31 gennaio 2010

Perché dovremmo dire no al burqa e invece sì ad aborto ed eutanasia?

di Pier Giorgio Liverani
Che differenza c’è tra il burqa e l’aborto o il suicidio? La domanda, apparentemente assurda, è motivata.
Su il Manifesto (giovedì 28) e a proposito della proposta di vietare il burqa anche in Italia, Giuliana Sgrena afferma che quel velo «innanzitutto offende la dignità della donna, poi anche i valori della Repubblica se intesi come i valori universali nati dalla Rivoluzione Francese». Esistono, dunque (ma c’erano anche da molti secoli prima della Rivoluzione), alcuni valori universali che esigono il rispetto di tutti e di fronte ai quali le scelte individuali non possono essere giustificate. Lo dice un giornale 'che più laico non si può'.
Il medesimo giorno l’Unità dedicava due pagine al bioeticista superlaico Hugo Tristram Engelhart, texano di origine tedesca, sostenitore di un’etica pragmatica e utilitaristica, quindi senza principi. A Milano costui aveva presentato un libro sulla «laicità vista dai laici». Ecco alcuni concetti cari all’eticista texano: «Il divieto di suicidio, di suicidio assistito, di eutanasia non è altro che un tabù, un complesso di proibizioni [...] che non ci appaiono più degni di essere presi sul serio, perché l’unica guida alle nostre scelte deriva dal consenso delle persone coinvolte». In breve ecco la ricetta morale di Engelhart, notoriamente sostenitore anche dell’aborto: «Pratica la tua convinzione finché non danneggia quella degli altri». Anche Emma Bonino dichiara sull’Espresso (con la data del 4 febbraio) che, «in un paese civile 'Io non lo farei' non può diventare 'tu non lo fare'»: dove si vede che, per i 'laici', i valori universali non contano nulla e, anzi, che la loro 'laicità' nega il principio che fonda la società umana: il bene comune (compreso quello enunciato in testata dall’Unità).
Una società civile nasce per essere garante della vita e del bene dei suoi membri sulla base di un’etica condi­visa. Dovrebbe essere ovvio che, invece, è tutt’altro se affida ai singoli le scelte fondamentali. Dunque, se no al burqa, no almeno anche ad aborto, suicidio ed eutanasia.
«Avvenire» del 31 gennaio 2010
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Donne e islam
di Giuliana Sgrena
Il velo dell'ipocrisia in difesa dell'identità
Sembra un dibattito surreale dopo che qualcuno aveva giustificato una guerra per eliminare il burqa. Era solo un subdolo pretesto, con esito grottesco, giocato sulla pelle delle donne, visto che il burqa non si porta più solo in Afghanistan ma anche in Europa. Dalla Francia la discussione sul divieto - per legge - dell'uso del burqa e del niqab (veli integrali con la sola differenza che il primo ha una rete all'altezza degli occhi e il secondo lascia una fessura) rimbalza in Italia. La Francia non è nuova a simili divieti, con una legge del 2005 sono già stati aboliti i simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici. Eppure il dibattito sul burqa è forse più teso di allora. Da parte dei fautori del relativismo culturale si invoca la «libertà di espressione» mentre il presidente Sarkozy si oppone al burqa perché «offende i valori della Repubblica». Il burqa innanzitutto offende la dignità della donna, poi anche i valori della repubblica se intesi come i valori universali nati dalla rivoluzione francese.
Chi difende il burqa o il velo in nome dell'identità, della tradizione o della religione lo fa per ipocrisia o per ignoranza. Sappiamo che le tradizioni si superano (non avevamo forse anche in Italia il fazzoletto in testa, il tabù della verginità e le attenuanti per il delitto d'onore?), che il corano non prescrive l'uso del velo e tanto meno del burqa, vietato anche dal gran muftì di al Azhar, la massima autorità sunnita, e infine che l'unica identità riconoscibile dietro un simile simulacro è quella wahabita, la versione più integralista dell'islam che è religione di stato in Arabia saudita. Che si diffonde in tutto il mondo a suon di petrodollari.
Il problema è dunque se vogliamo aiutare donne, come noi, ad affermare i loro diritti o sostenere un sistema patriarcal-tribal-religioso sessista che usa il velo come controllo della sessualità della donna. Con il velo la donna deve garantire l'onore del maschio nascondendo le parti del suo corpo che potrebbero indurlo in tentazione. E se cade in tentazione è sempre la donna a pagare con il delitto d'«onore».
Anche l'Italia, che non ha mai avuto una politica sulla migrazione (affrontata solo in termini umanitari o di sicurezza), si trova ad affrontare la questione del burqa. Dal punto di vista della sicurezza (riconoscibilità della persona) c'è già una legge del 1975 che vieta di andare con il viso coperto, anche se l'applicazione viene lasciata alla discrezionalità dei funzionari. Ma qui non si tratta tanto di sicurezza quanto dei diritti delle donne, gli stessi che noi abbiamo faticosamente conquistato e che ogni giorno vengono messi in discussione. Non possiamo permettere a donne di essere private della possibilità di comunicare con il mondo in cui vivono perché isolate da un velo.
Lo si può fare con una legge? In Italia probabilmente no, perché non siamo un paese laico, ma terra disseminata di simboli e superstizioni religiose: invece di aiutare queste donne finiremmo per renderle doppiamente vittime. Occorre prima garantire loro gli stessi nostri diritti per pretendere il rispetto delle nostre leggi. Solo giustizia e uguaglianza possono eliminare la violazione dei diritti e l'intolleranza.
«Il Manifesto» del 28 gennaio 2010

30 gennaio 2010

Embrioni, la lista degli scarti

Anche malattie 'lievi' nell’elenco delle disfunzioni che autorizzano la selezione preimpianto
s. i. a.
Alle cliniche del Regno Unito non servirà più un permesso speciale per distruggere gli embrioni che riportano difetti genetici anche minori. La Human Fertilisation and Embryology Authority, l’ente che regola il settore della fecondazione artificiale ed embriologia, ha pubblicato qualche giorno fa una lista di 116 malattie genetiche ereditarie che se diagnosticate durante la fecondazione artificiale possono dare il via alla distruzione dell’embrione. La notizia ha sollevato critiche e preoccupazione perché tra queste condizioni ereditarie ce ne sono molte che garantiscono a un essere umano una qualità di vita decorosa e in alcuni casi, come dimostrato in passato, anche eccezionale. Domenica scorsa il Sunday Times sottolineava come alcuni grandi personaggi della nostra storia, per esempio Abramo Lincoln o Charles De Gaulle, siano riusciti a condurre una vita esemplare nonostante avessero una malattia oggi inclusa nella lista della HFEA, la sindrome Marfan, o come altri, per esempio Pete Sampras, sia riuscito ad eccellere nel tennis anche se malato di talassemia, sempre nell’elenco. «La notizia è terrificante – ci spiega Josephine Quintavalle di Core, Comment on Reproductive Ethics – e ancora di più se si considera che molti embrioni vengono scartati anche prima di essere diagnosticati difettosi. Se per esempio nella famiglia di una coppia che cerca di concepire attraverso la fecondazione artificiale c’è un nonno che ha avuto una malattia grave, gli embrioni che riportano i geni del nonno vengono eliminati automaticamente ancora prima di essere sicuri che questi contengano la stessa malattia. In poche parole è molto probabile che saranno distrutti embrioni assolutamente sani».
Per David King, direttore del gruppo Human Genetic Alert, l’iniziativa della HFEA «è un’ulteriore conferma dell’ossessione esistente in questo Paese di cercare la perfezione a tutti i costi quando sappiamo bene che la perfezione non esiste e che è sbagliato sbarazzarci di una vita perché questa non è perfetta. E contribuisce alla creazione di un clima sociale in cui anche le più piccole deviazioni da quella che è considerata la normalità vengono considerate inaccettabili».
La procedura per identificare anormalità genetiche ereditarie conosciuta con il nome di Pdg (Pre­implantation genetic diagnosis) consiste nel rimuovere alcune cellule da un embrione tre giorni dopo la fecondazione. Gli embrioni che presentano cellule con geni a rischio vengono scartati mentre quelli considerati sani vengono impiantati nell’utero della madre.
«Purtroppo siamo solo all’inizio di questa folle corsa verso ciò che non si può altro che chiamare eugenetica», conclude la Quintavalle. L’autorità sta infatti valutando in questi giorni la possibilità di aggiungere alla lista altre 24 malattie ereditarie. Tra queste c’è anche la porfiria, una malattia genetica del sangue che provoca squilibri mentali e che negli ultimi anni del suo regno fu responsabile della 'pazzia' di Giorgio III. Il sovrano morì nel 1820, a 82 anni d’età.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

L'eterno riposo? Assieme al proprio pet In Gran Bretagna boom di cimiteri misti

di Francesco Tortora
LONDRA - Riposare per l'eternità assieme a Fido. Negli ultimi anni è cresciuto in maniera esponenziale il numero dei cittadini inglesi che decidono di essere sepolti accanto ai propri animali domestici. Il fenomeno è talmente in espansione che la scorsa settimana la contea britannica del Lincolnshire ha approvato la creazione di una serie di cimiteri misti per accogliere in futuro le salme di quei cittadini che intendono restare vicino ai propri amici a 4 zampe anche dopo aver esalato l'ultimo respiro. In questi singolari camposanti gli esseri umani potranno riposare non solo con i più classici animali domestici, come cani e gatti, ma anche con i cavalli e con gli altri animali che tanto hanno amato durante la loro vita terrena.
TRADIZIONE ANTICA - Come ricorda il Daily Telegraph le sepolture miste non sono affatto un'invenzione dei tempi moderni. Nel mondo antico (lo dimostrano le tombe dei faraoni d'Egitto e quelle delle più antiche popolazioni celtiche) la pratica di essere sepolti con animali era molto diffusa e cominciò a scomparire solo con l'affermarsi del Cristianesimo. Oggi la tradizione delle sepolture miste è rinata anche grazie a pionieri come Penny Lally, che gestisce il Woodland Burial Place, cimitero di Penwith, in Cornovaglia. All'inizio era un camposanto solamente per animali, ma dal 2003 più di 30 persone sono state seppellite a fianco dei propri animali domestici. Secondo quanto racconta la proprietaria al sito web del network americano Abc, almeno altre 120 persone hanno già prenotato nel cimitero un piccolo appezzamento di terra da dividere in futuro con il proprio animale domestico: «Molte persone che decidono di acquistare una tomba qui, lo fanno perché vogliono essere sepolte con i loro animali domestici - dichiara la signora Lally che ha anche creato un sito web per pubblicizzare il suo cimitero misto. Gli inglesi amano i loro animali. Sono parte della loro vita e offrono tanto amore. Perché abbandonarli dopo la morte?».

