24 dicembre 2010

Tanti auguri a tutti!

A Christmas carol
Un sant’uomo chiede a Dio di poter visitare l’inferno e il paradiso, possibilmente nell’ordine (preferisce il lieto fine). Dio lo conduce davanti a due porte chiuse e spalanca la prima. Al centro della stanza spicca una tavola rotonda e al centro della tavola un pentolone da cui emana un profumo delizioso. Ma le persone sedute intorno alla tavola sono ridotte a scheletri. Ciascuna di esse ha un mestolo attaccato al braccio, lo tuffa nel recipiente per raccogliere il cibo e però poi non riesce a portarlo alla bocca perché il manico del mestolo è più lungo del braccio. Che supplizio atroce, pensa il sant’uomo, compatendo gli affamati. «Hai appena visto l’inferno», dice Dio e spalanca la seconda porta, quella del paradiso. C’è una tavola rotonda al centro della stanza anche lì. Al centro della tavola un pentolone da cui emana lo stesso profumo. E le persone sedute intorno alla tavola hanno un mestolo attaccato al braccio che nessuna di esse riuscirà mai ad avvicinare alla bocca. Eppure sono ben pasciute. «Non capisco», sbotta il sant’uomo. «È semplice» - risponde Dio -. «All’inferno gli uomini muoiono di fame perché non pensano che a se stessi. In paradiso, invece, stanno tutti in salute perché ognuno mangia dal mestolo degli altri».
Postato il 24 dicembre 2010

Difendersi con l’arte dell’«e che dire, allora?»

Sono stati prima gli altri: ecco la recriminazione. Mai che si dica: così non si fa
di Pierluigi Battista
La stampa di destra, il Giornale e Libero in testa, eccelle ultimamente nell’arte dell’«e che dire, allora?», versione adulta e più scaltra di un espediente autodifensivo molto in voga negli asili infantili: «Signora maestra, ha cominciato lui però». Faccio una cosa che non devo fare: «E che dire, allora» se la stessa cosa la fa qualcun altro? Rubo: «E che dire allora» se non sono il solo a rubare? Cattivo argomento. Che sostituisce quello buono: se una cosa non si deve fare, non si fa, anche se lo fa qualcun altro. Punto. Troppo difficile? Se nelle aziende municipalizzate di Roma, in quella che si occupa dei trasporti (Atac) e in quella che cura la raccolta dei rifiuti (l’Ama), si fanno assunzioni in massa e per chiamata diretta senza concorso di segretari, segretarie, mogli, cugini, suoceri, generi, cognati, parenti vari e tutti più o meno legati alla giunta di centrodestra guidata da Alemanno, scatta nella stampa di destra l’automatismo pavloviano della solita giustificazione: «E che dire allora» delle assunzioni parentali e clientelari fatte dalle giunte precedenti in mano alla sinistra? Non si dice: sarebbe bene che la nostra giunta non perpetuasse un malcostume e addirittura non lo ingigantisse fino a vertici nauseabondi. Si dice: anche prima venivano assunte nuore, figli e amanti. Si cancella una brutta storia, per avanzare l’argomento che è la solita brutta storia. Se sono clientelari gli altri, sono autorizzato ad esserlo anche io («e che dire, allora?», all’ennesima potenza per giunta). Massacrano mediaticamente Fini, gli scatenano contro una campagna martellante, vanno perfino a scovare venditori di cucine e figli dell’ex fidanzato dell’attuale fidanzata del reprobo traditore appena cacciato via dal Pdl. E se obietti che il linciaggio non è un bello spettacolo, ecco inesorabile la replica: «E che dire, allora» del «metodo Noemi», delle intrusioni della sinistra nella vita del premier? Sono stati prima gli altri, signora maestra: ecco la puerile recriminazione autoassolutoria. Mai che si dica: così non si fa, punto e basta. Il centrodestra folgora all’ultimo minuto peones che fino a un minuto prima vomitavano insulti indecorosi all’indirizzo del premier di cui ora si apprestano a votare la fiducia in Parlamento? «E che dire allora» degli improvvisi passaggi di campo in senso contrario? «E che dire» del missino Romano Misserville che a un certo punto divenne sottosegretario del governo post ribaltonico di D’Alema? Lo fanno gli altri, ergo lo faccio pure io. Ma che logica è mai questa? Le compravendite di parlamentari sono nobili o ignobili? A questa domanda, nella stampa di destra, non si risponde mai. In quella di sinistra, almeno, sono confortati dal fanatismo di chi si sente dalla parte del Bene e della Verità e Giuseppe D’Avanzo può condannare l’altrui «macchina del fango» santificando la propria. E che dire, allora? Che così non si fa. Mai.
«Corriere della sera» del 20 dicembre 2010

I bambini e internet a luci rosse: bravo Cameron (solo a metà)

di Fabio Cavalera
Una ricerca della rivista scientifica Psychologies rivela che un bambino britannico su tre, di età fra i 10 e i 12 anni, è un assiduo utilizzatore dei siti hard su internet. Il problema non è circoscritto al Regno Unito ma qui i dati toccano picchi sconosciuti agli altri Paesi modernizzati. Miranda Suit, fondatrice di SaferMedia, una organizzazione che si occupa di monitorare gli effetti dannosi provocati sui ragazzi dall’eccessiva esposizione al computer e al web, davanti ai Comuni ha sostenuto che la pornografia sulla rete non è più una questione morale, ormai «è una questione di igiene mentale» perché stimola «comportamenti sessuali perversi e devianti». Da qui la necessità di correre ai ripari. Il suo grido d’allarme non è rimasto inascoltato. Il governo Cameron ha avviato una strategia con lo scopo positivo ed encomiabile di impedire che la pornografia, nella sua versione tecnologica, diventi una «malattia» per i giovanissimi. Si tratta però di capire se l’arma individuata sia davvero la più efficace. L’esecutivo convocherà il prossimo mese i maggiori provider, i fornitori dei servizi internet, ai quali chiederà di installare un blocco automatico in grado di oscurare i siti a luce rosse. Con una postilla: se i singoli genitori esprimeranno la volontà di lasciare ai loro figli piena libertà di navigare nel web la censura non sarà attivata. A parte certi toni allarmistici, che sembrano rievocare le campagne «spirituali» del regime cinese, questa giusta e improvvisa sensibilità pubblica su un tema delicato e importante, con la soluzione ipotizzata, solleva un problema: la responsabilità dell’oscuramento e dell’educazione sessuale viene trasferita per intero alle famiglie, come se le istituzioni avessero un ruolo repressivo e non, anche, formativo. Si agisce con mano forte per impedire il «peccato» via internet, e va bene, ma non si risolve il disagio: perché così tanti bambini e adolescenti, nel Regno Unito, sono clienti fissi delle pagine elettroniche a luci rosse? I «comportamenti sessuali perversi» sono solo colpa del papà e della mamma che non spengono i computer di casa? Forse contano anche i modelli educativi (in crisi) della scuola. Quella britannica è una cura a metà.
«Corriere della Sera» del 20 dicembre 2010

Elogio di Giobbe, eroe moderno

Un volume raccoglie in modo organico le «prose religiose» del poeta scomparso nel 2005
di Bruno Forte
Un teologo racconta i percorsi di Mario Luzi nella fede
Mario Luzi scrisse l’introduzione a tre testi del Nuovo Testamento, il Vangelo secondo Giovanni, le Lettere di San Paolo e l’Apocalisse, e a uno del Primo Testamento, il Libro di Giobbe. Egli «sentì» fortemente questi suoi scritti, raccolti ora in forma accurata ed elegante a testimonianza dell’ispirazione della fede biblica che alimentò la sua vita e il suo «pathos». Se mi accingo a parlarne, lo faccio in forza della medesima passione per le Sacre Scritture, oltre che motivato dell’amicizia, di cui Luzi volle farmi generosissimo dono. Per Luzi la posta in gioco nel Libro di Giobbe è la più alta, l’unica veramente decisiva (...). È la grande domanda sul dolore, sul suo senso e la possibile dignità dell’umano che può in esso mostrarsi: perciò è anche e inseparabilmente la domanda su Dio. Si Deus justus, unde malum? A Giobbe non piace l’inconciliabilità dei due termini, come non piace a Luzi: il ragionamento di Voltaire - un Dio che tollera il male, o non può evitarlo, e quindi è impotente, o non vuole, e dunque è malvagio - è troppo corto e troppo breve. Non tocca l’abisso del mistero che avvolge tutto ciò che esiste, e risolve ogni cosa in un’evidenza tanto rapida, quanto insoddisfacente. Eliminare Dio vuol dire anche negare l’ultima consistenza alla nostra vita, il suo approdo più alto, la sua sete di eternità. Con Dio o senza Dio cambia tutto. Sul crinale dell’affermazione o della negazione di Lui sta la lotta fra la voracità del nulla e la speranza del tutto, fra la nullità e il significato dell’esserci. Perciò l’idea di Dio nella mente e nel cuore dell’appassionato cercatore del Suo Volto, nascosto com’esso è sotto le piaghe del male del mondo, incessantemente «si forma e si trasforma»: e perciò di questa idea è costante solo la necessità. Di essa è eco «l’amore tempestoso e struggente che supera ogni mutamento di condizione»: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10). È questo che gli stucchevoli consolatori di Giobbe non hanno compreso: egli non cerca risposte a buon mercato, asserti consolatori o terribili. Egli «vuole» l’Amato, lo vuole con tutta la passione della Sua anima, e proprio così vuole potergli dire la sua protesta, protestare il suo amore ferito, fedele nonostante tutto, contro tutto. «Il binomio Dio-onnipotenza non avvince davvero Giobbe. A lui, al suo desiderio si addice un Dio fraterno... Forse un Dio che condivida la sofferenza delle sue creature, un Dio che prefiguri il Cristo». In questa luce si comprende l’ardita verità trasmessa dal libro di Giobbe: di fronte al dolore «il primo dramma è del Signore». Inevitabile è il rischio per chi per amore ha creato e per amore rispetta la libertà della Sua creatura: creazione è umiltà, autolimitazione dell’Eterno perché l’essere creato esista e consista, padrone della sua libertà. La grandezza di Giobbe non sta, allora, nelle spiegazioni che potrebbe essere capace di addurre analogamente a quanto fanno i suoi amici-nemici, ma nell’abbandono incondizionato all’Amato, della cui fedeltà non riuscirà mai a dubitare: «La devozione, la fedeltà - questo è in essenza Giobbe». Sfidato dalle due forze cosmiche, certo asimmetriche, ma fra cui si tende l’arco di fiamma della sua libertà, «Giobbe è all’altezza di questo grande combattimento avendo dalla sua la fermezza della fede e la pazienza... Lui regge la prova e tace». La logica della remunerazione non serve all’enormità del fatto. Occorrerà una logica altra, inquietante. (...) «Non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza» (Pavel Evdokimov). Mario Luzi lo sa: «La luce - confessa - mi ha occupato molto di più negli ultimi anni rispetto ai miei inizi dove la luce dà sostanza ai colori. Poi mi sono reso conto che la luce è un mondo a sé, autonomo, che crea l’altro. C’è una specie di radiosità o fulgore avvertito come tale e avvertito come mistero». La chiusa infuocata del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) ne è eloquente conferma. (...) Il dubbio che si insidia nel cuore è ben comprensibile in chi, come Luzi, ha assistito alle avventure disperate dell’ubriacatura di luce, propria delle presunzioni dell’ideologia moderna. Egli sa che la conseguenza di una troppo forte equazione fra la verità e la luce raggiunta dallo sguardo della mente è la violenza: se la verità è idea, se è visione, allora la verità costringe, perché è inseparabile dal possesso della cosa vista, dalla necessità di abbracciare ogni cosa col dominio dello sguardo. La visione della verità fonda la presunzione di una raggiungibile piena corrispondenza dell’oggetto e della mente nell’atto onnicomprensivo dell’idea: perciò può essere «luminosa insidia». Questa concezione è stata di fatto l’ispiratrice della storia dell’Occidente, la molla della sua forza, il segreto della sua violenza, l’espressione della sua anima assetata di dominio. Anche per questo Luzi si sente in sintonia con Giobbe: e il Giobbe di Luzi ci appare di una singolare modernità, in sintonia con noi, compagno dei nostri interrogativi, del nostro essere segnati dalla fragilità post ideologica, ammaliati dalla cosiddetta «ontologia del declino», sfidati dal silenzio e dall’indistruttibile nostalgia del Totalmente Altro. Il biasimo di Giobbe verso i suoi consolatori stucchevoli è dunque quello di Luzi, ed è il nostro.
____________________
Noi, avviluppati e alienati nel nostro Occidente
di Luzi Mario

