre tutto, le politiche antispreco costano più di quel che rendono (tant’è che sono agghindate da richieste di sussidi). Il confine tra le buone intenzioni e gli interessi più prosaici è davvero labile. Del resto, solitamente chi non spreca non ha nulla da sprecare.
Beato il mondo che non ha bisogno di risparmiare.
«Il Foglio» del 5 gennaio 2010

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