AMORE INCONDIZIONATO - La cinquantaquattrenne Carole Mundy è una presenza costante al cimitero di Penwith. Per 3.500 sterline ha comprato nel cimitero un appezzamento di terra, dove intende essere seppellita assieme a suo marito Robert il giorno in cui entrambi passeranno a miglior vita. Qui ha già sepolto già il suo amato Dylan, un golden retriever morto a 17 anni nel febbraio del 2008. Carole, che visita spesso la tomba di Dylan, intende seppellire nello stesso appezzamento di terreno anche gli altri animali che oggi allietano le sue giornate, i tre cani Sir Lancelot, Queen Guinevere e Sir Galahad, i due graziosi gatti e il cavallo Merlin, uno splendido mezzosangue irlandese: «Oltre ad essere il miglior cane del mondo, Dylan è stato un amico fantastico e non capisco perché non dovrei dividere con lui il riposo eterno – sostiene Carole –. Mi fanno tanto adirare quelle persone che mi ripetono fastidiosamente "è’ solo un cane"-. Gli animali ti danno un amore incondizionato, non vi rimproverano e non vi giudicano mai». Tuttavia, in Inghilterra numerosi gruppi religiosi hanno fortemente criticato la riscoperta dei cimiteri misti. Alle critiche la signora Mundy risponde: «Personalmente non ho convinzioni religiose e per quanto mi riguardo preferisco essere seppellita assieme ai miei animali piuttosto che in qualsiasi altro luogo. Se poi il terreno non è consacrato, me ne farò una ragione».
«Corriere della sera» del 28 gennaio 2010

Sant’Agostino e la fiction di qualità punta di diamante in casa Rai

Il direttore della fiction Rai Del Noce non teme la concorrenza di programmi più popolari. E il produttore Ettore Bernabei crede nella maturità del pubblico televisivo
di Annalisa D'Aprile
Agostino d’Ippona: il peccatore diventato santo, il brillante e spregiudicato oratore convertito alla parola di Dio, il lussurioso ritenutosi indegno dei voti. Al filosofo e teologo Sant’Agostino, il settore fiction della Rai ha dedicato un film in due puntate (Raiuno, domenica 31 gennaio e lunedì 1 febbraio), firmato dalla casa di produzione esperta in fiction religiose, la Lux Vide, in collaborazione con Germania e Polonia.
Dalla vita dissoluta del giovane uomo (interpretato da Alessandro Preziosi) alla conversione, nella quale sono fondamentali le figure del vescovo di Milano, Ambrogio (Andrea Giordana) e la madre Monica (Monica Guerritore), fino alla maturità di quello che diviene vescovo d’Ippona (con il volto di Franco Nero). Una biografia complessa dunque, quella diretta dal canadese Christian Duguay (regista di Coco Chanel, Human Trafficking e della prossima miniserie su Pio XII), che tralascia il Sant’Agostino filosofo, soffermandosi sull’uomo che incontra Dio sullo sfondo dello sgretolamento dell’Impero Romano.
Un racconto impegnativo (forse troppo?) per il pubblico che spesso sembra gradire la leggerezza di talent e reality show? Secondo Ettore Bernabei, presidente onorario della Lux, ex direttore generale della Rai tra gli anni ’60 e ‘70, “il pubblico è maturo, Sant’Agostino è un personaggio storico, ma è anche un percorso di un uomo che avrebbe potuto vivere nei nostri giorni”. “Molti pensano si possano dare ai telespettatori cose banali e narcotizzanti - sostiene Bernabei - invece il pubblico è disposto anche a vedere qualcosa di più impegnativo. Pinocchio (miniserie trasmessa da Raiuno domenica 1 e lunedì 2 novembre 2009, ndr) ha realizzato due milioni di spettatori in più di un trans in un reality show (il riferimento è al Grande Fratello ed alla storia di Elettra diventata Gabriele, ndr)”.
Non teme lo scontro, né ha mai pensato ad una collocazione in palinsesto diversa, il direttore di Rai Fiction, Fabrizio Del Noce: “Un prodotto come questo non va ghettizzato in periodi non competitivi. Dovremmo andare in onda ad agosto per non avere contro nessuno? No, sono contrario alle riserve indiane. Come ha ricordato Bernabei, il risultato di Pinocchio, genere comunque molto differente da Sant’Agostino, indica la disponibilità del pubblico a tematiche meno popolari di un reality. Speriamo in un buon risultato, con il 2 davanti (il direttore si riferisce alle cifre dello share, quindi dal 20% in su, ndr) sia per la prima che per la seconda puntata”.
«La Repubblica» del 29 gennaio 2010

Due estremismi in un burqa

Simboli ed identità: i dubbi dell'EuropaLe
di Riccardo Chiaberge
«La proposta di legge anti-burqa dimostra solo l'imbarazzo della classe politica francese: si fustiga il burqa senza proibirlo in modo assoluto. Il burqa è rifiutato dall'opinione pubblica, non c'è dubbio, ma su quale base giuridica lo si può vietare, se non per ragioni di sicurezza in luoghi specifici (poste, stazioni, eccetera)? Tanto più che le donne in burqa, spesso convertite di fresco, portano questo abito volontariamente, in modo ostentato, per provare la loro fede. Come si può considerare segno di schiavismo o di subordinazione un atto di fede, anche se ci appare esibizionistico? È il paradosso del burqa, che dà una maggiore visibilità proprio a ciò che vuole nascondere: la donna devota! Alla stessa stregua, come ai tempi della Rivoluzione francese, dovremmo proibire gli ordini contemplativi cattolici, dove uomini e donne credenti si rinchiudono per libera scelta in nome della fede?».
Un po' come i vostri vicini di casa della Badia, vero professore? Olivier Roy, sessant'anni, ha il sorriso pacioso di un abate, in perfetta sintonia con lo spirito del luogo: il Centro "Robert Schuman" dell'Istituto universitario europeo è in un antico convento domenicano sulla collina di Fiesole, e forse è proprio Domenico il santo affrescato sulla porta della cella-ufficio. Fuori, il sole di gennaio accarezza gli ulivi con un presagio di primavera. Da anni, in libri come Il fallimento dell'Islam politico, Global Muslim o La santa ignoranza, l'orientalista e politologo francese esplora i paradossi di un mondo dove secolarizzazione e fondamentalismo religioso si rincorrono e si alimentano a vicenda. «Non c'è contraddizione - spiega Roy -. La secolarizzazione funziona, prosegue la sua marcia anche in paesi di tradizione cattolica come l'Italia o la Spagna. Ma secolarizzazione non significa per forza laicità alla francese, cioè esclusione del fatto religioso dalla sfera pubblica. In una società secolarizzata, la religione non scompare: semmai si isola, e perde ogni legame con le proprie radici culturali. E in questo modo diventa più visibile e più intensa. La gente che oggi si accosta alla religione lo fa per cercare non una cultura, ma un'esperienza spirituale e/o un'identità, l'appartenenza a una comunità. Si entra in una setta, in una chiesa evangelica, non perché si è nati in un quartiere ma perché ci si identifica in un gruppo. Le stesse parrocchie cattoliche, almeno in Francia, non sono più entità territoriali ma comunità di fede. Ci sono movimenti, come Comunione e Liberazione in Italia, che esigono un'adesione totale e al tempo stesso diffidano del ritorno al politico. Si battono per i loro obiettivi, contro l'aborto o la fecondazione assistita, ma non vogliono una nuova Democrazia cristiana. Troppa politica per loro significa laicizzarsi, perdere l'essenziale del religioso. Su un piano diverso, anche i musulmani salafiti respingono l'idea di uno stato islamico, che rischia di annacquare la purezza della fede».
Ma è un altro lo spettro che si aggira per l'Europa di oggi, quello che campeggiava nei manifesti per il referendum contro i minareti in Svizzera: uno spettro femminile senza volto. Il burqa, appunto, è diventato il simbolo di un'alterità inquietante, che non si lascia omologare. Tra banlieue e Londonistan, la via francese dell'integrazione laica e quella del multiculturalismo all'inglese sono entrambe naufragate... «Proprio così - annuisce Roy -. Perché nessuno dei due ha capito che è saltato il nesso tra religione e cultura. In Francia, essere cittadino della République significa confinare la religione nel privato. Per gli inglesi, multiculturalismo e multiconfessionalismo sono la stessa cosa. Chi è musulmano è straniero per definizione. Questa identificazione, come ho detto, non regge più. Molti immigrati di seconda generazione dicono: io sono francese, e però sono anche musulmano. Non arabo! O viceversa: sono arabo, ma non musulmano. Ha sollevato un putiferio il sindaco di Marsiglia, Jean-Claude Gaudin, che dopo l'incontro di calcio Algeria-Egitto ha commentato: «Abbiamo visto 20mila musulmani invadere le strade della città, e nessuna bandiera francese!». E i tifosi, giustamente, gli hanno replicato: ma noi festeggiavamo come algerini, non come islamici!».
Il presidente Sarkozy aveva lanciato a suo tempo lo slogan della «laicità positiva»: un maggiore rispetto e attenzione al fatto religioso nella vita pubblica, inclusi i simboli come il velo. Ma, secondo Roy, ha fatto rapidamente macchina indietro: «Ora sta riprendendo tutte le idee della destra classica: rafforzamento dello Stato, diffidenza verso l'Islam, discorsi contro l'immigrazione, difesa dell'identità francese. Credo si tratti di puro calcolo politico. Ha capito che quella linea non gli faceva guadagnare consensi né a sinistra né a destra. La sinistra in Francia è tradizionalmente molto laica. E quanto alla destra, resta ancorata all'identità cristiana, la componente liberale è minoritaria».
Da Berna all'Aia, da Roma a Parigi, monta il pregiudizio anti-islamico, fomentato dalle minacce di al-Qaeda. «Ma perché facciamo guerra all'Islam? - si domanda Roy, capovolgendo il luogo comune secondo cui è l'Islam radicale, semmai, a farci la guerra. - Per una parte della sinistra, l'Islam va combattuto in nome della laicità, dei diritti dell'uomo e della parità tra i sessi. Ma sempre di più lo si fa in nome dell'identità cristiana. Perfino intellettuali come Max Gallo, un ex-gauchiste che adesso va in chiesa, anche se non crede in Dio, al solo scopo di sostenere la civiltà europea, proprio come la vecchia Action française di Maurras (che peraltro la Chiesa condannò nel 1926). La sinistra è in un'impasse. Non ha saputo concepire un discorso di libertà sul problema religioso. Chiede solo di proibire il velo. E finisce così per allinearsi alla destra cristiana. Ma come conciliare il matrimonio gay e l'identità cristiana dell'Europa? C'è anche una sinistra terzomondista, specialmente in Inghilterra, che simpatizza con l'Islam in quanto strumento di riscatto degli oppressi, ma in tal modo giustifica i fondamentalisti».
Roy mi mostra la copertina di un libro appena uscito in Turchia: Osama Bin Laden, il Che Guevara d'Oriente, con le due icone sovrapposte in un collage surreale, che fa rabbrividire. «Il paragone non sta in piedi. Ma è la prova migliore che l'estrema sinistra, orfana del comunismo, subisce oggi il fascino dei movimenti radicali islamici».
Hanno ragione allora quelli che vorrebbero arginare "l'invasione" musulmana, vietando la costruzione di nuove moschee, vivaio di futuri terroristi? «Assurdo. L'immigrazione avverrà con o senza moschee. E la libertà religiosa è uno dei fondamenti della cultura politica europea. Si facciano dei minareti in stile svizzero, delle moschee all'occidentale, moderne. Ma non si chieda agli immigrati di convertirsi o di rinnegare la loro fede».
«Il Sole 24 Ore» del 30 gennaio 2010

«Tommaso d’Aquino, genio e santità»