Siamo avviluppati e perfino alienati nella nostra cultura occidentale. Così può accadere che ci sorprendiamo di trovare nelle pagine iniziali del Libro di Giobbe il prologo in cielo, per noi inseparabile dalla fantasia poetica di Goethe. Il poeta moderno sembra avere oscurata la fonte; ma a sorpresa ci accorgiamo che ha coperto di vesti e panneggi più maestosi la stessa sostanza, vale a dire il momento venuto della prova. È la prova a cui il Signore sottopone Giobbe; ed è, anche per la sua lungimiranza e potenza, una prova al cospetto dell’avversario e per suo mezzo. Credo che dobbiamo liberarci dal senso proverbiale connesso con la figura di Giobbe. La proverbialità ha come sempre esaltato e avvilito l’eroe; ma in questo caso lo snaturamento è stato molto forte, la riduzione della figura molto grave. Il grandioso agonismo del Libro che lo riguarda soffre di quella semplificazione e dobbiamo riconquistarne tutto il senso possibile. Il primo dramma è del Signore. Di tanto superiore a Satana in potenza, non si può tuttavia sottrarre alla sua sfida. I poteri di Satana non sono illimitati, ma abbastanza estesi da piegare Jahweh a una dura verifica della sua onnipotenza. Che umiliazione accettare quel paragone - per necessità? Per pura ostentazione di forza e di sicurezza? Chi è qui il tentato? Il Signore trascinato dalla tentazione di Satana sta al gioco, mettendo in palio il suo prediletto. Riesce a salvaguardare l’incolumità di Giobbe, ma abbandona il suo pupillo alla violenza dell’avversario. È un duello inutile perché non può avere che un esito. È tuttavia inevitabile. Due poteri si affrontano comunque. Dio. Autocelebrazione? Catalogo delle meraviglie del creato e delle creature. Trionfale rassegna dei prodigi e della onnipotenza. Giobbe, toccato nel midollo, non dal sublime pavoneggiamento ma dalla condiscendenza infine mostrata da Jahweh, non si confessa reo ma si proclama umile, ma riconosce di non essere stato al quia. Il mistero del male non è vinto; eppure su questo piano di mutua intelligenza avviene la riconciliazione. Dio è onnipotente - questo è l’argomento principe della Bibbia. Giobbe non mette in causa questo principio. Quando imputa a Dio il male dimostra anzi di osservarlo, sia pure paradossalmente. Tuttavia il binomio Dio-onnipotenza non avvince davvero Giobbe. A lui, al suo desiderio si addice un Dio fraterno, che non opponga il silenzio e l’indifferenza, al grido dell’infelice, ma fiant aures tuæ intendentes in vocem deprecationis meæ. Forse un Dio che condivida la sofferenza delle sue creature, un Dio che prefiguri il Cristo.
«Corriere della Sera» del 20 embre 2010

Test genetici in gravidanza, caccia al feto difettoso

Maternità e aborto
di Emanuela Vinai
La domanda si pone con insistenza: ma lo vogliamo far nascere, questo bambino? Quesito tutt’altro che ozioso. Non solo per l’inevitabile assonanza nata­lizia, ma perché già nella nor­malità delle cose il venire al mondo è un percorso a osta­coli, e se poi a questo si ag­giunge l’attraversamento del­la giungla dei test prenatali, per il nascituro la faccenda diventa oltremodo ostica. Secondo i dati disponibili, in Italia una donna in gravidanza su tre si sottopone a test di diagnosi pre­natale. Le motivazioni sono diverse e vanno dal raggiungimento di una determinata soglia ana­grafica (normalmente i 35 anni), alla presenza di malattie geneticamente trasmissibili, a una più generica e ormai diffusissima 'medicalizzazione della gravidanza'.
Un trend che finisce per stigmatizzare la futu­ra mamma che non si sottoponga a tutti gli esami disponibili per 'la salute del bambino' e che, pur nelle migliori intenzioni, finisce per scivolare in un’inarrestabile 'caccia all’anomalia'. «Il problema dello screening prenatale è la fina­lità con cui lo si effettua», afferma Licinio Contu, genetista, presidente della Federazione italiana A­doces (Associazione italiana donatori cellule sta­minali) e dell’Admo (Associazione donatori mi­dollo osseo): «Il test ha senso se si esegue, come si farebbe con un adulto, con la prospettiva di fornire tempestivamente una diagnosi di un’e­ventuale anomalia così da predisporre una tera­pia adeguata. Se invece l’unica 'cura' prospetta­ta è l’aborto non possiamo che parlare di euge­netica, perché avviene inevitabilmente una selezione».
Contu è particolarmente duro con la 'celo­centesi', l’ultimo ritrovato in fatto di test pre­natali, che, senza ricorrere alla villocentesi, consente di diagnosticare la talassemia già al se­condo mese di gestazione. Anticipare i risultati consente, come dichiarato nel recente comunica­to stampa di presentazione del test, di «ricorrere all’Ivg e non all’aborto terapeutico con un bene­ficio della donna sia fisico sia emotivo». «Nel ca­so della talassemia è assurdo – ribatte il genetista – perché se i bambini talassemici sono avviati al trapianto in tempo utile le percentuali di guarigione che abbiamo riscontrato sono del 98%». L’uso indiscriminato dei test prenatali e la re­sponsabilità in capo ai sanitari di interpretare cor­rettamente i risultati porta, più o meno inconsa­pevolmente, all’introduzione surrettizia di un con­cetto che va contro ogni logica medica: l’aborto diventa prevenzione di una malattia. «La cura che si propone è l’eliminazione del malato – conclu­de Contu – ma cosa succederebbe se questa so­luzione venisse applicata anche nelle corsie degli ospedali?».
Per ovviare all’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita, il 16 dicembre il Ministero della Salute ha pubblicato le «Linee guida sul­la gravidanza fisiologica». Attraverso un sistema Pdi quesiti e raccomandazioni, il documento diviene strumento per «la predisposizione di protocolli operativi dei differenti punti na­scita, oltre che strumento di rife­rimento per la presa in carico e la continuità assistenziale della donna in gravidanza». Il vade­mecum analizza tutto il pianeta maternità: dagli stili di vita al­l’informazione, dal timing delle visite indispensabili per un corretto monitoraggio agli esami cli­nici adeguati per la salute della mamma. Una sezione delle linee guida è espressamente dedicata allo «screening per anomalie strut­turali fetali» e la «diagnosi prena­tale della Sindrome di Down».
L’intento di ridurre l’estensio­ne acritica degli esami pre­natali si traduce però nell’ampliamento della platea dei de­stinatari, come evidenzia Lucio Romano, ginecologo e presiden­te dell’Associazione Scienza & Vi­ta: «L’articolazione delle linee gui­da dà una risposta compiuta e ag­giornata sulle varie tematiche i­nerenti la gravidanza fisiologica. Una particolare attenzione viene rivolta all’informazione della ge­stante, alle indagini di laboratorio e strumentali cui poter accedere e si evidenzia uno speciale im­pegno nella individuazione tempestiva di feti af­fetti dalla Sindrome di Down attraverso un ca­pillare percorso finalizzato alla diagnosi prenatale della sindrome, da offrire a tutte le donne entro la 13ma settimana più 6 giorni di gravidanza». Ciò significa «un’estensione massiva dell’esame a tut­te le gestanti e non più solo per i soggetti a ri­schio, come le donne in età fertile avanzata».
I rischi? «Il dato che preoccupa – continua Ro­mano – è il sottile propagarsi di una cultura eu­genetica selettiva derivante dalla sovradiffusio­ne di screening prenatali. Infatti, come riportato nelle Linee guida, in Danimarca attraverso l’in­troduzione della valutazione del rischio utiliz­zando il 'test combinato', si è dimezzato il numero di nati con sindrome di Down. In al­tri termini, si è raddoppiato il ricorso all’a­borto».
La possibile soluzione è già delineata nel va­demecum ministeriale, ma va correttamente applicata: «Laddove viene garantita la possi­bilità di accedere rapidamente a una consu­lenza con professionisti esperti e con capacità comunicative – conclude Romano – l’auspicio è che non ci si limiti a una mera informazio­ne sulle procedure ma si valuti con la gestan­te il rilievo di una vita umana».
«Avvenire» del 22 dicembre 2010

