29 gennaio 2010

Critiche al riduzionismo sulla mente

di Andrea Vaccaro
Da qualche tempo, nel campo della scienza, stiamo assistendo a spetta­coli a cui, francamente, non erava­mo abituati. Contrapposte fazioni di parte sono la sostanza della politica da quando, per l’appunto, sono nati i partiti; visioni di­vergenti sono comparse sin dagli albori della filosofia; anche le comunità religiose hanno vissuto, con sofferenza, scissioni in­terne. Che questo potesse però accadere anche alla scienza – ultimo baluardo di pensiero unico – era del tutto inaspettato.
Il destro è stato offerto dal dibattito inter­no alla neuroscienza su cervello, mente e coscienza; oggetto di disputa è finito per diventare uno dei tratti strategici dell’iter scientifico, nientemeno che il metodo ri­duzionista. Sin dalle origini e per statuto, la scienza ha seguito la prassi di ricondur­re ogni fenomeno ai suoi costituenti ultimi materiali per poterli poi studiare tramite le leggi della fisica e della chimica. E i risulta­ti conseguiti sono stati ineccepibili. Di­nanzi alla realtà del mentale, però, qualco­sa si è rotto; il paradigma riduzionista è deflagrato e l’insoddisfazione a lungo trat­tenuta da parte di alcuni scienziati ed epi­stemologi è straripata quasi con virulenza linguistica. Le risposte non si sono lasciate attendere e così la polemica è cresciuta di tono. Gerald Edelman, che può vantare un premio Nobel per la Fisiologia e numerosi e importanti studi sul tema, scrive che: «nonostante il successo riportato finora, il riduzionismo diventa sciocco se applicato in maniera assoluta alla materia della mente»; più che inadeguato, esso è «sem­plicemente assurdo», come voler cogliere il mistero affascinante della Gioconda a­nalizzando uno ad uno i suoi pigmenti di colore (Sulla materia della mente). A Tho­mas Nagel, autore di un argomento cru­ciale di filosofia della mente, il «program­ma riduzionista» applicato alla coscienza appare «completamente fuorviante», «e­stremamente implausibile», «intellettual­mente arretrato e scientificamente suici­da » (Uno sguardo da nessun dove). Per Jerry Fodor, nome altisonante nell’ambito delle scienze cognitive, quel fisicalismo sbandierato ad oltranza da scienziati «per­dutamente innamorati di neuroni e con­nessioni sinaptiche» è spudoratamente u­na «assunzione metafisica», per di più, di una metafisica «totalmente assurda» e «folle» (Cervelli che parlano). Lo spazio an­drebbe ingigantito per rendere l’idea di quanto folto sia tale schieramento critico.
Per John Searle, certo riduzionismo è «profondamente antiscientifico e incoe­rente »; per David Chalmers «nessuna spie­gazione data interamente in termini fisici potrà mai rendere conto dell’emergere dell’esperienza conscia»; per Donald Da­vidson «i concetti per descrivere il pensie­ro hanno un carattere normativo irriduci­bile »; secondo Joseph Levine «tra il fisico e l’esperienza cosciente vi sarà sempre una lacuna esplicativa (explanatory gap) »; Gre­gory Bateson definiva il materialismo ridu­zionista «un incubo insensato». Dalla sponda opposta, con altrettanta sicurezza, si ribadisce che la scienza è riduzionista o non è scienza e si qualificano tali argo­mentazioni come sciatte, ostili alla vera conoscenza, antiscientifiche per eccellen­za. Sinora la scienza aveva controbattuto, compatta, ad obiezioni provenienti da fonti esterne, compresa la fonte religiosa.
Adesso le obiezioni nascono all’interno: su aspetti metodologici centrali; da voci indi­scutibilmente autorevoli; con espressioni perfino veementi. Forse qualcosa di nuovo e di davvero notevole, in questo ambito, sta prendendo forma.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

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