Intelligenza libera e fedeltà creativa al «depositum fidei». Capacità di «armonizzare fede e ragione» di fronte alle questioni cruciali del proprio tempo. Benedetto XVI addita l’esempio del grande teologo e filosofo che seppe confrontarsi con la tradizione greca, il pensiero ebraico e il pensiero arabo
di Benedetto XVI
Pubblichiamo stralci del discorso tenu­to ieri da Benedetto XVI ai membri delle Pon­tificie Accademie in occasione della 14ª «Se­duta pubblica»
Sono lieto di accogliervi e di incontrarvi, in oc­casione della Seduta pubblica delle Pontificie accademie, momento culminante delle mol­teplici attività dell’anno. (...) Oggi, memoria di san Tommaso d’A­quino, grande dottore della Chiesa, desidero proporvi alcune riflessioni sulle finalità e sulla missione specifica delle benemerite istituzioni culturali della Santa Se­de di cui fate parte e che vantano una varie­gata e ricca tradizione di ricerca e di impegno in diversi settori. (...) Tante occasioni, dunque, per rivisitare il passato, attraverso la lettura attenta dei pensieri e delle azioni dei fondatori e di quanti si sono prodigati per i progresso di queste istituzioni. Ma lo sguardo retrospetti­vo e la memoria del glorioso passato non pos­sono costituire l’unico approccio a tali even­ti, che richiamano soprattutto il compito e la responsabilità delle Accademie Pontificie di servire fedelmente la Chiesa e la Santa Sede, rinnovando nel presente il ricco e diversifica­to impegno, che già ha prodotto preziosi frut­ti anche nel recente passato.
La cultura contemporanea, e ancor più gli stes­si credenti, infatti, sollecitano continuamen­te la riflessione e l’azione della Chiesa nei va­ri ambiti in cui emergono nuove problemati­che e che costituiscono anche settori in cui o­perate, come la ricerca filosofica e teologica; la riflessione sulla figura della Vergine Maria; lo studio della storia, dei monumenti, delle testimonianze ricevute in eredità dai fedeli del­le prime generazioni cristiane, a cominciare dai martiri; il delicato ed importante dialogo tra la fede cristiana e la creatività artistica, a cui ho voluto dedicare l’incontro con personalità del mondo dell’arte e della cultura, svoltosi nella Cappella Sistina lo scorso 21 novembre. In questi delicati spazi di ricerca e di impegno, siete chiamati a offrire un contributo qualifi­cato, competente e appassionato, affinché tut­ta la Chiesa, e in particolare la Santa Sede, pos­sa disporre di occasioni, di linguaggi e di mez­zi adeguati per dialogare con le culture con­temporanee e rispondere efficacemente alle domande e alle sfide che l’interpellano nei va­ri ambiti del sapere e dell’esperienza umana.
Come ho più volte affermato, l’odierna cultura risente fortemente sia di una vi­sione dominata dal relativismo e dal soggettivismo, sia di metodi e atteggiamenti talora superficiali e perfino banali, che dan­neggiano la serietà della ricerca e della rifles­sione e, di conseguenza, anche del dialogo, del confronto e della comunicazione inter­personale. Appare, pertanto, urgente e neces­sario ricreare le condizioni essenziali di una reale capacità di approfondimento nello stu­dio e nella ricerca, perché ragionevolmente si dialoghi ed efficacemente ci si confronti sul­le diverse problematiche, nella prospettiva di una crescita comune e di una formazione che promuova l’uomo nella sua integralità e com­pletezza.
Alla carenza di punti di riferimento ideali e morali, che penalizza particolarmente la con­vivenza civile e soprattutto la formazione del­le giovani generazioni, deve corrispondere un’offerta ideale e pratica di valori e di verità, di ragioni forti di vita e di speranza, che pos­sa e debba interessare tutti, soprattutto i gio­vani. Tale impegno deve essere particolar­mente cogente nell’ambito della formazione dei candidati al ministero ordinato, come esi­ge l’Anno Sacerdotale e come conferma la fe­lice scelta di dedicargli la vostra annuale Se­duta pubblica. na delle Pontificie Accademie è inti­tolata a san Tommaso d’Aquino, il Doctor Angelicus et communis, un mo­dello sempre attuale a cui ispirare l’azione e il dialogo delle Accademie Pontificie con le di­verse culture. Egli, infatti, riuscì ad instaurare un confronto fruttuoso sia con il pensiero a­rabo, sia con quello ebraico del suo tempo, e, facendo tesoro della tradizione filosofica gre­ca, produsse una straordinaria sintesi teolo­gica, armonizzando pienamente la ragione e la fede. Egli lasciò già nei suoi contemporanei un ricordo profondo e indelebile, proprio per la straordinaria finezza e acutezza della sua intelligenza e la grandezza e originalità del suo genio, oltre che per la luminosa santità della vita.
Il suo primo biografo, Guglielmo da Tocco, sot­tolinea la straordinaria e pervasiva originalità pedagogica di san Tommaso, con espressioni che possono ispirare anche le vostre azioni: fra’ Tommaso – egli scrive – «nelle sue lezioni introduceva nuovi articoli, risolveva le que­stioni in un modo nuovo e più chiaro con nuo­vi argomenti. Di conseguenza, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattarle con metodo nuovo, non potevano dubitare che Dio l’avesse illuminato con una luce nuo­va: infatti, si possono mai insegnare o scrive­re opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio una ispirazione nuova? » ( Vita Sancti Thomae Aquinatis, in Fontes Vitae S. Thomae Aquina­tis notis historicis et criticis illustrati, ed. D. Prümmer M.-H. Laurent, Tolosa, s.d., fasc. 2, p. 81).
Il pensiero e la testimonianza di san Tom­maso d’Aquino ci suggeriscono di studia­re con grande attenzione i problemi e­mergenti per offrire risposte adeguate e crea­tive. Fiduciosi nella possibilità della «ragione umana», nella piena fedeltà all’immutabile de­positum fidei, occorre – come fece il «Doctor Communis» – attingere sempre alle ricchezze della Tradizione, nella costante ricerca della «verità delle cose». (...)
«Avvenire» del 29 gennaio 2010

Paesi veri, nazioni fasulle

Non si dà tradizione alcuna senza un atto di volontà intellettuale. Non è affatto negativo amare e rispettare le tradizioni: è deleterio ritenere che esse abbiano una scaturigine metastorica ed «eterna»
di Franco Cardini
Il medievista Patrick Geary porta un nuovo contributo alla comprensione del dinamismo delle identità nazionali
È inattuale la polemica sull’idea di nazione? Lo avremmo ritenuto sicuro, almeno fino a qualche anno fa. Ma oggi i temi dell’« identità » e del « radicamento » sono diventati molto comuni nella pubblicistica e nella propaganda politica, mentre nuove « nazioni » o pretese tali sorgono all’orizzonte. Si stanno perfino profilando forme di « neonazionalismo » , demagogiche e artificiali quanto si voglia, che minacciano però sul serio l’equilibrio della nostra vita sociale: se non quella di adesso, quella di domani. E allora è necessario far chiarezza.
Si deve a uno dei migliori studiosi dei quali il nostro Paese disponga, il medievista Giuseppe Sergi dell’Università di Torino, la messa a punto con il romano editore Carocci di un ampio progetto editoriale il cui scopo è l’indagine puntuale – e weberianamente « disincantata » – dei grandi temi di quell’Europa medievale che corrisponde al periodo (mitico?) nel quale oggi molti (troppi?) pretendono di rintracciare le loro ' radici'. I fini del Sergi sono senza dubbio anzitutto scientifici: ma non guasta per nulla che egli accosti ad essi anche uno scopo nobilmente civico, quello di combattere l’uso politico e demagogico della storia.
In questo contesto è stato quanto mai opportuna la traduzione di un denso volume di Patrick Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, che sotto molti aspetti è sul serio rivelatore sia delle effettive connotazioni di quel ch’è stato un autentico mito ( e una vibrante passione) dell’Europa otto-novecentesca, l’idea di nazione. Il Geary, medievista dell’University of California ­Los Angeles, è noto al pubblico italiano soprattutto per il bel libro Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel medioevo ( Vita e Pensiero, 2000).
Tutti ricordano la stentorea esclamazione del generale giacobino Kellermann, il 20 settembre del 1792, sul fatidico campo di battaglia di Valmy: « Vive la nation! » . Da lì cominciò sul serio, come sentenzia sulla scia di Goethe il vecchio Giosuè Carducci, « la novella istoria » . Ma in che senso?
È arcinoto a tutti che gli unni erano guidati nel V secolo da Attila, e che alla fine del medesimo secolo gli ostrogoti ebbero un grande sovrano in Teodorico. Ma chi erano in realtà gli unni? E che cosa concretamente, sul piano geostoricolinguistico, significava essere goto? E i franchi di Clodoveo e poi di Carlomagno, con precisione, chi e che cos’erano?
Se la « nazione » è, nel concreto, unione di un gruppo etnolinguistico coerente e compatto e di un territorio avvertito come sua « madre­terra » , le sue origini non solo non sono affatto medievali, bensì corrispondono a un’astrazione – e a una mistificazione – avviata tra Sette e Ottocento. È necessario tornare alla lucida lezione impartitaci anni fa da Eric Hobsbawm: le « tradizioni » s’inventano, anzi non si dà tradizione alcuna senza un atto di volontà intellettuale, un’« invenzione » appunto, e qui sta il loro valore dinamico.
Non è affatto negativo amare e rispettare le tradizioni: è infame e deleterio ritenere che esse abbiano una scaturigine metastorica ed « eterna » ; anzi, il loro senso più alto sta nel rinnovarsi di continuo. Ma proprio per questo esse debbono esser tenute al riparo dalle mistificazioni.
Le nazioni medievali erano senza dubbio portatrici di una forte identità comunitaria e giuridica: seguire la « legge » franca o longobarda non era una finzione.
Tuttavia, esse erano il risultato di un processo dinamico continuo, nel quale gruppi etnoculturali diversi si incontravano e si confrontavano di continuo mentre le ondate delle migrazioni e il carattere fondamentalmente sperimentale delle costruzioni societarie proposte in un lungo periodo che potremmo grossolanamente situare tra II e X secolo d. C. ( ma con precedenti anche più antichi, e conseguenza anche molto vicine a noi) s’incaricavano di confrontarsi con una tradizione giuridico- politico­istituzionale che l’eredità romana, l’attività ecclesiale e l’apporto etnico delle varie popolazioni « barbariche » avevano contribuito a configurare. Quelli che il Geary definisce con efficacia e con rigore « i miasmi del nazionalismo etnico » hanno troppo a lungo avvelenato l’atmosfera della storia moderna e contemporanea celandosi dietro l’alibi di una pretesa realtà identitaria proveniente dalle scaturigini medievali. Qui sta l’opportunità di un libro che serve egregiamente a spiegarci le vicende europee dell’Alto medioevo, ma è un utilissimo vademecum anche per tenerci al riparo dalle mistificazioni contemporanee.
Patrick Geary, IL MITO DELLE NAZIONI. LE ORIGINI MEDIEVALI DELL’EUROPA, Carocci, pp. 196, € 18,70


«Avvenire» del 30 gennaio 2010

Contini: il filologo che indaga l'anima

di Pietro Gibellini
Vent’anni fa moriva a Domodossola il più originale filologo e geniale critico del nostro Novecento: Gianfranco Contini. Il 4 febbraio gli dedica una giornata di studio il Collegio Ghislieri, di cui Contini fu alunno quando studiò all’università di Pavia, allora per lui deludente (solo più tardi avrebbe acquistato smalto grazie a suoi allievi diretti o elettivi: Dante Isella, Maria Corti, Cesare Segre). Al centro dell’incontro il «Carteggio» con Gadda, fresco di stampa per le cure postume di Isella (Garzanti). La morte di un personaggio della cultura comporta un tunnel di oblìo, da cui fuoriescono quelli che hanno lasciato dietro sé vera eredità di fosforo e affetti. Per Contini il tunnel non c’è stato, anche se non mancò allora il codardo oltraggio di qualche giovane critico rampante e non manca oggi, in qualche vecchio concorrente, il livido color della pietraia. Alle riedizioni degli scritti critici, alla raccolta degli studi filologici e dei ritratti di amici si sono aggiunte le lettere: con Montale, Cecchi, Pizzuto, Sinigaglia, Capitini (e ad altre corrispondenze si sta lavorando). Né sono mancati convegni per valutare il suo rapporto con Croce e per onorare il suo magistero italiano e prima elvetico. Folgorante, quest’ultimo, per discepoli quali Dante Isella, padre Giovanni Pozzi, Giorgio Orelli, Luciano Erba: come dire per svizzeri e fuoriusciti italiani, per studiosi e poeti. Un segno, questo, della doppia corda di Contini, della compresenza in lui di rigore filologico e di passione letteraria, di «diligenza» e di «voluttà». Due sentieri paralleli? Direi piuttosto intrecciati, ma parimenti creativi. Contini aveva il dono, davvero raro, di leggere i classici con la calda prossimità di chi li sente contemporanei («vere presenze», per dirla con il suo amico George Steiner) e di scrutare nei contemporanei l’emergere di un nuovo classico (nel senso valoriale che egli dava al termine, che poteva calzare benissimo all’espressionista e anticlassico Gadda come al noetico Montale, al viscerale prosatore della «Cognizione» come al controllatissimo poeta delle «Occasioni»).
Sperimentalmente creativa è la sua filologia «di tradizione», dalla tesi sul piccolo Dante lombardo alias Bonvesin de la Riva (e già ne discorreva con Cecchi) all’edizione del «Fiore» attribuito all’altro Dante, quello vero, il suo autore prediletto.
Innovativa la filologia «d’autore», attraverso cui creò, con la critica delle varianti, un modo nuovo di vedere i testi dalla parte dell’autore, e inventò uno strutturalismo storicista, incrociando sincronia e diacronia (altro che critique génétique!). Fu scopritore di talenti (dal neolaureato Pasolini al pensionato Pizzuto) e guida socratica di più maturi amici (Montale, Gadda) cui insegnò a riconoscere il sé più autentico.
Chi lo conobbe non può dimenticare la sua calda umanità, fatta di scatti indignati con gli arroganti e di attenzioni generose per gli umili. I sessantottini lo credevano impolitico: non stupisce che, ministro nella Repubblica dell’Ossola, vicino al Partito d’azione e all’irenismo di Capitini, Contini si sia poi tenuto alla larga dalla politica, mosso da istanze etiche e teoretiche. Sapeva che la «comunione dei santi» non è troppo affollata, fra gli uomini di lettere. La ricchezza della sua lezione attende ancora di essere approfondita per lo spessore ermeneutico e la tensione etico­conoscitiva: studiare un testo è, per lui, scoprire la verità di un’anima, non solo una grammatica della forma.
«Avvenire» del 30 gennaio 2010