Perché quella in piazza non è la generazione del futuro

di Roberto Volpi
Sono in ballo, nelle scuole superiori e nelle università, le generazioni dei nati in Italia tra la seconda metà degli anni ottanta e la prima dei novanta, ovvero le generazioni del più formidabile tempo della rarefazione dei figli che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. E non scherzo. Indici di fecondità ai minimi di sempre, figli unici che diventano maggioranza, fratelli che latitano, cugini che spariscono, parentadi ridotti ai minimi termini, bambini che si guardano attorno e non trovano che adulti e vecchi, che incontrano i pari età in situazioni, nidi e materne, istituzionali e protette, che giocano quasi esclusivamente al chiuso, che ai parchi pubblici, rigorosamente deprivati di possibilità ludiche, si muovono impacciati rincorsi dalle voci di nonni doppiamente premurosi e apprensivi dei genitori. Cresciuti a cellulari e facebook. I primi, veri adolescenti e giovani imbozzolati, protetti, rassicurati e rincalzati da genitori fioriti al tempo dell’espansione dei consumi al di là delle possibilità collettive e delle responsabilità individuali, limitati all’essenziale nelle possibilità generative per non compromettere status e tenore di vita conquistati in tempi facili e generosi.
Queste generazioni, le prime la cui assoluta esiguità numerica si accompagna all’assoluta artificialità dell’allevamento e dell’educazione e alla protezione a trecentosessanta gradi da ogni possibile interferenza esterna, eventualità avversa, accadimento imprevisto, fanno massa perché non hanno imparato a loro tempo a frequentare gli altri e a stare in gruppo, ci si perdono perché non sanno misurarcisi, la alimentano perché pensano che grazie ad essa verranno spinte in avanti e qualcosa succederà. Non c’è, nella protesta di queste generazioni contro la legge di riforma Gelmini, un senso di frustrazione per quello che si apparecchia loro davanti, quanto piuttosto la paura della terra sconosciuta che le aspetta e dello sforzo che saranno chiamate a fare per cercare di conquistarla. Non sono, ahimè, le generazioni del futuro, ma quelle che temono il futuro. Non le generazioni meglio attrezzate, ma quelle più mediocremente predisposte per i giorni nient’affatto facili che ci aspettano. Prima la smettiamo di raccontarci favole sulla bella gioventù di oggi prima ci mettiamo in condizioni di aiutare quella gioventù a fare qualche passo per diventarlo.
Sono venti o trent’anni che gioventù, famiglia, scuola e università si muovono, non a caso all’unisono, non a caso con una straordinaria caduta di conflittualità tra studenti genitori e insegnanti, per stemperare le difficoltà nel raggiungimento di un traguardo che minaccia di diventare inservibile: un titolo di studio tanto più santificato quanto sempre meno spendibile nel lavoro e sempre meno utile alla società. E’ la crescente futilità intrinseca dell’approdo, e non la difficoltà oggettiva del percorso, che decima l’esercito dei partecipanti.
La legge di riforma Gelmini è timida. Ma forse è meglio così, perché università famiglie giovani sono di una debolezza tale che qualsivoglia passo davvero riformatore li getterebbe nello sgomento. La pretestuosa rivolta dei professori contro un modesto ma onesto passo avanti, contro ogni possibilità di valutazione, contro ogni premio del merito, pencolante tra propositi altisonanti e pianti sulle risorse perdute, misura il drammatico distacco tra ciò che è e ciò che servirebbe. Ma resta il primo distacco al quale si deve mettere mano.
«Il Foglio» del 22 dicembre 2010

Riforma Gelmini, ecco cosa cambia

Lotta agli sprechi e alla parentopoli, soldi solo in base alla qualità e nuova governance
Fonte ANSA
Lotta agli sprechi e a parentopoli; stop ai rettori a vita; autonomia delle università coniugata con una forte responsabilità finanziaria, scientifica, didattica; soldi solo in base alla qualità (gli atenei gestiti male ne riceveranno meno) e fine dei finanziamenti a pioggia; reclutamento e governance secondo criteri meritocratici e di trasparenza. Sono queste le principali novità della riforma dell'università approvata dal Senato in via definitiva.

ADOZIONE DI UN CODICE ETICO per evitare incompatibilità e conflitti di interessi legati a parentele. A questo proposito viene anche stabilito che per partecipare ai concorsi non si dovranno avere, all'interno dell'ateneo, parentele fino al quarto grado. Alle università che assumeranno o gestiranno le risorse in maniera non trasparente saranno ridotti i finanziamenti del Ministero.

LIMITE MASSIMO AL MANDATO DEI RETTORI di complessivi 6 anni, inclusi quelli già trascorsi prima della riforma. Un rettore potrà rimanere in carica un solo mandato e sarà sfiduciabile.

DISTINZIONE NETTA DI FUNZIONI TRA SENATO E CDA: il Senato avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il CdA ad avere la responsabilità chiara delle assunzioni e delle spese. Il Cda vrà almeno 3 membri esterni su 11. Il presidente potrà essere esterno. Presenza qualificata degli studenti negli organi di governo.

DIRETTORE GENERALE AL POSTO DEL DIRETTORE AMMINISTRATIVO: il direttore generale avrà compiti di grande responsabilità e dovrà rispondere delle sue scelte, come un vero e proprio manager dell'ateneo.

NUCLEO DI VALUTAZIONE D'ATENEO A MAGGIORANZA ESTERNA per garantire una valutazione oggettiva e imparziale.

GLI STUDENTI VALUTERANNO I PROFESSORI e questa valutazione sarà determinante per l'attribuzione dei fondi dal Ministero.

FUSIONE ATENEI: ci sarà la possibilità di unire o federare università vicine, anche in relazione a singoli settori di attività, di norma in ambito regionale, per abbattere costi e aumentare la qualità di didattica e ricerca.

RIDUZIONE DEI SETTORI scientifico-disciplinari, dagli attuali 370 alla metà (consistenza minima di 50 ordinari per settore). No a micro-settori che danneggiano la circolazione delle idee e danno troppo potere a cordate ristrette.

RIORGANIZZAZIONE INTERNA DEGLI ATENEI: riduzione molto forte delle facoltà che potranno essere al massimo 12 per ateneo.

RECLUTAMENTO DI GIOVANI STUDIOSI: introdotta l'abilitazione nazionale come condizione per l'accesso all'associazione e all'ordinariato. L'abilitazione è attribuita da una commissione nazionale sulla base di specifici parametri di qualità. I posti saranno poi attribuiti a seguito di procedure pubbliche di selezione bandite dalle singole università, cui potranno accedere solo gli abilitati. Tra i punti salienti: Commissioni di abilitazione nazionale autorevoli con membri italiani e, per la prima volta, anche stranieri; cadenza regolare annuale dell'abilitazione a professore, al fine di evitare lunghe attese e incertezze; distinzione tra reclutamento e progressione di carriera.

ACCESSO DI GIOVANI STUDIOSI: Il ddl introduce interventi volti a favorire la formazione e l'accesso dei giovani studiosi alla carriera accademica. Tra i punti salienti: revisione e semplificazione della struttura stipendiale del personale accademico per eliminare le penalizzazioni a danno dei docenti più giovani; revisione degli assegni di ricerca per introdurre maggiori tutele, con aumento degli importi; abolizione delle borse post-dottorali, sottopagate e senza diritti; nuova normativa sulla docenza a contratto: riforma del reclutamento.

GESTIONE FINANZIARIA: Introduzione della contabilità economico-patrimoniale uniforme, secondo criteri nazionali concordati tra Istruzione e Tesoro: i bilanci dovranno rispondere a criteri di maggiore trasparenza. Commissariamento e tolleranza zero per gli atenei in dissesto finanziario.
VALUTAZIONE DEGLI ATENEI: Le risorse saranno trasferite dal ministero in base alla qualità della ricerca e della didattica. Fine della distribuzione dei fondi a pioggia. Obbligo di accreditamento, quindi di verifica da parte del ministero di tutti i corsi e sedi distaccate per evitare quelli non necessari e valutazione dell'efficienza dei risultati da parte dell'Anvur.

OBBLIGO PRESENZA DOCENTI A LEZIONE: avranno l'obbligo di certificare la loro presenza a lezione. Questo per evitare che si riproponga senza una soluzione il problema delle assenze dei professori negli atenei. Viene per la prima volta stabilito inoltre un riferimento uniforme per l'impegno dei professori a tempo pieno per il complesso delle attività didattiche, di ricerca e di gestione, fissato in 1500 ore annue di cui almeno 350 destinate ad attività di docenza e servizio.

SCATTI STIPENDIALI SOLO AI PROFESSORI MIGLIORI. Si rafforzano le misure annunciate nel DM 180 in tema di valutazione dell'attività di ricerca dei docenti. In caso di valutazione negativa si perde lo scatto di stipendio e non si può partecipare come commissari ai concorsi.

DIRITTO ALLO STUDIO E AIUTI AGLI STUDENTI MERITEVOLI - Delega al governo per riformare organicamente la legge 390/1991, in accordo con le Regioni per spostare il sostegno direttamente agli studenti per favorire accesso agli studi universitari e mobilità. Inoltre sarà costituito un fondo nazionale per il merito al fine di erogare borse di merito e di gestire su base uniforme, con tassi bassissimi, i prestiti d'onore.

MOBILITÀ DEL PERSONALE - Sarà favorita la mobilità tra gli atenei, perchè un sistema senza mobilità interna non è un sistema moderno e dinamico. Possibilità per chi lavora in università di prendere 5 anni di aspettativa per andare nel privato senza perdere il posto.
«Corriere della Sera» del 23 dicembre 2010

Un caso di scuola

s. i. a.
Il successo della riforma Gelmini è un modello per il futuro del Cav. Riformare l’Università è un obiettivo che, con maggiore o minore determinazione, i governi italiani si propongono da quarant’anni. Non ci sono mai riusciti, se non per aspetti marginali, e l’effetto è stata la paralisi del principale meccanismo di promozione sociale e di ricambio delle classi dirigenti diffuse. Per questo il fatto stesso che una legge di riforma universitaria sia stata approvata è un fatto quasi storico. Mariastella Gelmini ha portato a termine un’operazione politica tra le più ardue e le è toccato concluderla in una fase particolarmente turbolenta della vita parlamentare, oltre che in un clima di agitazioni sostanzialmente minoritarie ma assai abili nel conquistare centralità mediatica. A suo favore hanno agito due fattori decisivi: la consapevolezza dello stato comatoso delle nostre istituzioni accademiche e, paradossalmente, i rischi derivanti dalla crisi economica internazionale, che hanno fatto capire che senza competitività e professionalità si può finire davvero male.
Queste circostanze, oltre all’ammirevole tenacia pragmatica della titolare del ministero, hanno indotto le principali espressioni della società e della politica a promuovere (o a non ostacolare) la riforma. Nonostante qualche esibizione di radicalismo parlamentare, e nonostante un certo snobismo diffuso in settori dell’opinione pubblica, nessuno si è opposto davvero, nel merito, all’iter della riforma. Nella gestione pratica della quale si potranno perfezionare i meccanismi, rispondere a esigenze non sufficientemente valutate, e su questo si apriranno confronti anche aspri. Però il dogma dell’immodificabilità di un mondo accademico autoreferenziale è definitivamente superato, e questo oggi è quel che conta.

«Il Foglio» del 23 dicembre 2010

22 dicembre 2010

Achille, Patroclo e il battaglione sacro dei tebani. Non chiamateli gay

di Nicoletta Tiliacos
“Un gruppo che si è consolidato con l’amicizia radicata nell’amore non si scioglie mai ed è invincibile, poiché gli amanti, per paura di apparire meschini agli occhi dei propri amati, e gli amati per lo stesso motivo, affronteranno volentieri il pericolo per soccorrersi a vicenda”. Lo scrive Plutarco nella “Vita di Pelopida”, a proposito del battaglione sacro dei tebani. Formato, si diceva, da centocinquanta coppie di guerrieri e rimasto invitto fino alla battaglia di Cheronea contro i macedoni (338 a.C.). Il grande storico greco non avrebbe condiviso la posizione del generale John Sheehan, ex comandante delle forze Nato in Europa e convinto – come ha dichiarato lo scorso marzo in un’audizione al Senato americano in cui si discuteva di ammissione dei gay dichiarati nell’esercito – che la strage di Srebrenica, nel 1995, fu resa possibile dalla presenza di omosessuali nel contingente olandese incaricato di difendere dai serbi la città bosniaca.
Andrebbe però fuori strada chi volesse ravvisare nei costumi dell’antica Grecia qualcosa di simile alla rivendicazione dell’omosessualità da parte dei militari americani, appena riabilitata dal voto del Senato. Lo spiega al Foglio la studiosa di diritto greco e romano Eva Cantarella, autrice di Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Rizzoli): “Per i greci la parola ‘omosessuale’ non aveva alcun senso, e la stessa distinzione tra etero e omosessualità era del tutto estranea all’etica pagana. Virilità era sinonimo di attività, in tutti i sensi contraria alla passività femminile, nella dimensione intellettuale, guerresca, sessuale. Il ruolo sessuale attivo era possibile anche con un maschio, purché fosse un giovane amante. Il quale, una volta diventato adulto, cambiava ruolo, magari si sposava e diventava attivo con altri giovani maschi. Era considerata – continua Eva Cantarella – una regola positiva e auspicabile anche dal punto di vista delle virtù pubbliche, vale a dire le più alte nella gerarchia greca, tra le quali c’è il coraggio in battaglia. Si combatteva valorosamente anche per mostrare all’amato il proprio eroismo, come scrive Plutarco”.
Nemmeno per il rapporto tra Achille e Patroclo, aggiunge l’antichista Maurizio Bettini, vanno scomodate categorie contemporanee: “Il mondo greco valorizza il rapporto omoerotico tra un adulto e un ragazzo imberbe, che dall’adulto riceve un’educazione etica, amorosa, sessuale ma che non va necessariamente verso l’omosessualità (quando ci va, perché quel tipo di rapporto continua tra adulti, non è più apprezzato ma condannato, in Grecia come a Roma). L’omoerotismo ritualizzato tra adulto e giovinetto configura una sorta di iniziazione, un passaggio culturale”. Ma Achille e Patroclo, compagni d’arme e uniti al punto che Achille invoca la morte dopo l’uccisione dell’amico, ci appaiono come pari: “Eppure, secondo alcuni antichi commenti e stando a certe raffigurazioni vascolari, non è così. Patroclo è il più vecchio, e comunque la madre di Achille, Teti, invita il figlio a interrompere le manifestazioni eccessive di lutto e a sposarsi: a diventare adulto. Le amicizie virili con possibili connotazioni omoerotiche che troviamo nella tradizione greca appartengono a un mondo abissalmente lontano da quello in cui il gay dichiarato rivendica il diritto di entrare nell’esercito”. Il mondo omerico, conclude Bettini, “è quello in cui la dea dell’amore, Afrodite, è anche dea della guerra. I due campi non sono così lontani, lo scontro guerriero e l’incontro d’amore sono mescolanze. E le parole per descrivere le azioni di guerra e le azioni d’amore, a volte, sono esattamente le stesse”.
«Il Foglio» del 21 dicembre 2010

Il fantasy non basta, meglio tornare all'epica

di Daniele Piccini
Da tempo la cultura occidentale sembra aver rinunciato all’idea dell’epos tradizionale come un genere ormai impraticabile. Così alcuni si sono convinti che una sorta di epos moderno possa essere riconosciuto nel fantasy, con le sue cosmogonie e i suoi scontri tra bene e male: da quello più alto e intriso di erudizione di Tolkien e Lewis fino a quello più blando di «Harry Potter». Ma davvero l’epica intesa come continuazione dei grandi miti classici è improseguibile? I tentativi recenti di poemi di ampio respiro ci vengono da poeti extra-europei, come il caraibico Derek Walcott, con «Omeros» e con «Il levriero di Tiepolo», e come l’australiano Les Murray, autore di «Freddy Nettuno». Eppure da una delle patrie della civiltà classica, la Grecia, nel corso della prima metà del Novecento venne una sovrabbondante e prepotente ripresa dell’epos, un’opera fluviale che avrebbe dovuto, più che rovesciare modernamente il mito omerico di Odisseo, proseguirlo, ampliarlo, arricchirlo con acquisizioni antropologiche e religiose, senza mai perdere di vista il senso di un grandioso e rapinoso racconto. Stiamo parlando dell’«Odissea» di Nikos Kazantzakis (1883-1957), l’opera più ambiziosa che la poesia moderna abbia prodotto: 33.333 versi distribuiti in 24 canti; più del doppio, entro lo stesso numero di libri, di ognuno dei due poemi omerici. Si tratta di un vero e proprio sequel, che riprende la narrazione dalla fine dell’Odissea. Uccisi i proci, Ulisse viene ripudiato come selvaggio e sanguinario dalla moglie e insidiato dal figlio e si rimette in viaggio, insieme a pochi compagni. Approda a Sparta, convince alla fuga l’ancora bellissima Elena, che poi viene lasciata a Creta, dove Ulisse annienta il regno di Idomeneo. Quindi il «grande Viaggiatore» giunge in Egitto, partecipando a una sommossa contro un faraone-poeta. Si spinge in seguito alla ricerca delle fonti del Nilo, con l’idea di fondare una città ispirata alle grandi utopie. Incontra ombre e doppi di celebri personaggi letterari e dello stesso Cristo. Infine si mette in viaggio verso il Polo Sud, incontro alla propria morte. Il Sole, sulla cui invocazione si apre il poema, lo conclude nel segno del lutto per la perdita di Odisseo: «stasera ho visto il mio amato svanire come un pensiero». Questo verso proviene dalla traduzione di alcuni brani dell’opera che Nicola Crocetti ha realizzato per il 'Meridiano' «Poeti greci del Novecento» (co-curatore Filippomaria Pontani), scrigno prezioso che meriterà approfondimento a parte. Già, perché di questa grandiosa epopea moderna, scommessa scandalosa, tentativo generoso e immoderato, non esiste una traduzione italiana, mentre ne esistono versioni in spagnolo, francese, tedesco e inglese. La lettura dei lacerti inseriti da Crocetti nel 'Meridiano' fa sentire più acuta la mancanza: quando si parla di epica e di impossibilità di produrne nella modernità e contemporaneità, forse si dovrebbe ripartire da qui. Dall’umile fatica di una traduzione, dalla disponibilità a leggere e a divulgare (anche nei volumi di epica delle scuole) lo smisurato poema dell’autore di Zorba il greco.
«Avvenire» del 22 dicembre 2010

Tanto rumore forse per nulla

di Luigi La Spina
Sul teatro della vita pubblica italiana va in scena, oggi, una commedia assurda. Assurda e azzardata, perché la rappresentazione potrebbe anche trasformarsi in tragedia, ma come quelle di Beckett, non certo di Eschilo. Appelli delle più alte istituzioni dello Stato alla calma. Minacce di repressioni inesorabili. Inviti ai padri perché tengano a casa i figli. I palazzi della politica isolati. Annunci di guerriglie urbane fantasiose, guidate da un’immaginazione che non va più al potere, come sognavano i ribelli del ’68, ma si rifugia nei vicoli di Roma. Insomma, sembra di essere, stamane, alla vigilia della «madre di tutte le battaglie», alla fine della quale la vittoria della Gelmini aprirà il baratro nell’università del nostro Paese o la sua sconfitta sarà la salvezza per il futuro dei nostri giovani.
Come spesso capita nell’Italia d’oggi, questo clima di eccitazione guerresca è del tutto sproporzionato rispetto alla realtà. Perché tra le parole e i fatti non c’è nessun rapporto logico e lo scontro, pacifico come speriamo, cruento come temiamo, alla fine, sarà abbastanza inutile.
Il motivo, nella sua banalità è desolatamente semplice. La riforma Gelmini, che dovrebbe essere approvata stasera al Senato in via definitiva, è piena di buone intenzioni, propone una ventata di meritocrazia assolutamente necessaria, suggerisce alcuni provvedimenti utili per ostacolare il familismo d’ateneo, ma ha un difetto fondamentale: non prevede maggiori finanziamenti per l’istruzione e la formazione dei giovani italiani. E senza soldi, non c’è riforma che tenga, buona o cattiva che sia.
Ecco perché non vale la pena, per gli avversari della Gelmini, evocare scenari apocalittici. Non sarà l’ingresso di tre non docenti nei consigli d’amministrazione, una minoranza certo non decisiva, ad asservire la ricerca scientifica e la cultura italiana ai biechi interessi del capitalismo e alle spietate leggi del mercato. D’altronde, chi conosce, almeno un po’, gli usi e costumi dell’università di casa nostra sa benissimo che la stragrande maggioranza dei professori non correrà alcun rischio di vedersi decurtato lo stipendio, oltre la misura già decisa da Tremonti, perché quasi tutti saranno giudicati meritevoli del massimo premio. Sa benissimo che nessuno avrà il coraggio di sbattere fuori dall’università ricercatori ai limiti dei quarant’anni che, per oltre dieci anni, avranno permesso di fare esami, tenere lezioni, discutere tesi. Siccome siamo in Italia e non in America, il mercato del lavoro non è in grado di assorbirli e quindi resteranno, meritevoli o no, dove già sono.
Anche i tifosi del governo, però, dovrebbero mettere la sordina alle loro trombe. Come quelle di Berlinguer e della Moratti, le modifiche introdotte dalla Gelmini, senza adeguate risorse, rischiano di cambiare ben poco, nella sostanza, la vita quotidiana nelle aule. Con l’effetto inevitabile di aumentare l’accavallamento delle norme, della burocrazia, della confusione amministrativa e culturale, senza poter portare a quella rivoluzione d’efficienza, a quell’incremento di produttività scientifica e di competitività internazionale che tutti auspicano. La buona volontà del ministro Gelmini, come quella dei suoi predecessori, non si può discutere. Ma la vera rivoluzione, in questo settore, avverrà solo quando ci si renderà conto che l’Italia deve stanziare per l’università e la ricerca almeno le stesse risorse dei Paesi europei a noi più vicini, come la Francia.
Non vale la pena, perciò, assediare il Parlamento, sfoderare caschi e bastoni, lucidare i manganelli, minacciare galere e preparare le molotov. Ma non vale neanche la pena che i politici salgano sui tetti, invochino arresti preventivi, censurino padri che non chiudano a chiave le stanze dei figli. Bisognerebbe che si limitassero a fare i buoni parlamentari e non i protagonisti di una commedia che sta diventando pericolosa. Ascoltino le obiezioni, discutano gli emendamenti, approvino pure la legge, se non ritengono si possa fare di meglio. Dopo, però, si convincano ad aprire i rubinetti del finanziamento. Altrimenti, sarà meglio riporre nei cassetti i sogni rivoluzionari e tornare alla amministrazione accademica del buon senso, quella che misurava le risorse con le riforme possibili. Può sembrare paradossale, ma un giorno qualcuno potrebbe persino rimpiangere la faccia larga e sorridente di una democristiana d’altri tempi: la ministra Franca Falcucci.
«La Stampa» del 22 dicembre 2010