La tavola magica non ci farà più liberi se l'informazione è senza qualità

L'ultima Mac-invenzione
di Francesco Ognibene
Furbo e navigato com’è, Steve Jobs ha giocato sull’aura miracolistica che lo circonda: «L’ultima volta che c’è stata tan­ta emozione per una tavoletta c’erano dei comandamenti scritti sopra...». Col nuovo iPad tra le mani, il leader carismatico del­la Apple ha volutamente alleggerito l’at­mosfera di attesa che circondava l’evento di San Francisco durante il quale, martedì, l’azienda americana ha svelato il suo nuo­vo strumento per leggere libri e giornali e­lettronici, ascoltare musica e comunicare. I più recenti debutti di prodotti Apple au­torizzavano pronostici fantasiosi: lancian­do l’iPod, Jobs ha stravolto il mercato del­la musica, mentre con l’iPhone ha proiet­tato nel futuro lo standard per la telefonia mobile. Inevitabile supporre che l’iPad fos­se destinato a creare sbalordimento sin dal primo vagito, un’icona della rivoluzione di­gitale prima ancora che lo si fosse mate­rialmente visto. La fama messianica che ormai avvolge Jobs ha spinto ieri il compassato Economist a ri­produrlo in copertina nei panni di un au­reolato evangelista con la mac-tavoletta al posto del Vangelo, sotto un titolo – «Il Libro di Jobs» – che completa umoristicamente la sintesi del clima col quale è stata accol­ta la lavagnetta elettronica. Una metafora pop che ha centrato l’aspetto decisivo del­la vicenda: per la prima volta i più ansiosi di conoscere cosa si fosse inventato Mister Apple non erano i consumatori. Ad augu­rarsi che tra le mani di Jobs apparisse l’«iPod della stampa», lo strumento in gra­do di generare un business dal nulla, sono infatti gli editori che hanno visto sgretolar­si le proprie quote di mercato sotto l’effet­to di un fenomeno apparentemente inar­restabile: la possibilità di consultare gratis su Internet ciò che fino a ieri aveva un pur modesto prezzo. Nell’era delle notizie via Web, il valore intrinseco dell’informazione non sembra equivalere più a un doveroso costo per chi vuole disporne. I siti dei gior­nali spiazzano le edizioni cartacee eroden­do quasi sempre le copie diffuse in edico­la, fino a costringere in America antiche im­prese editoriali all’onta della bancarotta.
Questo scenario giustifica l’agiografia del boss di Apple: l’informazione non si sente più padrona del proprio futuro ma – a cor­to di idee efficaci per scongiurare il temu­to collasso – si consegna interamente al Grande Inventore, al guru che ha già resu­scitato l’industria discografica e sembra di­sporre dello stampo magico per supporti e­lettronici presto inseparabili dalla nostra quotidianità. Un’ammissione d’impoten­za, quasi una resa di fronte alla post-mo­dernità digitale capace di spazzar via mo­delli di consumo dell’informazione ritenu­ti inattaccabili. E di farlo paradossalmente nel nome di una domanda inesausta di no­tizie, una fame senza precedenti che cerca soddisfazione senza far più troppo caso al­l’autorevolezza della fonte.
Che grazie all’iPad gli editori riescano a in­tercettare questa bulimìa informativa tro­vando il modo di tornare a guadagnarci qualcosa è una storia ancora tutta da scri­vere. Ma intanto a Steve Jobs il sistema del­l’informazione 'tradizionale' sembra aver consegnato le chiavi di casa, lanciando il preoccupante segnale di una scommessa concentrata sul supporto di lettura assai più che sulla qualità delle notizie e del mo­do di proporle. Anziché rilanciare il patto fiduciario che lega una testata ai propri let­tori e alla loro libertà si confida in un nuo­vo miracolo di Jobs, che certo non potrà ri­petersi se il valore dei contenuti e la loro pertinenza rispetto alle attese più autenti­che (e sovente inespresse) dei lettori resta­no quelle che vediamo circolare più fre­quentemente sui media di casa nostra.
È possibile che il deterioramento della qua­lità informativa e l’esplosione delle sorgenti alle quali attingere notizie di dubbia trac­ciabilità conduca presto o tardi a riscopri­re che – nel mare in tempesta delle news – occorre trovare un porto sicuro, un mar­chio di garanzia del quale potersi fidare. Ma su questa informazione 'certificata' urge investire ogni risorsa di creatività, di intel­ligenza, di responsabilità. Diversamente, potrebbe non bastare persino l’aureola di Steve.
«Avvenire» del 30 gennaio 2010

«Ho digitalizzato la Garzantina ma temo i pirati»

s. i. a.
La domanda è questa: carta o digitale? Resisterà il tradizionale libro fabbricato con la carta, oppure, capitolerà all’invasione dell’e-Book, del libro digitale, pronto per essere divorato tramite il lettore Kindle o il più recente iPad, entrambi americani? «Abbiamo già qualche e-Book, a esempio la Garzantina universale, che soddisfa quel genere di domanda. Ma noi facciamo comunque parte di quel genere di editori che privilegiano il fenomeno creativo, che si rendono conto che i narratori amano e devono rimanere indipendenti». Risponde in questi termini Stefano Mauri, presidente ed amministratore delegato del gruppo editoriale Mauri Spagnol (Longanesi, Garzanti, Guanda e molti altri marchi). Si conclude all’insegna di questo tema («Il libro tra carta e digitale») il XXVII seminario di perfezionamento della Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri, a Venezia, presso la Fondazione Cini.
Quale inconveniente presenta il libro digitale?
«La pirateria! Ci sono in giro copie pirata di libri digitali, che vanno chiaramente denunciate e perseguite dalle associazioni di categoria».
Pirateria a parte, lei non pensa che voi editori e distributori dobbiate tener conto della mentalità dei lettori, che potrebbe essere in cambiamento?
«Io stesso, che mi trovo immerso in un problema di scelte aziendali, ho assaggiato, per così dire, l’e-Book; ma poi, nel mio privato, scarto l’aggeggio meccanico. Devo dire che in America l’e-Book ha avuto un boom. O quasi. Amazon ha dichiarato che, il giorno di Natale, ha venduto più libri digitali rispetto a quelli cartacei. Ma nella notizia si annida un bluff. Per Natale oltre 200mila persone hanno ricevuto, per omaggio il lettore di e-Book Kindle prodotto da Amazon. È come se avessero ricevuto in omaggio una scarpa sinistra. Si sono affrettati a comprare la scarpa destra, ovvero l’autore preferito in formato digitale e scaricato on line».
Insomma, lei dice che il libro di carta non ha affatto ceduto all’invasione del prodotto elettronico.
«Senza ipotecare il futuro poiché non sono un indovino, posso dirle che l’e-Book con relativo lettore sono un gadget, una curiosità che stimola i giovani e gli amanti delle novità».
A questo punto, dottor Mauri, posso fare una domanda scomoda?
«Antipatica, cioè sgradita? Faccia pure senza esitazione!».
Come mai avete istituito corsi per allenare i singoli librai alla vendita del prodotto in maniera moderna e poi, in un certo senso, li avete traditi stipulando accordi per la vendita nella grande distribuzione, megastore, centri commerciali, supermercati?
«Beh, senta! Sono trascorsi 27 anni dalla fondazione di questa scuola. Erano gli anni Ottanta e non esistevano le catene librarie di moderna concezione. In città le librerie del centro chiudevano per lasciar posto a negozi di jeans et similia. Mio padre Luciano volle offrire ai librai le conoscenze, le tecniche di gestione e di marketing necessarie per sopravvivere, oltre che per trovare nuove motivazioni. Il messaggio di modernità impartito da questa scuola è sempre valido. Molti nostri allievi, qui premiati, si sono utilmente inseriti anche nelle grande distribuzione».
«Il Giornale» del 30 gennaio 2010

La biblioteca universale resterà un sogno

Come si accordano le opportunità delle tecnologie on line e il rispetto del diritto d’autore? Per ora la questione è affidata ai tribunali ma la sfida è culturale. Intanto il progetto del famoso motore di ricerca sembra in panne
di Tommy Cappellini
Nelle stesse ore, l’altro ieri, in cui Steve Jobs della Apple presentava al mondo l’iPad - attesissimo tablet-pc molto charmant con cui è possibile scaricare da internet centinaia di libri in formato digitale e portarseli sempre con sé, a letto come in barca a vela - l’Associazione Italiana Editori, in cordata con le sue omologhe di Germania, Austria e Svizzera, depositava per la seconda volta (la prima fu nel settembre scorso) presso la Corte di New York una serie di opposizioni legali al progetto di Google Books di digitalizzare l’intero patrimonio librario dell’umanità e di pubblicarlo sul web. Nello stesso giorno si consumava così, in modo postmoderno e indiretto, l’ennesimo scontro tra due opposte visioni della cultura.
La class action «editori statunitensi versus Google Books», vertenza legale collettiva a cui si sono aggiunte in corsa associazioni di editori di mezzo mondo, compresa l’Aie, tiene banco da tempo e tutto lascia prevedere che assumerà dimensioni ottocentesche, con stanze piene di faldoni e avvocati che inverno dopo inverno scalpicciano nel fango fino in tribunale, a spulciar cavilli. Chi si oppone, dunque, alla realizzazione via web del sogno millenario di una biblioteca universale? Chi invece ci guadagna? È una lotta tra vecchio e nuovo, oppure una mera questione di ridistribuzione di futuri introiti?
«Noi non siamo contro a priori - ci dice Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori - ma Google Books ha accelerato le sue operazioni seguendo il principio: cominciamo a fare il più possibile, poi vediamo che tipo di problemi possono sorgere. In pratica, è quasi come non prendere in considerazione l’esistenza del diritto di autore. La prima decisione della Corte di New York ha raccolto alcune delle nostre ragioni, ma ora si pongono questioni tecniche che non si possono lasciare irrisolte. Altrimenti, lasceremmo in mano a Google Books autori che da noi sono protetti da copyright. Il vero problema è che il diritto d’autore americano ha avuto in passato regole diverse da quello europeo, stabilito dalla Convenzione di Berna. Fino agli anni Ottanta se un editore italiano non voleva che un editore statunitense pubblicasse senza pagare un libro prendendolo dal suo catalogo, doveva macchinosamente registrarlo presso il Copyright Office di Washington. L’America si è poi adeguata alla Convenzione, solo che Google Books sembra voler dire: possono esserci ancora numerose eccezioni e falle, sfruttiamole. Per esempio, sulla base dell’ultima decisione della Corte potrebbe essere digitalizzato un libro del 1975 di un autore italiano ancora vivente, magari incluso nel registro del Copyright Office, ma proprio per questo passabile di essere equiparato a un autore inglese. Per il resto, non ci opponiamo alla digitalizzazione, anche se personalmente preferisco leggere un libro di carta, che posso lasciar cadere sul mio petto in spiaggia, quando mi addormento, senza rimanere ustionato. Cosa che capiterebbe invece con un reader di e-Book».
Di parere diverso è Riccardo Luna, direttore di Wired, che nell’ultimo numero ha pubblicato un articolo di Sergej Brin, uno dei fondatori di Google, intitolato Lasciate che i libri vengano a me. «Forse alcuni editori non hanno ancora capito quanto possono guadagnare dal progetto di Google Books, anche se io penso che in fondo a guadagnarci è tutto il mondo: intere biblioteche di libri dimenticati che nessuno leggerebbe vengono rimesse in circolazione da Google Books, creando conoscenza. E facendo comunque maturare dei soldi. Infatti, chiunque ne possegga i diritti può reclamarne in qualsiasi momento il saldo, e in qualsiasi momento può chiedere di essere tolto dal web. In exergo al Manifesto del pubblico dominio che circola in Rete c’è una frase di Victor Hugo che condivido molto: “Il libro, in quanto libro, appartiene all’autore, ma in quanto pensiero appartiene al genere umano. Se uno dei due diritti, quello dello scrittore e quello dello spirito umano, dovesse essere sacrificato, sarebbe certo quello dello scrittore”. Mi sembra che il mondo vada in questa direzione, pur con molte resistenze provenienti da interessi cooperativi che fanno fatica ad adeguarsi al nuovo».
«Il Giornale» del 30 gennaio 2010

29 gennaio 2010

Il professore esordiente e una scuola da romanzo

di Maurizio Bono
"Il maestro è un mi..., un mi...». «Un missile!», rispondevano i ragazzi in coro nell'indimenticabile Maestro di Vigevano di Mastronardi. E lui: ma no, è un missionario! Mezzo secolo dopo, al supplente di Bianca come il latte, rossa come il sangue, appena entrato in una classe di liceo per provarea insegnare filosofia, non va molto meglio: «Scusi prof, perché ha deciso di fare questo mestiere da sfigato?». Ma stavolta un missionario il prof lo è davvero: dello stesso ordine carismatico del Pennac di Diario di scuola e del professor Keating dell'Attimo fuggente, specializzato nel miracolo di trasformare problematici somari in studenti capaci di crescere nel cuoree nel cervello. E il romanzo, esordio (da Mondadori, pagg. 254, euro 19) dell'insegnante 32enne Alessandro D'Avenia, è un ponte gettato tra l'isola degli eterni adolescenti alla Moccia e il romanzo di formazione. Su una sponda telefonini, messaggini afasici, stress da niente e da vuoto. Sull' altra bagliori di sentimenti intensi, curiosità dei libri e della vita. In mezzo arranca l'io narrante del sedicenne Leo, che parte odiando i congiuntivi e quando arriva si sogna scrittore: l'unico protagonista, del resto, a cui si potrebbe perdonare di inviare per 200 pagine sms alla ragazza di cui si è innamorato da lontano (sfortunatamente malata di leucemia) usando un numero sbagliato, e peggio ancora di non accorgersi mai che l' amica del cuore Silvia vorrebbe non esser solo quello. Banale? Come la vita e gli archetipi assoluti, che infatti abbondano e spingono la storia: l'amata si chiama Beatrice, il tasto T9 del telefonino è una Pizia bastarda che se digiti "paura" scrive "scusa". Più che un "numero primo" alla Paolo Giordano, Leo è un' incognita in cerca di soluzione attraverso un' equazione sentimentale. D'Avenia è laureato in lettere antiche, poi si è sorbito due anni di specializzazione in didattica («ho imparato come non insegnare, da illustri cattedratici che non hanno mai messo piede in classe») ricavandoci insieme ad altri 100mila precari l'abilitazione che dopo 400 ore di tirocinio («quello sì, utile») l'ha portato da supplente annuale in un liceo privato di Milano. Come il suo prof Sognatore, ha un coraggio da leone («se sai spiegare Dante a un dodicenne, puoi fare tutto») ed entusiasmo: «Scritto il libro, l'ho fatto girare in classe chiedendo consigli. Per loro un esempio raro di adulto che scrive per passione senza che nessuno lo obblighi, per me un editing attentissimo: qui si vede che è lei che pensa, non Leo; questo Niko che gioca a pallone è simpatico, perché non ne dice di più?». Un tribunale imberbe lega anche le mani: «Ho riscritto un sacco di pagine dove mi scappava di dire cose profonde, la realtà rende profonde le cose superficiali». Comunque glielo doveva, l'idea era nata in una classe: «Tre anni fa, al liceo Dante di Roma, coprivo un' ora buca ed è partito il gioco "massacriamo il supplente". Mi sono giocato tutto parlando di storie, e dopo un po' un ragazzo racconta di una compagna di classe meravigliosa coi capelli rossi, che in un anno se n'era andata per la leucemia. Mentre parlava il suo volto caotico da adolescente si ricomponeva in un modo adulto. Dopo tre anni di elaborazione dell' episodio, Leo mi ha detto: scrivimi. Ho iniziato in terza persona, tre pagine e ho buttato tutto. Ho ricominciato con la sua voce e ne ho scritte 40 di getto». Pazienza, insomma, se Leo dice frasi come «un bacio è un ponte rosso che costruiamo tra le nostre anime». «È più grave avere nostalgia dell' adolescenza e aggiustarsela nel ricordo. Se gli adulti la rimpiangono, ai ragazzi chi glielo fa fare, di uscirne?». E pazienza se oggi l' adolescenza pare così fragile da abbisognare di soli insegnanti di sostegno: «Mi sono rotto le scatole del pessimismo che tarpa le ali ai ragazzi. Io ho fatto la scuola pubblica a Palermoe miè bastato un insegnante chea 65 anni balbettava ancora di emozione leggendo certi passi. Statisticamente almeno uno così tocca a tutti». L' ottimismo è tale che in Bianca come il latte rossa come il sangue non ci sono bulli, anoressiche, cubiste, tantomeno un Garrone magari immigrato, a rappresentare difficoltà non risolvibili in un attimo fuggente. Ma il missionario ha già abbastanza da fare nella sua tribù middle class: «Parlo di un liceo classico, su 40 alunni due hanno problemi alimentari. Volevo raccontare i 38. Sa cosa mi preoccupa? Che qualche anno avrebbero tifato perché nel finale di Truman show il protagonista scappasse alla finzione, ora tifano per entrare in un reality. Io dico loro di cercare il proprio sogno e farne un progetto perché è il solo modo di stare nella realtà».
«La Repubblica» del 27 gennaio 2010

Critiche al riduzionismo sulla mente

di Andrea Vaccaro
Da qualche tempo, nel campo della scienza, stiamo assistendo a spetta­coli a cui, francamente, non erava­mo abituati. Contrapposte fazioni di parte sono la sostanza della politica da quando, per l’appunto, sono nati i partiti; visioni di­vergenti sono comparse sin dagli albori della filosofia; anche le comunità religiose hanno vissuto, con sofferenza, scissioni in­terne. Che questo potesse però accadere anche alla scienza – ultimo baluardo di pensiero unico – era del tutto inaspettato.
Il destro è stato offerto dal dibattito inter­no alla neuroscienza su cervello, mente e coscienza; oggetto di disputa è finito per diventare uno dei tratti strategici dell’iter scientifico, nientemeno che il metodo ri­duzionista. Sin dalle origini e per statuto, la scienza ha seguito la prassi di ricondur­re ogni fenomeno ai suoi costituenti ultimi materiali per poterli poi studiare tramite le leggi della fisica e della chimica. E i risulta­ti conseguiti sono stati ineccepibili. Di­nanzi alla realtà del mentale, però, qualco­sa si è rotto; il paradigma riduzionista è deflagrato e l’insoddisfazione a lungo trat­tenuta da parte di alcuni scienziati ed epi­stemologi è straripata quasi con virulenza linguistica. Le risposte non si sono lasciate attendere e così la polemica è cresciuta di tono. Gerald Edelman, che può vantare un premio Nobel per la Fisiologia e numerosi e importanti studi sul tema, scrive che: «nonostante il successo riportato finora, il riduzionismo diventa sciocco se applicato in maniera assoluta alla materia della mente»; più che inadeguato, esso è «sem­plicemente assurdo», come voler cogliere il mistero affascinante della Gioconda a­nalizzando uno ad uno i suoi pigmenti di colore (Sulla materia della mente). A Tho­mas Nagel, autore di un argomento cru­ciale di filosofia della mente, il «program­ma riduzionista» applicato alla coscienza appare «completamente fuorviante», «e­stremamente implausibile», «intellettual­mente arretrato e scientificamente suici­da » (Uno sguardo da nessun dove). Per Jerry Fodor, nome altisonante nell’ambito delle scienze cognitive, quel fisicalismo sbandierato ad oltranza da scienziati «per­dutamente innamorati di neuroni e con­nessioni sinaptiche» è spudoratamente u­na «assunzione metafisica», per di più, di una metafisica «totalmente assurda» e «folle» (Cervelli che parlano). Lo spazio an­drebbe ingigantito per rendere l’idea di quanto folto sia tale schieramento critico.
Per John Searle, certo riduzionismo è «profondamente antiscientifico e incoe­rente »; per David Chalmers «nessuna spie­gazione data interamente in termini fisici potrà mai rendere conto dell’emergere dell’esperienza conscia»; per Donald Da­vidson «i concetti per descrivere il pensie­ro hanno un carattere normativo irriduci­bile »; secondo Joseph Levine «tra il fisico e l’esperienza cosciente vi sarà sempre una lacuna esplicativa (explanatory gap) »; Gre­gory Bateson definiva il materialismo ridu­zionista «un incubo insensato». Dalla sponda opposta, con altrettanta sicurezza, si ribadisce che la scienza è riduzionista o non è scienza e si qualificano tali argo­mentazioni come sciatte, ostili alla vera conoscenza, antiscientifiche per eccellen­za. Sinora la scienza aveva controbattuto, compatta, ad obiezioni provenienti da fonti esterne, compresa la fonte religiosa.
Adesso le obiezioni nascono all’interno: su aspetti metodologici centrali; da voci indi­scutibilmente autorevoli; con espressioni perfino veementi. Forse qualcosa di nuovo e di davvero notevole, in questo ambito, sta prendendo forma.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

Tecnostress: come uscire dal tunnel

di Giuseppe O. Longo
Secondo Daniel Goleman, autore nel 1995 di Intelligenza emotiva, oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo, viviamo nell’ « età della malinconia » : la nostra generazione è afflitta dalla depressione più delle precedenti a dispetto dei meravigliosi dispositivi tecnici da cui siamo circondati, o forse a causa di essi. Un altro psicologo, Tim Kasser, ha scoperto che, guarda un po’, quanti attribuiscono grande importanza ai beni materiali sono più infelici di coloro che apprezzano i valori spirituali: il materialismo si accompagna spesso a narcisismo, a scarsa autostima, a minor empatia e maggior conflittualità nelle relazioni personali. E la tecnologia contribuisce ad aggravare la situazione: questa è anche la tesi illustrata da Yair Amichai-Hamburger, della Sammy Ofer School on Communication di Herzlyia, Israele, nel libro appena uscito « Technology and Psychological Well- being » ('Benessere tecnologico e psicologico'). I ritmi delle nostre giornate ( e talora anche nottate) sono imposti da cellulari, computer e internet e sono scanditi dal controllo compulsivo della posta elettronica, dalla smania di aggiornamento dei profili nelle varie reti sociali nelle quali ci siamo impigliati, da Facebook a MySpace, e dal bisogno di seguire istante per istante le notizie dal mondo e giorno per giorno le offerte dei costruttori per non lasciarci sfuggire l’ultimo modello di telefono o di computerino.
L’accelerazione progressiva dell’innovazione trasforma la tecnologia da ancella a dominatrice, condizionando il nostro benessere e facendoci confondere il livello materiale dell’esistenza con la qualità della vita. E la situazione è ancora peggiore per i giovani e giovanissimi, che non hanno conosciuto un modo diverso di vivere e che seguendo le suggestioni della pubblicità si persuadono che la felicità si ottenga con l’ultimo modello di cellulare o di videogioco.
Tutto ciò si sovrappone al monito «il tempo è denaro»: siano spinti all’efficienza totale e la distinzione fra tempo libero e tempo di lavoro sfuma, per cui lavoriamo sempre e compromettiamo i nostri rapporti con i familiari.
Un dirigente di un’azienda di punta ha affermato tristemente: « Mi hanno regalato un cellulare per possedermi ventiquattro ore al giorno e un computer portatile perché mi porti sempre dietro l’ufficio » . Bisogna insomma riesaminare il nostri rapporto con la tecnica e restituire profondità e umanità ai nostri rapporti con gli altri e con noi stessi, riappropriandoci del tempo di cui siamo sempre più spodestati. Poniamo limiti, opponiamoci all’invasione tecnologica, riacquistiamo la nostra autonomia: dedichiamo alla posta elettronica un tempo determinato della giornata, spegniamo ogni tanto il cellulare, almeno in certi luoghi e in certi momenti, viviamo a contatto della realtà e dell’umanità che ci circonda e non sempre con la testa altrove, e soprattutto viviamo a contatto con noi stessi, con la profonda sorgente di spiritualità che si annida dentro ciascuno di noi e che, se non è coltivata e visitata, rischia di inaridirsi e di trasformarsi in una cicatrice dolente. Della tristezza, del sordo malessere che ci affligge in questo tempo di affannoso consumismo, non riusciamo neppure più a riconoscere la causa, ed è forse questo il segno più preoccupante.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