I diritti e la legge

La violenza non è mai giustificabile
di Piero Ostellino
C'è, da parte di alcuni media - trasmissioni tv e giornali - una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l'idea di democrazia liberale. La tesi di fondo è che la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una «zona rossa», e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati. Insomma, una versione aggiornata dei «compagni che sbagliano» (ma hanno ragione).
Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco. Sono pericolose. Di «questa» classe politica si può dire tutto il male possibile - personalmente lo faccio in ogni mio articolo -, ma accusarla di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani è negare la Politica stessa, che rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti. È spalancare le porte al terrorismo. La polizia (lo Stato) aveva creato una «zona rossa» non per difendere la classe politica, ma le Istituzioni, da delinquenti o idioti - convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat - che erano intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento.
Parliamo, allora, a questo punto, anche dei giovani che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza. Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale. Di diversa, e più complessa definizione è la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la «separazione» del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze.
Ma qui, si fuoriesce dalla democrazia liberale e rappresentativa - Rousseau sbagliava sostenendo, contro di essa, che gli inglesi erano liberi solo quando votavano e diventavano schiavi subito dopo - e si precipita in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali. Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta «volontà generale» (che è, poi, sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica. In realtà, quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. È un fatto che il «rivendicazionismo continuo» di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa. Della quale si dovrebbe, però, discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi.
«Corriere della Sera» del 18 dicembre 2010

Il declino della «chiocciola»: email snobbate dai ragazzi

Internet Quindici anni di successo, contro i 50 secoli delle lettere
di Beppe Severgnini
La posta elettronica preferita dai navigatori più anziani Il successo dei social network, più immediati e informali
«I only use email to communicate with old people», uso l'email solo per comunicare con gli anziani. Di roba così, in rete, se ne trova finché si vuole. Non si capisce, quindi, lo stupore del collega del New York Times. Si vede che non ha un adolescente in casa.
«Segnali che sei un old fogey, uno all'antica: guardi i film in videocassetta, ascolti dischi di vinile, usi la pellicola per fotografare. E ti piace usare l'email». Così esordisce il giornale di New York in una corrispondenza da San Francisco, la patria spirituale dell'informatica americana. Non è la condanna a morte della posta elettronica. Solo una prova delicata di epitaffio. Non la prima, come dicevamo.
Confesso: un cinquantenne prova un piacere sadico nel vedere che i trentenni si sentono travolti dalle novità. La buona, vecchia mail - che noi abbiamo imparato e loro davano per scontata - sarà presto superata. Facebook, Twitter, chat, Skype, perfino l'immarcescibile sms sono più immediati, informali, gratificanti. L'email obbliga a un minimo di preparazione: un account di posta, un destinatario con un indirizzo, magari qualcosa nel «subject» (argomento). Bisogna aspettare che il destinatario risponda: e non sempre lo fa. Occorre evitare gli errori di ortografia, e magari fingere di essere educati. Nessuno, in Italia, chiude una email con «In attesa di favorevole riscontro», se non ha assunto sostanze molto forti. Ma un saluto prima della firma lo usano tutti.
È questa sovrastruttura che i ragazzi trovano pesante, in America come in Italia, a Londra come a Pechino. Una email non può - o non dovrebbe - contenere solo «:-O», per spiegare che il mittente è sorpreso. Facebook, per esempio, s'è accorta che la riga del «subject» (l'argomento) resta spesso vuota (al massimo qualcuno batte hi! oppure ehi!). Così ha deciso di eliminarla insieme a cc (copia) e bcc (copia nascosta). FB non è un paese per vecchi; l'email sì. Yahoo e Hotmail - celeberrimi siti di posta elettronica - hanno perso il 16% dei visitatori in un anno; solo Gmail, prodotto di casa Google, è cresciuta del 10%.
Chi ama e usa l'email ha motivo di ritenersi superato? La risposta è: quasi. Utilizzare frasi complete può sembrare normale, a un anziano trentenne. Ma gli adolescenti non comunicano così: parlano per codici, monosillabi e grugniti che in una mail risulterebbero goffi. La punteggiatura, che nelle mail resiste, per i ragazzi è diventata come l'acne: se non c'è, meglio.
La chiocciolina (@) è una specie in via di estinzione? Probabilmente sì. Poco male: l'email ha avuto una vita intensa. Intensa - basta vedere gli auguri seriali da cui veniamo inondati in queste ore - ma breve. Quindici anni, diciamo. L'impatto sociale inizia nel 1995. L'email è come le ragazze della televisione: c'è sempre una più giovane in agguato.
Le lettere di carta hanno resistito meglio: cinquanta secoli? Qualcuno ancora ne manda, anche se l'abitudine è ristretta ormai a tre categorie di persone: molto romantici, molto anziani, molto eccentrici. Accadrà presto anche agli utenti di posta elettronica. «Ti mando una email» sembra il titolo di una commedia romantica all'americana, di quelle dove si baciano a dieci minuti dalla fine e tutti applaudono. Vederla fa sempre piacere, ma la vita funziona in altro modo.
«Corriere della Sera» del 22 dicembre 2010

Voti (severi) agli atenei

Più risorse a chi le merita
di Francesco Giavazzi
La legge sull'Università dovrebbe essere approvata fra oggi e domani. A Mariastella Gelmini va il merito dell'unica riforma varata in due anni e mezzo di governo. Ma l'esecutivo ha perso un'occasione. Il dibattito sulla legge era un'opportunità. Per smascherare chi si è opposto in nome dell'autonomia della ricerca e dell'insegnamento, quando in realtà proteggeva la sua piccola rendita. Per convincere gli studenti che un'Università più aperta è innanzitutto nel loro interesse: difendere chi nell'Università ha avuto la fortuna di entrare, tenendo fuori chi non ha potuto godere di sorte analoga, danneggia prima di tutti i giovani. Per incalzare infine l'opposizione e vedere se il Pd è pronto a tutelare il merito anche quando questo entra in collisione con i sindacati dei docenti.
Invece il governo ha ridotto la discussione a un problema di ordine pubblico. Non ha capito che il movimento degli studenti ha ragioni profonde: è il sintomo preoccupante di una generazione che si sente sempre più abbandonata. Ragazzi allibiti dalla politica che raccontano i giornali, angosciati dalla prospettiva del lavoro che non c'è, delusi da un governo che non ha fatto nulla per loro. Se lo ha fatto, questa era l'occasione per spiegarlo. Accettando il dialogo, non invitando i giovani a restare a casa come ha fatto ieri il capogruppo pdl al Senato Maurizio Gasparri. Gli studenti non rimarranno a casa perché è l'Università la loro casa, ma non cadranno neppure nella trappola di chi vuole farli passare per violenti teppisti.
Ciò premesso, la legge Gelmini non è certo una riforma perfetta, soprattutto per una maggioranza che si dichiara «liberale»: Luigi Einaudi avrebbe redatto un testo molto diverso. Ma, come ho già scritto Corriere, 30 novembre, è la migliore che possiamo attenderci da questa classe politica. In due anni di discussione le proposte avanzate dal Pd sono state o variazioni marginali sul testo del governo, o modifiche più sostanziali, ma nella direzione di una maggiore protezione di chi nell'Università già c'è. La legge è un canovaccio tutto da riempire: se sarà una buona riforma, dipende da come saranno redatti, e in che tempi, i regolamenti attuativi. Tenere accesa l'attenzione è responsabilità dell'opposizione che nei prossimi mesi non dovrà dimenticarsene.
Se la parziale liberalizzazione avrà risultati positivi, sarà effetto degli incentivi che gli atenei percepiranno, cioè dell'efficacia della valutazione, che è il vero cardine della legge. Anche aver trasformato le università telematiche in normali università private non è necessariamente uno scandalo. L'open university inglese è un'istituzione seria e utile. Le nostre telematiche sono per lo più delle truffe: promuovere un insegnamento a distanza qualificato sarà uno dei compiti della valutazione.
L'Anvur, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'Università e della ricerca, nasce oggi con la designazione dei membri del suo consiglio direttivo. Essi dovranno essere molto ambiziosi, avere come propri riferimenti la Banca d'Italia e la Consob perché la formazione del capitale umano è più importante sia delle banche sia della Borsa. Per farlo l'Anvur dovrà avere risorse adeguate. La credibilità del ministro si giocherà anche sui fondi di cui riuscirà a dotarla: se questi verranno lesinati, la riforma sarà stata un esercizio inutile.
«Corriere della Sera» del 22 dicembre 2010

19 dicembre 2010

E Stalin decretò: falce e pallone

di Giorgio De Simone
Unione Sovietica, anni Venti. Il calcio 'borghese' dell’Im­pero russo è finito e nasce il futból proletario. E una seconda ri­voluzione e ce la racconta tutta, con un’analisi suggestiva e circostanzia­ta che arriva al 1953, Mario Alessan­dro Curletto, docente di Letteratura e civiltà russe all’Università di Pavia. Con il 1917 alle spalle, la Russia si riempie di grandi progetti dove lo sport va a coniugarsi con la lotta di classe. Non fa parte la Russia sovie­tica della Fifa e non può disputare incontri internazionali ufficiali, ma poiché forte è il bisogno di confron­tarsi, nel 1923 viene raccolto l’invi­to dell’Unione operaia svedese per una tournée di amichevoli in Scan­dinavia.
È l’inizio di un’attività internaziona­le su vagoni di terza classe. Sconfitte la Svezia 2 a 1 e la Norvegia 3 a 2, si parla di trionfo. E quando tocca alla Turchia 'borghese' di Atatürk, bat­tuta 3 a 0 e 2 a 1, di epopea. Nel 1927 si va in Germania e sono nove vitto­rie, nessun pareggio e una sola scon­fitta (1 a 3) contro gli operai di Vien­na. Reti fatte 64, subite 14. Il calcio è ormai in Urss un fenomeno di co­stume e tuttavia, per avere il primo campionato e vedere all’opera squa­dre quali la Dinamo, il Cdka (Casa centrale dell’Armata rossa), lo Spar­tak Mosca dei fratelli Starostin e il Lokomotiv di Mosca, si deve aspet­tare il 1936. Quanto alle tattiche di gioco, il calcio russo è fermo alla 'pi­ramide', due difensori, tre centro­campisti e cinque attaccanti tutti in linea mentre in Europa è già il tem­po della 'W' o 'doppia V', modulo considerato borghese perché 'inde­gnamente difensivo'. E peraltro l’al­lenatore della Dinamo, Boris Arkad’ev, arriva a vincere il campio­nato inventandosi il 'caos organiz­zato', ovvero il continuo scambio di posizione fra i tre attaccanti e i di­fensori che avanzano. È il 1940. L’an­no dopo la guerra ferma il pallone, ma alla fame, agli stenti, al pericolo perenne solo il calcio può fare da an­tidoto. La propaganda lo sa e così si torna a giocare a Mosca, ma anche in una Leningrado dal ’41 al ’44 as­sediata dai tedeschi. E a Kiev, il 16 novembre 1943, tra la Dinamo e una rappresentativa tede­sca ricavata dalle truppe di occupazio­ne va in scena la co­siddetta 'partita della morte' così chiamata perché, battuti sono­ramente sul campo, i tedeschi si vendicano internando i giocato­ri ucraini e perse­guendone alcuni fino a decretare la morte di quattro di loro: Nikolaj Trusevic, A­leksej Klimenko, Nikolaj Korotckich, Ivan Kuz’menko. Nel 1946 un gior­nale fa una ricostruzione cinemato­grafica della partita elevandola a leg­genda e assegnandole così un desti­no di libri, film, medaglie al valore e monumenti. Ma una rivisitazione fatta decenni dopo dal giocatore Makar Goncarenco racconta di una squadra di calcio allestita dal ceco Jo­sef Kordik, diventato sotto i nazisti direttore del Panificio industriale n.1 e in grado, come tale, di riunire i mi­gliori giocatori sotto le sue ali. Do­podiché la partita della morte sareb­be stata giocata il 9 agosto 1942 tra la Start di Kordik e la Flakelf tedesca, punteggio 5 a 3 con due reti del 'te­stimone' Goncarenco. E sarebbe sta­ta l’uccisione di un ufficiale tedesco a portare alla morte, per ritorsione, di Trusevic, Kuz’menko e Kilmenko.
Nel 1951 rinasce, affidata al Ct Boris Arkad’ev, la nazionale sovietica per partecipare alle Olimpiadi di Hel­sinki dell’anno dopo. Ma nella Rus­sia di Stalin partecipare vuol dire u­na cosa sola: vincere. Per riuscirci Arkad’ev si affida all’ossatura del Cd­sa (ex Cdka) e al trentenne Vsevolod Bobrov, grande centravanti e leader carismatico. Soffocata dall’obbligo di vincere, quando de­ve incontrare la forte Jugoslavia dell’odiato Tito, la squadra è atta­nagliata dal panico. Sul campo incassa quattro gol in cin­quanta minuti, ma a quel punto reagisce e la partita finisce, inve­rosimilmente, 5 a 5 con tre reti di Bobrov. Ripetuta due giorni dopo sotto l’ombra cupa di un tele­gramma di Stalin, la Jugoslavia vin­ce 3 a 1 e il licenziamento-degrada­mento dell’allenatore nonché lo scioglimento del Cdsa sono le prime conseguenze. Le seconde sarebbero anche peggiori se, il 5 marzo 1953, Stalin non morisse. Tutto (o quasi) a quel punto si spegne e per i calcia­tori sovietici torna a valere quanto detto da uno di loro, Konstantin Be­likov: «Quando hai il pallone tra i pie­di ti si allarga il cuore».

Mario Alessandro Curletto, I piedi del soviet, Il melangolo, pp. 238, € 11,00
Bandito il modulo «a W» perché «indegnamente difensivo, quindi borghese», si esaltava il «caos organizzato»
«Avvenire» del 18 dicembre 2010

Lettori forzati: ora la scuola cambi registro

di Davide Rondoni
In questi mesi, dopo l’uscita del mio libro Contro la letteratura (Il Saggiatore), mi sono trovato in molti contesti – scuole, conferenze, mass media – a presentare e discutere la mia idea: rendere facoltativo l’insegnamento della letteratura intesa come lettura e rapporto coi testi nella scuola superiore. Naturalmente, come spiego nel libro, tale scelta dev’essere successiva a un momento sufficientemente lungo in cui la scuola propone ai ragazzi, attraverso insegnanti ad hoc, il gusto e la fatica di leggere, di interpretare un testo e di ricavarne provocazioni e itinerari. Inoltre la scuola deve comunque garantire un insegnamento di storia della letteratura, magari coordinato o interno a quello di storia, così che i ragazzi dovrebbero uscire dalla scuola sapendo più o meno chi era Tasso e cosa ha scritto. Da dove nasce la mia proposta e da dove muovono le riflessioni del mio libro, che si incrociano con quelle di Todorov, Pennac, Raimondi e di altri studiosi in Europa e non solo? E perché, accanto ad adesioni forti e convinte, la mia proposta ha suscitato in taluni quasi un senso di scandalo o di assoluta riprovazione? C’è una questione che attraversa la cultura italiana intera (non a caso adesione o rifiuto alla proposta sono state entrambi «trasversali» a schieramenti, identità culturali e appartenenze). Ho visto docenti di lungo corso acconsentire alle mie riflessioni in nome di una lunga esperienza, giovani rianimarsi dal grigiore a cui si sentivano destinati, o – d’altra parte – alcuni ergersi a strenui difensori dell’esistente come il minore dei mali possibili. Ma l’esistente, appunto, cosa ci mostra? Una sostanziale inefficacia della scuola a motivare i ragazzi alla lettura. I dati delle statistiche parlano chiaro, e anche i rilievi di prima mano che chiunque può fare sono eloquenti. Nel libro si indaga su ragioni profonde o contingenti di tale inefficacia, e io ho alzato la mano per dire: non ci sto. No, non ci sto a che l’Italia dilapidi senza che nessuno fiati – se non con comode estemporanee proteste che fanno pure chic – il suo patrimonio di bellezza e di gusto, rendendolo inerte di fronte agli occhi dei suoi giovani. Non ci sto a seppellire Leopardi, Dante, Manzoni come reperti muti e stantii. A cercare altrove l’educazione del gusto o a lasciare il campo al gusto medio televisivo. La scuola italiana (e non solo) vive una grande crisi di paradigma e di sistema. Ma si preferisce difendere il sistema cadente: in nome di ideologie, di riduzione di tutto a politica come ha fatto Andrea Cortellessa venerdì su «Repubblica» – sai cosa me ne importa di Brunetta e Tremonti, a me interessano Leopardi e i giovani… – o in nome di interessi, pigrizie, corporativismi. È singolare vedere come molti dei rivoluzionari di ieri si saldino con i conservatori dell’altroieri. In effetti, la crisi di una tradizione, di una scuola, sono sempre crisi di civiltà, come avvertivano alcuni pensatori del ’900, da Gramsci a Péguy. La crisi della civiltà improntata su una astratta fiducia tardo­illuministica nei sistemi porta con sé la crisi dell’impianto educativo ad essa ispirata. Chi in questi decenni non ha conosciuto o elaborato una possibilità d’impronta diversa, s’attacca anche senza più crederci alle macerie del sistema vigente, opponendosi a ciò che lo mette in discussione offrendo alternative.
«Avvenire» del 18 dicembre 2010

La riscoperta dell'etica

Moralità, non moralismo
di Francesco D'Agostino
Ora che finalmente ci si sente meno condi­zionati dall’attualità, dato che si è (alme­no parzialmente) conclusa la vicenda del voto di fiducia al governo Berlusconi, è possibile tornare ad aprire una seria riflessione sul­l’' etica pubblica' e sulla sua attuale, profonda crisi. Colpisce quali e quante riflessioni siano state dedicate a questo tema nelle ultime set­timane e a tanti diversi livelli (dagli editoriali alle interviste sui giornali, da opere saggistiche a conferenze nelle scuole, dalle omelie a lezio­ni e seminari universitari). Colpisce indubbia­mente il tono nostalgico con cui alcuni parte­cipanti ad appassionati dibattiti hanno ricor­dato epoche della vita politica italiana, gene­ralmente etichettate come quelle della Prima Repubblica, ritenendole politicamente ben più nobili dell’attuale (epoche che, a chi le ha dav­vero vissute, appaiono invece molto meno lim­pide di quanto non si voglia far credere). E col­pisce soprattutto il moltiplicarsi delle 'invet­tive': e, si sa, l’invettiva è l’anticamera del mo­ralismo, cioè della peggior deformazione che si possa immaginare dell’autentica moralità. È per questo che chi, come noi, crede profon­damente nell’esistenza e soprattutto nella ne­cessità dell’etica pubblica ha il dovere di dis­sociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’a­deguata consapevolezza teoretica.
L’etica pubblica, infatti, è esigente. È esigen­te almeno sotto tre profili. In primo luogo, chi crede nell’etica pubblica non può non crede­re alla sua assolutezza: non è possibile, infat­ti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tem­po cedere a tentazioni relativistiche. Se l’eti­ca è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte eti­che siano plurime e insindacabili, non si ve­de perché non debbano essere parimenti plu­rime e insindacabili le scelte etiche pubbli­che. Per criticare come immorali le scelte pub­bliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo eti­co corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono am­metterlo) la vita individuale.
Secondo profilo, peraltro strettamente con­nesso al precedente. Non è possibile tematiz­zare l’etica pubblica se si separa radicalmen­te, come oggi va di moda fare, il diritto dalla morale o se si riduce il diritto a mera proce­dura formale, moralmente neutrale. Con que­sto non s’intende dire che ci sia sempre un’as­soluta coincidenza tra diritto e morale, dato che è evidente che molti comportamenti pri­vati, pur moralmente condannabili (ricordia­mo l’esempio classico della golosità) non a­vendo rilevanza sociale sono da ritenere giu­ridicamente irrilevanti. Se però tra diritto e morale si pone un rigido steccato, secondo gli insegnamenti delle principali correnti del po­sitivismo giuridico, arriviamo rapidamente al­l’atrofizzazione etica della vita sociale, in tut­te le sue dimensioni. Esempio eclatante è quello del deficit di etica che sta contrasse­gnando l’economia in questi ultimi anni in contesti giuridico-formali pensati come pu­ramente funzionali; un deficit che ha prodot­to non solo la crisi finanziaria che tutti cono­sciamo, ma una vera e propria crisi morale del capitalismo, da cui non si sa esattamente co­me si potrà venir fuori. Il terzo profilo è probabilmente quello decisi­vo, per chi abbia davvero a cuore l’etica pub­blica. Si tratta di riconfigurare la stessa perce­zione di ciò che chiamiamo 'pubblico'. La mo­dernità ha appreso da Machiavelli che la scien­za politica non ha per suo oggetto il bene co­mune, ma 'il potere', per come lo si può con­quistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando que­sto paradigma, in tutte le sue innumerevoli va­rianti, resterà quello dominante, ogni perora­zione per l’etica pubblica suonerà inevitabil­mente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come auto­referenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è 'pubblico' a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non sem­plicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espres­sione 'etica pubblica' resterà vuota di senso, per quanto possa apparire a molti irrinuncia­bile e affascinante. Non è l’etica pubblica ad avere un valore in sé, bensì gli esseri umani: e questo loro 'valore' è davvero un assoluto non negoziabile.
«Avvenire» del 18 dicembre 2010