Cavie umane

Sperimentare nuovi farmaci un «lavoro» da tempi di crisi
di Lucia Capuzzi
Negli Usa in aumento i volontari a pagamento in laboratorio. Con crescita dei rischi e un peggioramento della qualità. In Italia norme assai più rigorose
«Ero uno squattrinato stu­dente universitario. Poi, ho scoperto un modo per riuscire a pagarmi le spese e an­che qualche extra. Quale? Semplice, donare regolarmente il sangue». È cominciata in questo modo la 'car­riera' di Phil Maher, «donatore pro­fessionista ». Così si autodefinisce il trentaduenne sul suo sito (www.bloodbanker.com). Una sac­ca viene ricompensata con 40 dolla­ri. Con due alla settimana – di più la salute non consente – a fine mese si ha un incasso fisso di 320 dollari. Non è tanto, ma per le oltre sette mi­lioni e mezzo di vittime della crisi e­conomica negli Stati Uniti (dove il sangue viene 'pagato', a differenza dell’Europa), è pur sempre un aiuto. Non a caso, nell’ultimo anno, la pa­gina Web di Maher ha raddoppiato i contatti.
Niente, però, a confronto con le mi­gliaia e migliaia di richieste che i­nondano il sito di Paul Clough, www.jalr.com.Perché, mentre di do­nazioni non si vive, qui i sempre più numerosi disoccupati possono tro­vare consigli per costruirsi 'un’oc­cupazione alternativa': quella di lab rat . Che consiste – come spiega Clough – nel prestare il proprio cor­po alla scienza traendone il massimo profitto. Fino a farlo diventare un la­voro a tempo pieno. I lab rat – o gui­nea pigs come dicono altri – (lette­ralmente, 'cavie') sono i 'volontari sani' che sperimentano su se stessi un farmaco, prima che questo sia messo in commercio.
È la cosiddetta 'fase uno', la prima tappa del lungo viaggio dei medici­nali dal laboratorio al banco della farmacia. Ogni medicamento deve superare vari passaggi: sperimenta­zione su animali, su individui sani, su un campione selezionato di ma­lati. Questi ultimi si sottopongono con facilità ai test nella speranza che venga trovata una cura per alleviare le loro sofferenze. I cittadini in salu­te, invece, sono più restii. Gli esami sono sicuri – il protocollo, prima di passare all’uomo, è rigoroso – ma ri­chiedono tempo e implicano un cer­to fastidio. Per incentivarli, così, vie­ne riconosciuto loro un compenso. Una sorta di bonus per ammortiz­zare gli inconvenienti di prelievi di sangue, degenze in ospedale, lievi ef­fetti collaterali. Negli ultimi tempi, però, i colossi del farmaco Usa – per attrarre più volontari, mandare a­vanti le sperimentazioni e, dunque, immettere nuovi remunerativi me­dicinali sul mercato – hanno au­mentato le 'retribuzioni' Secondo una recente inchiesta del­la rivista New Scientist, si può arrivare fino a 300 dollari al giorno, per un totale di 34mila dollari l’anno, quan­to un impiego di medio livello in u­na società. Non solo. Spesso alcune aziende ricorrono a incentivi ag­giuntivi. Per testare una medicina contro i disturbi intestinali legati al viaggio, ad esempio, l’Intercell ha, di recente, offerto ai volontari una va­canza in Messico o Guatemala. Ai se­lezionati è stata proposta una par­tenza per il Sud America, a godersi il sole. Unica condizione: assumere, prima di viaggiare, il farmaco da spe­rimentare e sottoporsi, durante il soggiorno, a regolari prelievi di san­gue nella clinica indicata. Compen­si e regalie sono una calamita po­tentissima per chi è alla disperata ri­cerca di danaro. Come immigrati, carcerati, senza tetto. A cui, da oltre un anno, hanno cominciato ad ag­giungersi coloro a cui la recessione ha mandato in fumo i sogni e le oc­cupazioni. Sono diecimila secondo Clough gli americani che si guada­gnano da vivere in questo modo. Ma, in base a stime di vari istituti di ri­cerca, potrebbero essere almeno il doppio. E il loro numero aumente­rebbe di pari passo con il peggiora­mento della situazione economica. Il picco massimo si sarebbe avuto tra la primavera e l’inizio dell’estate.
Il fenomeno, però, mette gli ameri­cani di fronte a un duplice dilemma: etico e sanitario. Il peso della speri­mentazione ricade sulle categorie sociali più deboli che diventano 'ca­vie' per necessità e non per libera scelta. Oltre che ingiusto, questo è pericoloso. Perché chi si sottopone ai test solo per mantenersi, spesso, non rispetta le regole di sicurezza. Ovvero, non osserva il periodo di pausa obbligatoria tra uno studio e l’altro, il cosiddetto 'wash-out' – che dura in genere un mese –, mettendo a rischio sia la validità della speri­mentazione sia la sua salute. Altri, invece, non dichiarano i reali effetti collaterali che un farmaco produce per paura che la sperimentazione venga interrotta e il compenso ri­dotto. Secondo l’associazione Citi­zens for responsible care and re­search, tra il 1990 e il 2000, sono sta­ti denunciate 386 reazioni avverse causate da medicinali durante le sperimentazioni. Una cifra minima, che contrasta con gli effetti collate­rali registrati dalla Food and Drug Administration relativi ai farmaci di nuova approvazione. Nello stesso periodo, se ne sono contati oltre 17mila all’anno, di cui 800 gravi.
«Sono i rischi che si possono corre­re se il movente economico diventa l’unica ragione per sottoporsi ai te­st – dichiara Antonio Spagnolo, di­rettore dell’Istituto di Bioetica del­l’Università Cattolica di Roma –. Ec­co perché in Italia si cerca di punta­re sulla responsabilizzazione dei vo­lontari. Chi sceglie di testare su di sé un farmaco dovrebbe farlo avendo compreso il valore sociale del suo ge­sto ». Anche per questo, da noi, i com­pensi sono relativamente bassi: po­che centinaia di euro. Esiste, inoltre, un rigido controllo da parte dei co­mitati etici». Si tratta di organismi in­dipendenti che valutano i protocol­li di sperimentazione. Fino al 1997, potevano operare anche all’interno delle case farmaceutiche, ma con componenti esterni, a garanzia del­la loro indipendenza di giudizio, O­ra, la legge, in accordo con una di­rettiva europea, stabilisce che i Co­mitati etici siano istituiti e operanti all’interno di una struttura pubblica e, dunque,si trovano all’interno del­la Asl di competenza dell’azienda farmaceutica.
«Negli anni Novanta ho fatto parte di un comitato etico di una grossa a­zienda e posso assicurare che non ho mai subito pressioni di nessun genere», aggiunge Spagnolo. Anche negli Stati Uniti esistono comitati e­tici. Quello che manca – denuncia l’inchiesta di New Scientist – sareb­be, però, una certificazione statale sulla selezione dei loro componenti e un vero controllo sull’operato svol­to. Le strutture funzionano come so­cietà private chiamate dalle case far­maceutiche a pronunciarsi, dietro legale compenso, sui test che inten­dono fare. Il loro guadagno, dunque, dipenderebbe dalle stesse aziende che dovrebbero controllare. Diffici­le ipotizzare una effettiva libertà di giudizio.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

Tre metri dentro il Cielo

Qualcuno già lo chiama «il Moccia cattolico»: esce in questi giorni un romanzo che cita Dante per narrare l’amore tra due adolescenti E dà fiducia agli adulti
di Alessandro Zaccuri
Se ne parlerà molto. E piacerà molto. È Bianca come il latte, rossa come il sangue ( Mondadori, pagine 254, euro 19,00), romanzo d’esordio del trentaduenne Alessandro D’Avenia, una storia che ha l’immediatezza di Love Story, ma non per questo rinuncia a citare la Vita Nova, e non soltanto perché il personaggio femminile principale si chiama Beatrice ed è una versione drammaticamente aggiornata della « ragazzina con i capelli rossi » amata in segreto da Charlie Brown. All’inizio anche il protagonista- narratore, il sedicenne Leo, non trova il coraggio di dichiararsi, poi però nell’esistenza di Beatrice fa irruzione la malattia e anche nella routine adolescenziale di Leo ( e sfide in motorino, i tornei di calcetto, le partite alla Playstation) qualcosa inizia a cambiare. Merito del carismatico supplente di storia e filosofia, forse, oltre che di una coppia di genitori capace di testimoniare come ci si innamora e, più che altro, come si rimane fedeli all’amore che si è incontrato.
Leo, nel frattempo, continua a farsi domande e ogni tanto torna a fare qualche stupidaggine. Non riesce a capire in che modo si possa essere felici se esiste la morte.
Risposta impossibile? Non proprio, dato che nel frattempo Leo è riuscito a fare pace con quella parola di tre lettere che il suo telefonino si rifiuterebbe di scrivere correttamente. Ogni volta che, in uno dei tanti sms che compone soltanto per sé stesso, Leo cerca di nominare « Dio » , il sistema automatico gli propone « Fin » . E allora Leo impara a pregare Fin, salvo poi rendersi conto che ha sempre pregato Dio. Laureato in lettere classiche, insegnante nei licei, non estraneo alla pratica della sceneggiatura, D’Avenia riesce a fare tesoro di tutte queste esperienze in un libro che parla con la voce di Leo. Fosse per lui, non si interesserebbe a Dante, ma si piano piano si rende conto che la storia della Vita Nova è una storia di sempre e che può essere raccontata anche con le parole di oggi. Certo, nella trama di Bianca come il latte, rossa come il sangue c’è qualche svolta forse un po’ troppo annunciata (del resto anche Erich Segal, l’autore di Love Story, era un classicista, proprio come D’Avenia), ma l’aspetto più interessante del romanzo sta altrove, e cioè nella rappresentazione per una volta non catastrofista né banale della condizione dell’adolescenza. Se nel mondo immaginato da Federico Moccia (giusto per chiamare in causa uno degli autori con cui, c’è da scommetterci, D’Avenia verrà messo a confronto) la gioventù è un’età perfetta dalla quale non si vorrebbe mai uscire e alla quale i maschi adulti cercando di ritornare innamorandosi delle ragazzine, in Bianca come il latte, rossa come il sangue avere sedici anni significa prepararsi ad averne 17, e poi 18, venti. In una parola, a crescere. Non da soli, questo è il dato più significativo. Leo ha sempre accanto a sé qualcuno più grande a lui, che lo guida e lo incoraggia. Può essere il prof. a cui ha affibbiato il soprannome di « Sognatore » oppure il padre, che lo accompagna in ospedale a compiere il suo primo gesto da uomo, una donazione di sangue che aiuti Beatrice a essere un po’ più rossa e un po’ meno bianca.
C’è perfino un prete, e non è una macchietta, ma un uomo che ascolta e, posto davanti alla domanda delle domande (quella sulla felicità e la morte, ricordate?), non dice nulla, si limita a lasciare in dono un crocifisso. Sì, questo è un libro inusuale sotto molti aspetti.
Eppure piacerà, piacerà molto.
Gli adulti, in particolare i genitori degli adolescenti, lo leggeranno sperando di intrufolarsi nei pensieri dei loro figli e ne riceveranno la consolazione di scoprire che non sempre la ribellione nasce dalla rabbia, ma al contrario può essere un modo per trovare la propria strada nel mondo. E lo leggeranno gli insegnanti, che non venivano trattati con tanta fiducia dai tempi dell’Attimo fuggente, uno dei molti titoli che, non a caso, il « Sognatore » cita nelle sue lezioni così accattivanti. Piacerà anche ai ragazzi? La vera sfida di D’Avenia, in fondo, è questa. Nei prossimi mesi, di sicuro, avremo modo di verificare se, come c’è da augurarsi, è riuscito a vincerla.
«Avvenire» del 27 gennaio 2010