Calligrafia. In punta di pennino

Nella nostra superbia tecnologica siamo convinti che sia una cosa arretrata, un’attività salottiera Invece (l’ha ormai dimostrato la scienza) scrivere a mano facilita l’apprendimento e aiuta a pensare meglio. Per questo l’arte della bella grafia vuole tornare nelle scuole italiane
di Riccardo Maccioni
Un ultimo tocco di pennino, una scrollatina alla pergamena et voilà , la lettera era pronta per essere consegnata; con le sue eleganti «c» panciute, le «o» con il ciuffetto, e un merlettino a completare le «z». Quante volte, ammirati e insieme supponenti, abbiamo visto quella scena nei film in costume. Convinti, nella nostra superbia tecnologica, che la calligrafia fosse allora una necessità da arretratezza, e oggi un passatempo salottiero da condividere all’ora del tè. Non era e non è così. Scrivere a mano facilita l’apprendimento, allena la volontà, sollecita l’immaginazione. In una parola «fa pensare meglio». Lo dicono i cultori della materia, lo sottolinea la scienza. L’ultima conferma, in un elenco che va allungandosi, arriva dall’Università statunitense dell’Indiana dove studi realizzati con la risonanza magnetica nucleare hanno dimostrato che i bambini abituati a scrivere a mano rivelano una maggiore attività nell’area cerebrale predisposta all’apprendimento. Analogamente, secondo una ricerca dell’Università di Washington i cui primi risultati risalgono al 1998, nei temi manifestano una maggiore originalità e creatività rispetto ai coetanei maniaci del computer. Di più: se lo scrivere a mano viene insegnato contemporaneamente al processo della composizione, ne traggono beneficio entrambi. Ma ce n’è anche per gli adulti, la cui capacità cognitiva ha giovamento dall’imparare alfabeti nuovi, come l’ebraico o il cirillico.
«Scrivere a mano ci permette di interiorizzare meglio la lingua – spiega Anna Ronchi presidente onorario dell’ Associazione calligrafica italiana, che ha sede a Milano –. Purtroppo nel nostro Paese l’insegnamento della bella scrittura è stato dimenticato. Il risultato è che ci sono tantissimi bambini e ragazzi dalla grafia illeggibile con inevitabili difficoltà per gli insegnanti e danni nel rendimento scolastico».
Spesso ne derivano deficit, blocchi sia formativi che psicologici. «Sono in aumento i casi di disgrafia e dislessia – aggiunge Ronchi –.
Trascurando l’atto della scrittura, sorgono problemi di lettura. E di apprendimento della lingua». Rilevazioni che contrastano con chi crede che gli esercizi di calligrafia vadano confinati nel libro Cuore e la penna sia utile soltanto per appuntarsi l’elenco della spesa.
Salvo poi telefonare alla moglie, per sapere se davvero c’è bisogno di latte. «Ho dimenticato a casa il biglietto» – la pietosa bugia detta mentre si cerca di interpretare quello che abbiamo scritto. Malgrado e-mail, sms e notebook, insomma c’è ancora bisogno di stilografica e biro. «Negli anni della formazione scolastica non si possono sostituire le tecniche moderne alla capacità del bambino di scrivere, che è a sua volta strumento di apprendimento e comporta l’acquisizione di abilità che vanno sviluppate – sottolinea la presidente Ronchi –. Le nuove tecnologie non possono diventare la fonte dell’istruzione scolastica. Possono, anzi devono essere utilizzate in un secondo momento. Insieme alla scrittura a mano, non per sostituirla». Il popolo «digitale», buona parte di esso almeno, denuncia però il rischio che gli esercizi di bello stile finiscano per creare un scrittura standardizzata, poco personale. «È il contrario.
Scrivere a mano fa emergere la personalità.
Ciascuno di noi adulti – continua Ronchi – ha una grafia diversa dagli altri. E non potrebbe essere altrimenti. La scrittura si compone infatti di un aspetto grafico, di un aspetto psicologico e di un aspetto linguistico. Anche se il modello è stato uguale, inevitabilmente con il tempo ognuno prende delle strade diverse, adotta dei metodi differenti. Dipende anche dalle condizioni in cui scriviamo, se di fretta o con maggiore cura. Tutti elementi che vanno ad influire sul nostro modo di scrivere e lo personalizzano». Agli amanti della calligrafia piacerà sapere che tanti scrittori moderni preparano a mano la «traccia» dei loro romanzi e che la penna resiste nelle stanze dei bottoni.
Nota, in questo senso la passione di Tony Blair.
L’ex premier britannico, che pure si vanta di aver dotato di computer tutte le scuole del Regno Unito, preferisce scrivere a mano i suoi discorsi e ama regalare stilografiche. Ai tempi di Downing Street donò una Churchill con pennino in oro a George Bush mentre un’altra fu inviata a Parigi per i 70 anni di Jaques Chirac. Più banalmente, istituti privati britannici hanno reso obbligatorio l’uso della stilo al posto della biro e in Francia si è riscoperta l’importanza del dettato. «In Italia anche grazie alla nostra associazione si è risvegliato l’interesse per la calligrafia – aggiunge Anna Ronchi –. Nel 2011 compiamo vent’anni e dopo tanto lavoro fatto soprattutto sull’arte della bella scrittura, oggi vorremmo offrire le nostre competenze per aiutare l’apprendimento dei bambini. In particolare con l’iniziativa 'La calligrafia ritorna a scuola' puntiamo a formare persone capaci di organizzare laboratori scolastici o tenere dei piccoli corsi di aggiornamento per insegnanti».
Nessuna voglia di far tornare indietro le lancette della storia però, nessuna bocciatura di tastiere e telefonini. Solo la consapevolezza che la forma delle lettere non può essere separata dai contenuti e che insieme formano un tutt’uno con la personalità dell’autore. Per dirla con Nabokov «quel che si scrive con fatica, si legge con facilità», e forse davvero, aiuta a pensare meglio. A capire e dire chi siamo.

_____________________________

L’INCHIOSTRO? UN TERMOMETRO DEL BENESSERE INTERIORE
La scrittura dice molto di noi. Fatti i dovuti distinguo, è una specie di carta di identità. Una grafia chiara, fluida, frutto di movimenti armonici, sciolti, è quasi sempre sinonimo di equilibrio, di serenità. Viceversa, una scrittura disordinata, confusa, può indicare uno stato d’ansia, la presenza di disagi interiori. «Già il criminologo francese Alfonse Bertillon alla fine dell’800 aveva ipotizzato che attraverso la scrittura si potessero migliorare alcuni aspetti della personalità – sottolinea Oscar Venturini, direttore dell’Istituto italiano di grafologia fondato a Trieste nel 1975 –. Personalmente è dagli anni ’50 che mi occupo di questi problemi, soprattutto di disgrafie nei bambini». L’obiettivo è rendere sciolti, fluidi, i movimenti in soggetti che per tensione o anche per problemi neurologici non riescono ad avere la serenità necessaria per scrivere in modo armonico. «Noi parliamo di rieducazione della scrittura, comunque si tratta di vera e propria grafoterapia – aggiunge Venturini –. I nostri interventi possono essere efficaci là dove ci sono problemi che derivano da situazioni difficili, per esempio nel caso dei bambini timidi, magari vittime di brutte esperienze o che hanno ricevuto un’educazione carente per cui sono sempre tesi, timorosi». Come in un ideale termometro dello spirito infatti, chi scrive, insieme all’inchiostro, incide sulla carta anche il proprio universo interiore. Per recuperare una condizione di serenità perduta, oltre che sul piano psicologico occorre intervenire sull’assetto fisico, meccanico, posturale, perché migliorare il rapporto con il proprio corpo è utile anche per riequilibrare il quadro psichico. «Non miriamo alla calligrafia – continua Venturini – ma a una scrittura chiara, leggibile, che sappia comunicare, soprattutto svolta attraverso movimenti sciolti, fluidi. Perché questi dipendono dalla serenità o comunque da una certa tranquillità d’animo». Non è affatto vero allora che le menti più lucide siano quelle che «buttano giù» geroglifici incomprensibili. Semmai vale il contrario: una grafia ben leggibile rivela anche chiarezza di pensiero. Ecco allora l’importanza di educare i bambini, ma non solo, all’armonia e alla fluidità dei tratti. È utilissima in questo senso la prescrittura – osserva Venturini –. Si tratta di esercizi che non prevedono né disegni né parole ma semplici segni, magari da scoprire giocando. «Nel nostro centro svolgiamo corsi per insegnanti di scuola materna ed elementare. Con una raccomandazione: che nelle scuole materne non si insegni mai la scrittura, perché i bambini sono troppo piccoli. Occorrono invece esercizi pre-calligrafici». Fin qui la grafologia al servizio della pedagogia, della rieducazione. Ma gli ambiti di questa disciplina sono ben più ampi, spaziano dai tribunali agli uffici di polizia giudiziaria, dagli ospedali all’analisi dei test attitudinali. «La grafologia – conclude Venturini – non è solo la ricostruzione del temperamento, ma anche lo studio della scrittura a scopo terapeutico o come elemento d’indagine attraverso le perizie. È importante perché studiando i segni grafici si conosce la personalità, le sue difficoltà. E si può cercare di sanarle».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010