Ma la critica letteraria non ha colore

di Giuliano Ladolfi
A quale partito deve essere iscritto un intellettuale per scrivere su un giornale? Qual è il ' colore' politico della critica in Italia? Queste domande mi si sono affollate alla mente nel leggere l’articolo di Jacopo Jacoboni pubblicato mercoledì 20 gennaio scorso sulla ' Stampa'. La querelle, continuata a ' Fahrenheit', è stata innescata da Andrea Cortellessa, il quale sul blog letterario ' Nazione Indiana' ha severamente bacchettato Paolo Nori, scrittore di sinistra, che ha iniziato a collaborare con ' Libero'.
Esempi del genere inondano l’attuale panorama: artisti che criticano Berlusconi pubblicano alla Mondadori, registi che criticano la destra lavorano grazie ai contributi dell’attuale governo.
Ma che cosa significa per uno scrittore essere di ' sinistra' o essere di ' destra'? L’etichetta senza dubbio non implica la coerenza con una linea politica sia perché gli esempi citati sono eloquenti sia perché oggi la ' coerenza' non è più considerata una virtù: questa è l’epoca della ' flessibilità'! La politica insegna. L’etichetta non può voler dire seguire una critica fondata su princìpi estetici di destra o di sinistra, perché tale distinzione non è più attiva. Non può riferirsi tout court alla condivisione di una linea politica, perché la letteratura dovrebbe possedere un ambito proprio. E allora viene il sospetto che, in fondo in fondo, la connotazione vada riferita agli ' appoggi' cercati ed ottenuti in cambio di visibilità. Del resto, è noto che gli assessorati finanziano i progetti sostenuti dagli iscritti al loro partito. Poi, una volta raggiunto lo scopo, ci si può prendere anche il lusso di reclamare l’indipendenza di pensiero, semplicemente cambiando ' mecenate'.
Personaggi simili rappresentano l’edizione contemporanea dell’intellettuale ' organico' di gramsciana memoria o, per usare altra terminologia, del ' consigliere del principe', figura da intendersi non solo come il monarca o il tiranno, ma anche come il partito o le holding finanziarie o come i poteri editoriali.
Ma la critica letteraria ha un ' colore'? È soggetta alla dittatura politica, mediatica o finanziaria? Dipende dal singolo e, per chiarire la questione, occorre sciogliere un problema propedeutico: « Quale valore ' fondamentale' viene perseguito dallo studioso? » . Il successo? Il denaro? In questo caso, viva la ' flessibilità'. Se, invece, si pongono in primo piano la libertà di giudizio e la coerenza delle idee, il colore del giornale non avrà il potere di qualificare o di squalificare alcuno.
Pertanto il dibattito va spostato a monte e chiama in causa la figura stessa dell’intellettuale che può presentarsi come ' dipendente' dal potere o ' testimone' di valori irrinunciabili. Se non si giunge a tali ' nodi', la polemica è sterile e sembra piuttosto montata ad arte per fini estranei alla letteratura.
Il fatto è che in Italia la politica ha divorato l’informazione e che ben pochi critici possiedono l’autorevolezza di scrivere in modo indipendente e libero.
Ma quando si tocca il tasto della ' testimonianza', nessuno o ben pochi sono disposti a continuare la discussione.
«Avvenire» del 27 gennaio 2010

Poche parole per dire il ’900. Poi il silenzio per superarlo

J.D. Salinger, lo scrittore americano autore de «Il giovane Holden», pubblicato nel 1951, è morto all’età di 91 anni. Secondo quanto reso noto dal figlio, Salinger è deceduto per cause naturali nella sua casa di Cornish, New Hampshire. Da decenni viveva da recluso. Dal 1965 aveva smesso di scrivere. Dal 1980 non dava interviste.
di Giuseppe Conte
J. D. Salinger si era già congedato dalla sua epoca 40 anni fa. Viveva come un maestro zen al tempo dell’incomunicabilità. Il vecchio Holden, antieroe di tutti gli adolescenti
Da quanto durava il silenzio di Jerome David Salinger? Ora la sua scomparsa, a 91 anni, rende quel silenzio definitivo, e nello stesso tempo lo riempie del clamore che ogni dipartita porta con sé. Quel suo appartarsi, quel suo vivere ritirato e irraggiungibile a Cornish, nel New Hampshire, avevano contribuito a creare il suo mito vivente. Lontano dagli schiamazzi e dalle sfide che piacevano a Norman Mailer, dalla Chicago nera di Saul Bellow, dalla scena di Manhattan tutta occupata da Philip Roth, Jerome David Salinger apparteneva, per isolato che fosse, alla loro grande famiglia. Anche lui di origini ebraiche, anche lui tormentato dai temi del sesso, anche lui propenso a credere nel valore benefico della scienza umana per eccellenza del Ventesimo secolo, che è la psicoanalisi.
Ma Salinger, rispetto ai suoi colleghi, aveva qualcosa di diverso e di più. Aveva individuato una volta per tutte il tema della giovinezza con una essenzialità miracolosa, con una forza leggera e drammatica, ariosa e malinconica che fa pensare a Francis Scott Fitzgerald, di cui fu un ammiratore non a caso; quella giovinezza che all’autore di Tenera è la notte appariva come «un sogno, una specie di follia chimica». E poi Salinger aveva quel silenzio Zen in cui si era chiuso, quella ricerca metafisica che innerva già alcune delle sue opere successive al successo cui il suo nome è legato, intitolato in italiano Il giovane Holden con una davvero opportuna sottolineatura del tema della giovinezza. Il romanzo è del 1951. E inaugura la seconda metà di un secolo in cui i giovani hanno vissuto ribellioni, paranoie, passioni, trasgressioni come mai nei secoli passati. Il giovane Holden come James Dean, come il primo Brando. Si scava il solco tra le generazioni che dura ancora. La giovinezza si erge ad arbitro, a metro di valutazione. Da trasgressiva può diventare regressiva, come è per me in certi seguaci conclamati del maestro americano. Ecco l’incipit del romanzo: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorreste sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori o compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e, secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto». Il linguaggio ammicca al gergo giovanile e allo slang. E in poche righe enuncia i temi portanti che renderanno il libro così nuovo e così memorabile.
Holden Caulfield, la voce che parla, taglia i ponti con il romanzo tradizionale, e spara contro Dickens le sue cartucce novecentesche. Alla generosità visionaria a delirante dell’autore di David Copperfield - che, detto per inciso, oggi è forse più drammaticamente, paradossalmente attuale di Salinger stesso - contrappone un progetto di scrittura residuale, introversa, ellittica. Novecentesca. Subito compare sulla scena la famiglia, tema su cui tutta la narrativa ebraico-americana si incentra e si gioca. Padri e madri borghesi, timorati, conformisti. A cui i figli gettano contro le proprie nevrosi di ribellione e di cambiamento. Ricordate il Lamento di Portnoy, di Philip Roth, che bissò il successo del Giovane Holden e divenne una sorta di manifesto per la generazione successiva? Il sesso appare sempre come problematico e infelice. A niente era valso l’insegnamento clamoroso e gioioso di Henry Miller. Al giovane Holden il sesso procurato in un alberghetto dal cameriere Maurice si presenta come squallido, come qualcosa che lo defrauda e lo umilia. Lo stesso suo professore Antolini lo spaventa, quando intravede in lui la volontà di abbagliarlo e sedurlo. Tutto è disillusione. Un certo humour freddo e in sostanza nichilista percorre questa disillusione, rendendola sopportabile, o almeno dicibile. La malattia in questo universo è il male assoluto. E così le immagini del fratello Allie morto di leucemia inseguono Holden mescolandosi alla sua quotidianità. E la psicoanalisi diventa la terapia, l’epilogo obbligato, cui il protagonista sarà spinto dalla sorella Phoebe e dalla famiglia.
L’approdo alla psicoanalisi data il libro. Nel secolo XXI la psicoanalisi non ha già più la stessa funzione e lo stesso potere di attrazione. Salinger scrive e definisce magistralmente il suo tempo. I Nove racconti, del 1953, Franny e Zooey, del 1961. Poi, dall’ultimo racconto del 1965, fa tesoro del suo silenzio. Fu chiamato in causa per spiegare diversi fenomeni artistici del suo tempo. Scrisse Italo Calvino che nei Nove racconti Salinger «contrappone alla volgarità imperante giochi e chiacchiere di bambini e di donne; e ti fa correre un brivido per la schiena, perché rappresenta il rapporto totale e diretto con l’universo, quello che i teologi chiamano la grazia. E la grazia non è graziosa, è felicemente assurda e tragica». Calvino commentò con queste righe così limpide l’apparentamento tra Salinger e Antonioni, nella fattispecie l’Antonioni dell’Eclisse, fatto da un critico cinematografico come Pietro Bianchi. L’alienazione, l’incomunicabilità, l’assurdo: Antonioni, Beckett... Il Novecento nei suoi aspetti ormai canonici e finiti. Salinger si congeda al momento giusto, ora il suo silenzio è quello di una maestro Zen, quello che a me piace chiamare il silenzio dell’infinito.
«Il Giornale» del 29 gennaio 2010

«Il mio amico Cicerone? È l’antico più moderno»

Il bestsellerista inglese si rituffa negli intrighi dell’antica Roma Fra travestiti, delitti e misteri. Alla ricerca del senso del potere
di Luca Crovi
Roma, anno 63 a.C. Omicidi, congiure militari e scandali sessuali minano il cuore della Repubblica e mentre spregiudicati uomini politici come Pompeo, Crasso, Catone, Catilina e Giulio Cesare tessono oscure trame, c’è chi, come l’oratore Marco Tullio Cicerone, da poco investito del ruolo di console, è al contempo senatore, investigatore, avvocato di accusa e di difesa nonché oscuro macchinatore di complotti.
Questa in sintesi la trama dell’ultimo romanzo dell’inglese Robert Harris che, con Conspirata (Mondadori, pagg. 442, euro 20), prosegue la trilogia dedicata al celebre uomo politico romano iniziata nel 2008 con Imperium. L’autore di best seller come Fatherland, Enigma e Pompei, in questi giorni a Venezia, ci ha confessato di avere scelto un protagonista come Cicerone perché «è un personaggio affascinante, carismatico, poco noto per certi aspetti della sua vita personale e che può essere considerato un “ponte” fra l’epoca repubblicana e il XXI secolo. Era un individuo moderno, che affrontò problemi molto simili a quelli della nostra epoca».
Quanto si è sentito in dovere di rispettare le fonti dell’epoca (da Svetonio a Plutarco) e quanto invece ha lavorato di immaginazione?
«Lo scheletro su cui ho costruito i miei libri sono i dati documentari che la tradizione ci ha lasciato su Cicerone (più di 700 lettere, quaranta orazioni, i vari libri che lo vedono protagonista). Il mio lavoro è stato ricostruire la sua psicologia. Ho aggiunto carne allo scheletro narrativo. Mi sono divertito a scrivere le conversazioni private di personaggi complessi e affascinanti come Pompeo, Crasso, Catone, Cesare che vissero praticamente gomito a gomito in un’epoca problematica. Mi interessavano i loro rapporti interpersonali e i rapporti con donne forti come Claudia e Servilia, i loro odi e i loro amori».
Cicerone chi era realmente?
«Era un uomo contraddittorio, e questo lo ha reso grande. Credeva negli ideali della Repubblica e voleva difendere lo Stato, ma per sopravvivere dovette scendere a compromessi e andare avanti anche contro i propri principi morali. Questo lo portò a condannare a morte i cospiratori che minavano il potere repubblicano servendosi di mezzi spesso illegali».
In «Conspirata», Giulio Cesare e Cicerone si misurano...
«Entrambi ballarono con la morte per tutta la vita, così come nel mio romanzo. Erano ambiziosi, ma Cicerone voleva esserlo nel rispetto delle leggi mentre Cesare voleva costruire un sistema politico a sua immagine e somiglianza. Erano rivali ma si rispettavano. Cesare si divertiva ad ascoltare la retorica di Cicerone così come il retore aveva ammirazione per il ruolo politico del suo avversario».
La parte centrale del romanzo è dedicata a un gigantesco scandalo sessuale che fece tremare le stanze del potere a Roma...
«Si tratta del celebre scandalo politico della Dea Bona che avvenne nel 62 a.C., all’epoca della seconda congiura di Catilina. Durante una cerimonia dedicata alla Dea Bona, protettrice della fertilità e che si doveva svolgere fra le pareti della casa di Giulio Cesare alla presenza di un pubblico femminile, il libertino Publio Clodio Pulcro (da tempo sospettato di essere l’amante di Pompea, moglie di Cesare) venne sorpreso vestito da donna in mezzo alle officianti al rito. Ovviamente il sacrilegio doveva essere punito pubblicamente in qualche modo e Cicerone venne incastrato da Clodio, il quale voleva che questi testimoniasse che durante la sua presunta incursione in realtà si trovava con lui... Cicerone non accettò di fargli da alibi e Clodio si salvò dalla punizione capitale per il rotto della cuffia, ma divenne ovviamente nemico giurato del console. In questo fatto di cronaca dell’epoca è evidente come già in quel periodo gli incroci fra la lotta per il potere e la sessualità fossero indissolubili, e quanto il conflitto fra l’uomo politico e l’uomo privato possano essere pericolosi come accaduto anche in tempi recenti. Giulio Cesare a causa di questi eventi vide completamente distrutta la sua carriera politica e fu costretto a lasciare Roma coperto di debiti e dovette rifugiarsi in Portogallo».
Che cosa ci può dire del film Ghostwriter realizzato da Roman Polanski dal suo omonimo romanzo?
«Aspetto con ansia la proiezione del film alla Berlinale il prossimo 12 febbraio e spero di essere presente alla prima. Ho visto la pellicola una decina di giorni fa nella casa in Svizzera di Polanski. È molto fedele alla mia storia ed è un classico e avvincente thriller, i cambiamenti apportati alla trama sono funzionali alla pellicola. Sono da sempre stato un ammiratore di Chinatown e chi andrà a vedere Ghostwriter riconoscerà immediatamente il talento di un regista come Polanski».
E quanto al progetto di un adattamento di Pompei?
«Diventerà presto un serial televisivo e le riprese inizieranno in Italia fra pochi mesi».
«Il Giornale» del 29 gennaio 2010

26 gennaio 2010

Francia, verso il divieto di burqa: "Offende i valori nazionali"

Le attese conclusioni della commissione parlamentare di studio
Il bando solo in esercizi e uffici pubblici. La sanzione: il rifiuto del servizio
s. i. a.
La legge andrà probabilmente in discussione dopo le elezioni regionali di marzo. Il dibattito divide i politici. Sarkozy: "Il velo integrale non è benvenuto"
La Francia va verso il divieto del burqa e del niqab nei luoghi pubblici. La commissione di studio istituita dal Parlamento francese ha infatti raccomandato che il velo islamico che copre interamente il volto delle donne sia vietato in tutte le scuole, gli ospedali, i trasporti pubblici e negli uffici statali. Il burqa, è la conclusione del rapporto, offende i valori nazionali della Francia.
Secondo anticipazioni di stampa, le conclusioni della commissione suggeriscono il varo di una norma che vieti il burqa e il niqab negli esercizi e servizi pubblici, ma che non estenda questo divieto a tutti gli spazi pubblici, data l'assenza di unanimità su questo aspetto. In un rapporto di 200 pagine, dai toni prudenti, che concludono sei mesi di lavori, la commissione si studio presieduta dal deputato comunista André Gerin stabilisce 18 raccomandazioni di vario ordine.
Sul piano strettamente normativo, la proposta faro consiste nell'adozione di una "disposizione che vieti di dissimulare il proprio viso nei servizi pubblici". Il rapporto raccomanda di "optare per uno strumento legislativo" che possa anche essere declinato "per via amministrativa". Questo dispositivo potrebbe in particolare essere applicato nei trasporti pubblici e nei dintorni delle scuole. "La conseguenza della violazione di questa regola non sarebbe di natura penale ma consisterebbe in un rifiuto di corrispondere il servizio richiesto". La commissione di studio non arriva a suggerire un "divieto generale e assoluto del velo integrale negli spazi pubblici" perché "non esiste al riguardo unanimità". Il rapporto sottolinea come una legge di questo tipo "sollevi comunque questioni giuridiche complesse", poiché comporta una "limitazione dell'esercizio di una libertà fondamentale, la libertà di opinione, nella totalità dello spazio pubblico"; di qui il rischio di una censura da parte del consiglio costituzionale o di una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo.
"Le persone - si legge nel testo - saranno non soltanto costrette a mostrare il volto all'ingresso dei servizi pubblici ma anche durante tutto il periodo della loro permanenza". La proposta dovrebbe superare le obiezioni giuridiche ad un divieto del burqa su tutto il territorio che, secondo diversi giuristi, sarebbe in contrasto con la libertà di culto garantita dalla Costituzione. Secondo gli estensori della proposta, la natura del servizio pubblico legittima infatti "alcune regole particolari" legate alla sicurezza.
In Francia è in corso un ampio dibattito sul velo integrale portato da alcune donne musulmane, dopo che in giugno il presidente Nicolas Sarkozy ha dichiarato che "il burqa non sarà mai il benvenuto sul territorio della Repubblica francese". Fra le proposte sollevate vi è stata recentemente quella del deputato Jean Francois Copè, capogruppo del partito Ump di Sarkozy all'Assemblea Nazionale, che aveva proposto di multare chi indossa il burqa con 750 euro.
Rimane dunque aperta la questione della traduzione legislativa di questa raccomandazione, che potrebbe richiedere ancora del tempo. I sondaggi d'opinione in Francia indicano una maggioranza della popolazione favorevole al bando del cosiddetto burqa (si adotta il termine afgano, anche se in realtà il velo utilizzato dalle islamiche in Francia e in molti altri paesi occidentali è il niqab, ovvero la versione integrale che lascia scoperti gli occhi). La legge andrà probabilmente in discussione dopo le elezioni regionali di marzo in cui il partito conservatore del presidente Sarkozy, l'Ump, tenterà di strappare la maggioranza dei consigli (22 a 20) ai socialisti. Il tema del velo integrale attraversa trasversalmente lo spettro politico francese perché anche il partito socialista è diviso, con la maggioranza contraria al divieto ma alcuni deputati che lo appoggiano.
Sono circa duemila le donne francesi che indossano il velo integrale, ma Gerin (il deputato comunista a capo della commissione parlamentare), che viene dal collegio di Lione dove è forte la presenza musulmana, avverte che la tendenza è in forte espansione e a suo parere va frenata in tempi rapidi.
«La Repubblica» del 26 gennaio 2010

Lingua italiana: tutta colpa dei ragazzi?

di Marco Mancassola

Una versione ridotta di questo mio commento è uscita su Il Manifesto del 20 dicembre 2009 con il titolo Giovani vittime di una lingua in crisi
Nella lunga agonia della cultura borghese di sinistra, uno degli allarmi più frequenti è quello dell’arrivo dei barbari. Le vecchie generazioni lamentano che le nuove non fanno nulla di ciò che piaceva loro: non vanno al cineforum, non comprano dischi, non leggono giornali, non tappezzano di libri le pareti dei loro salotti. Passano il tempo su computer e cellulari e, soprattutto, usano un italiano sempre più povero e sgrammaticato. Proprio alla caduta di competenza linguistica da parte dei giovani italiani sono dedicati ricorrenti articoli: l’ultimo, apparso giorni fa sul sito del quotidiano La Repubblica, citava una ricerca del Centro Europeo dell’Educazione. Secondo la ricerca, l’otto per cento dei laureati italiani non sarebbe praticamente in grado di scrivere un testo; uno su cinque non saprebbe andare oltre il livello minimo di comprensione linguistica, trovandosi in difficoltà a capire espressioni molto banali.
Nel servizio de La Repubblica si riportavano le testimonianze di professori universitari a proposito di studenti sempre più vicini all’analfabetismo. Interpellato, il linguista Tullio De Mauro sosteneva che, oltre alle ovvie colpe del sistema scolastico, “il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie”. Gian Luigi Beccaria se la prendeva con il solito predominio dell’inglese. Lo stesso articolo accennava, inevitabilmente, alla disperata battaglia per l’uso del congiuntivo.
Gli allarmi di questo tipo, abbastanza ciclici da costituire ormai quasi un genere giornalistico a sé, acuiscono la sensazione di vivere in una crisi che è anzitutto crisi linguistica. Una crisi in effetti straziante e in atto da tempo. Senza prendersela con gli studenti, basterebbe ascoltare tanta nostra politica ovvero tanta televisione: la lingua italiana dopo Silvio Berlusconi resterà una lingua molto povera quanto a logica e dignità delle parole. Come sempre, però, il morbo berlusconiano-televisivo può essersi limitato a estremizzare un degrado esistente in ogni caso.
Di fronte a questo degrado, le spiegazioni degli esperti suonano parziali e talvolta, si ha l’impressione, di retroguardia. Per restare alle dichiarazioni citate, sarà vero che alcuni romanzi, spesso in testa alle classifiche, sono scritti in un idioma sciatto e di derivazione televisiva. È un brutto segno quando gli scrittori lavorano contro la propria lingua. Bisognerebbe però ricordare l’esistenza di altri scrittori, non pochi, spesso giovani e purtroppo di minore successo, che non rinunciano affatto a un personale corpo a corpo con la ricchezza della lingua italiana: se i luminari della lingua italiana iniziassero a occuparsi anche di questi, potrebbe nascerne un confronto costruttivo.
Al di là dei singoli articoli, ciò che colpisce quando si parla di queste problematiche è il diffuso tono da apocalisse culturale. Pare che la cultura italiana assista con spirito nobile e indignato a una calata di barbari. I quali hanno dimestichezza con nuove inquietanti armi, quelle della tecnologia comunicativa, e usano un idioma appunto barbaro. Ora, il tracollo culturale in corso sarà vero, ma quando le vecchie generazioni se la prendono compatte con le nuove c’è sempre da conservare una dose di sospetto. La tendenza generazionale a vedere “dopo di sé il diluvio” rischia infatti di rivelarsi, a volte, venata di qualche narcisismo, nonché di qualche coscienza sporca riguardo all’eredità che si sta lasciando.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, che la povertà linguistica degli studenti è speculare al ridicolo elitarismo linguistico di tanti loro docenti. Cosa dire di numerosi baroni delle scienze umane, sociologi, filosofi, letterati, psicologi, del tutto incapaci di esprimersi in un italiano onesto e scorrevole? Da una parte ci sono studenti che non conoscono l’italiano, dall’altra intellettuali convinti di conoscerlo così bene da trascurare ogni minima necessità di comprensione. Non sarà anche questa una paradossale forma di analfabetismo? Non siamo di fronte a un’incapacità di comunicare? Non si tratta solo, e sarebbe già discutibile, della volontà di mantenere un gergo per iniziati. Si tratta di palese cialtroneria linguistica. Chi scrive non scorderà mai l’esperienza da incubo di lavorare all’editing del testo di un noto docente, che dietro l’uso di un fumoso gergo filosofico rivelava un’esasperante incapacità, o forse disinteresse, a distendere il filo dei suoi discorsi.
In fondo, la lingua somiglia proprio a un filo, spesso fragile, teso tra le persone e all’interno di una cultura. Puntare il dito contro i giovani non serve granché. Sarebbe forse utile ragionare sul fatto che il filo è stato spezzato da molte parti, con molte colpe. I ragazzi sono oggi coloro cui tocca l’incombenza, faticosa e alquanto dolorosa, visto il disastro che hanno ereditato, di riannodare un filo che non sarà, non può più essere, quello delle generazioni precedenti.
In secondo luogo, tutto sommato, si ha l’impressione di poter fare a meno di certo perbenismo linguistico. Un italiano elegante e terso rimane il nostro ideale, inutile dirlo: le parole a sproposito, le frasi fatte, la grammatica goffamente ignorata restano uno strazio. Ma non sottovalutiamo la potenziale bellezza di un italiano magari rotto, sincopato, contaminato. La lingua non è un fenomeno vivo che accade? Non a caso, l’italiano più bello e commovente parlato oggi in Italia rischia di essere quello degli immigrati, talvolta incerto ma fantasioso, necessario, vissuto. Una lingua viva, come dimostra l’inglese, non è mai quella rigida bensì quella plastica, e se anche questa plasticità sembra diventare impoverimento la soluzione non può essere un accademico, sterile richiamo all’ordine.
Spesso, come esempi di scrittura luminosa si citano autori quali Calvino o Pavese. A ben guardare, si trattava di scrittori ben radicati nell’esperienza italiana ma al tempo stesso cosmopoliti, che non avevano paura di confrontarsi con l’inglese e di assorbirne, perché no, il gusto per lo stile trasparente. I nuovi Calvino e i nuovi Pavese, se ci saranno, potrebbero venire da una simile capacità di cosmopolitismo. Un cosmopolitismo che oggi non è solo la capacità di confrontarsi con altre lingue e culture ma anche con i diversi piani dell’esperienza, con gli intrecci tra conoscenza diretta e virtuale, tra umano e tecnologico, tra tradizione e nuova apertura. Il filo della lingua è anche quello che ci lega all’esperienza, e l’esperienza si sfaccetta di continuo. Se vogliamo che i ragazzi conservino memoria della nostra polverosa cultura, dobbiamo fare qualcosa di più che suggerire loro l’uso dei congiuntivi: dobbiamo ragionare sul modo di trasmettere questa cultura come esperienza vera, viva, capace di accadere ancora, proprio adesso e proprio qui. E bisogna ovviamente essere in grado di comprendere e accettare la loro, di esperienza. Se volete che i ragazzi credano in voi, dovete prima credere in loro.

[Nota successiva: dopo aver scritto questo pezzo, il 18 dicembre ho visto un diverso articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere, che ho trovato più condivisibile, e che metteva il problema in una più chiara dimensione di investimento scolastico.]
«Il Manifesto» del 20 dicembre 2009