Armeni 1915, il genocidio in presa diretta

Escono i diari dell'allora ambasciatore Usa
di Antonia Arslan
Arriva finalmente in Italia, e sarà in libreria a gennaio, un libro straordinario, una delle prime e più efficaci testimonianze sullo sterminio degli armeni, scritta a caldo da un grande ebreo, uomo intelligente, intuitivo e generoso, la cui azione fu dimenticata per decenni insieme alla tragedia degli armeni. Si tratta del Diario 1913-1916 (Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni), che esce per Guerini & Associati a cura di Francesco Berti e Fulvio Cortese (pagine 356, euro 28; prefazione di Pietro Kuciukian; traduzione di Giovanni Maria Seccosuardo).
Henry Morgenthau fu un personaggio politicamente centrale nella tragedia armena: si trovò al posto giusto nel momento giusto, e si comportò da giusto. Ma fece anche qualcosa di più; rese una testimonianza ineccepibile e particolarmente autorevole, perché in quel periodo cruciale (1913-1916) era a Costantinopoli, vicino al centro del potere dell’Impero Ottomano, e per di più nelle vesti di ambasciatore degli Stati Uniti (all’epoca ancora neutrali). Gli studi sulla tragedia del popolo armeno, dalle stragi del 'Sultano Rosso' Abdul Hamid al genocidio del 1915-16, fino al desolato scenario finale degli anni Venti, con l’abbandono forzato delle terre ancestrali, nelle quali oggi non c’è quasi più traccia di una presenza che fu millenaria, ricevono da questo libro un contributo fondamentale. Si tratta di un tassello essenziale della storia del Novecento, che rende leggibili e comprensibili molti altri avvenimenti di quell’infuocato inizio di secolo. Il Diario 1913-1916 si inserisce infatti in un filone di ricerca che si va accrescendo in modo impressionante. Negli ultimi anni - dopo tanti decenni di 'silenzio assordante' sulla questione armena - si stanno infatti moltiplicando gli studi, le analisi, le pubblicazioni di memorie di testimoni stranieri e di documenti recuperati dagli archivi che integrano, illuminano, chiariscono dati e fatti.
Si sono aperti molti archivi diplomatici, fra cui quelli tedeschi e austriaci, che stanno gettando una luce sinistra sulle complicità dei governi dei due imperi nell’attuazione del piano di sterminio, quelli vaticani, quelli francesi; e nuove pubblicazioni escono a getto continuo. Un paio di esempi. Nella sua monumentale opera, Le Génocide des Arméniens, lo studioso francese Raymond Kévorkian, avvalendosi del ricchissimo archivio della Bibliothèque Nubar di Parigi, filtra e sistematizza tutte le informazioni sin qui conosciute sui fatti del 1915, con una completezza impressionante. In uno stile scorrevole, tipicamente francese, racconta nei più minuti particolari lo svolgersi dei fatti, da est a ovest, villaggio per villaggio, città per città, con le date precise, con elenchi ed elenchi dei nomi delle vittime e del loro destino. Lo scrittore armeno-americano Peter Balakian ha invece scoperto il testo dimenticato di un suo prozio, pubblicato in Russia nel 1922, e lo ha fatto tradurre: in The Armenian Golgotha , Grigoris Balakian, unico sopravvissuto del numeroso gruppo di scrittori, politici e intellettuali che venne deportato da Costantinopoli il 24 aprile 1915, decapitando la nazione armena della sua élite, racconta quell’esilio che fu in realtà una condanna a morte, programmata ed eseguita giorno per giorno con spietata efficienza e brutalità. Balakian, ecclesiastico poliglotta con eccellenti studi a Berlino, fu salvato da un ufficiale tedesco che aveva bisogno di lui come interprete. Prese note accurate di quello che vedeva e subiva, e riuscì a mettere in salvo il suo quaderno.
E tuttavia, il Diario di cui qui parliamo ha un significato particolare. Henry Morgenthau era un ebreo americano. Nato in Germania, ebbe successo negli Stati Uniti e divenne amico del presidente Wilson, che lo mandò come ambasciatore presso l’Impero Ottomano. Il suo diario è il palpitante resoconto, quasi giorno per giorno, del suo ostinato tentativo di opporsi al fiume di sangue che travolse la minoranza armena nel 1915. Egli aveva buoni rapporti personali con gli artefici della strage, Talaat ed Enver, e si spese in frequentissimi colloqui con loro per tentare di farli desistere almeno in parte dall’attuazione dello sterminio. Non ottenne quasi niente, allora, quanto a salvezza di persone, ma appena tornato in patria pubblicò questo libro, per dare testimonianza; e in seguito fondò e sostenne una grandiosa associazione di volontariato, chiamata Near East Relief, che raccolse in poco tempo decine di milioni di dollari per i sopravvissuti armeni che vagavano, affamati e senza speranza, nel deserto siriano.
Alla sua generosa e perspicace capacità organizzativa si deve la salvezza dalla morte di migliaia di donne e bambini armeni.
Il libro sembra scritto ieri: è fresco e nervoso, perfino frenetico a volte nel raccontare il piccolo mondo dei diplomatici, la vita nella grande, cosmopolita capitale, «la Città», Costantinopoli; e poi la guerra che preme al di fuori e i colloqui coi capi del Partito Unione e Progresso, che descrive con brio e vivacità, ma anche con desolato pessimismo. Mentre nel caldo comfort del ministero beve tè con Talaat, o pranza a casa di Enver, il quale siede pomposo fra un ritratto di Napoleone e uno di Federico il Grande, Morgenthau non dimentica mai che là fuori si muore di fame e di violenze, e che la sua immunità diplomatica non lo protegge dall’angoscia che gli provoca l’assistere impotente alla fine di un popolo intero. Dopo aver riferito le gelide, sinistre frasi con cui Enver e Talaat rifiutano la sua offerta di portare cibo agli armeni morenti di fame, scriverà: «Non ero riuscito a fermare il massacro degli armeni, e ai miei occhi la Turchia era diventata un luogo di orrori.
Soprattutto mi era diventata insopportabile la frequentazione quotidiana con uomini che a dispetto della cortesia, disponibilità e amabilità manifestate nei riguardi dell’ambasciatore americano, avevano le mani sporche del sangue di poco meno di un milione di esseri umani».
Disegnando spassionati, vivaci ritratti dei diplomatici, militari e uomini d’affari tedeschi, che guardano con indifferenza ai massacri, attenti solo all’interesse del loro paese, aggiunge profeticamente: «La Germania aveva lucidamente architettato la conquista del mondo».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010

La rabbia e la speranza

Protestare non basta. Serve ricominciare
di Marina Corradi
Negli
«Nascondervi dietro a un dito dicendo che è colpa del black bloc non serve a nulla. Sia­mo noi, ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», scrive un ragazzo a Roberto Saviano. «Mia fi­glia, trent’anni, precaria e nessun sogno», scrive una 'mamma arrabbiata' a un quotidiano. Rabbia, dopo le piazze del 14 dicembre, è la parola più diffusa per raccontare una generazione. Che ha guardato la guer­riglia senza parteciparvi, ma anche, non pochi, sen­za indignarsene; come fosse il rigurgito di una fru­strazione coralmente avvertita.
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un con­tratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di cri­si, mentre la globalizzazione del mercato abbatte co­me una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, in­travedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in in­ganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fat­to credere, nell’educazione spesso troppo concilian­te, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assi­stono a un deterioramento vistoso della politica, do­ve il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrab­biati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dica­no, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’a­ria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto ge­nerazioni ben più povere e materialmente travaglia­te. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, da­vanti al ritornare su troppi media della parola 'rab­bia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? An­che in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il senti­mento che legittima le armi, quando qualcuno si con­vince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cie­ca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il de­siderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le mace­rie e ricominciare. Quella generazione, che per i ra­gazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’i­dea cristiana di una società equa o il socialismo, era­no cose che impostavano la vita. Vivevano, comun­que, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emi­gravano a lavorare in città lontane e straniere; in mo­di diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del de­siderio » in Italia, del desiderio di fare, costruire, ini­ziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cri­stiani è la speranza). Non è anche per una crisi di spe­ranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una genera­zione non ha tramandato questo desiderio, ha man­cato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ri­cominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi del­l’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replica­to: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010

“Fermate Wikileaks” … è troppo tardi!

di Natascha Fioretti
Che Wikileaks avrebbe fatto il botto era prevedibile. Che si sarebbe tirato addosso le ire e le critiche di qualcuno, in particolare le istituzioni filo governative americane, e i media a loro vicini, anche. Ne è un esempio un pezzo uscito ieri sul Washington Post dal titolo poco equivoco “Fermate Wikileaks”, in cui la si accusa di essere, niente meno che un’organizzazione criminale con le mani imbrattate di sangue che deve essere subito fermata e il suo fondatore, Julian Assange, perseguito dalla legge. Come stupirsi: il pezzo é firmato Marc Thiessen, ex ghostwriter di George W. Bush. Molto di più, invece, mi ha colpito leggere il commento di Sergio Romano, “Wikileaks e il rischio ti trasparenza totale”, apparso sabato scorso sul maggior quotidiano della Svizzera italiana Corriere del Ticino.
Complice, forse, la sua passata esperienza di diplomatico e di ambasciatore alla NATO, il giornalista non ha attribuito un grande merito alle informazioni diffuse dal sito di Assange e pubblicate dai tre autorevoli giornali Guardian, New York Times e Der Spiegel. Anzi a suo avviso non rivelano nulla che già non si sapesse: “Rivisti con maggiore attenzione a qualche giorno di distanza, i 92.000 documenti sulla guerra afghana che Wikileaks ha dato in pasto alla pubblica opinione sono forse un po’ meno importanti di quanto sembrassero a prima vista […] non contengono rivelazioni di cui non fossimo già a conoscenza. Sapevamo che le forze americane ricorrono a operazioni speciali per l’eliminazione degli esponenti di al Qaeda. Sapevamo che i servizi segreti pakistani non hanno mai smesso, sin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, di coltivare rapporti con i gruppi islamici. Sapevamo che il numero delle vittime civili, provocate dalle incursioni degli aerei senza pilota, è elevato. E non ci ha sorpreso apprendere che Washington abbia nascosto parecchie informazioni imbarazzanti.“
Davvero l’opinione pubblica sapeva? E se i giornalisti erano al corrente, perchè hanno aspettato Wikileaks per fare il botto? E se invece fosse come ha scritto Marcello Foa sul sito dell’EJO qualche giorno fa: “La vicenda di Wikileaks rafforza questa convinzione: per sei anni il Pentagono ha nascosto notizie colossali. Non una, ma tante, tantissime; in teoria sarebbe stato facile venirne a conoscenza, perlomeno in parte, considerata anche l’arco di tempo, piuttosto ampio. Invece nessun giornalista, nemmeno d’inchiesta è riuscito a bucare la ferrea disciplina dell’ufficio comunicazione di Pentagono e Casa Bianca.”
C’è poi un altro punto interessante che emerge dal commento di Romano che si presta alla discussione: la questione della trasparenza a tutti i costi, che secondo il giornalista, oggi viene spesso invocata a sproposito diventando “una ideologia (la più radicale delle ideologie democratiche) che comincia a reclutare un notevole numero di fedeli” piuttosto che un sano principio da seguire, sia da parte delle istituzioni che dei giornalisti: “Come nel caso di Abu Ghraib e in altre vicende degli scorsi anni l’atto che sbugiarda i pubblici poteri viene percepito come un dovere morale; e il rivelatore della notizia segreta sembra recitare, contemporaneamente, la parte dell’angelo vendicatore e del martire della libertà. Le stesse considerazioni valgono per Wikileaks, il sito che si è specializzato nella rivelazione di segreti scottanti. Il suo direttore, Julian Assange, si dichiara giornalista, ma è in effetti un attivista politico, il crociato di una campagna per la trasparenza totale.”
E i tre autorevoli giornali che hanno collaborato con Wikileaks per provare la veridicità e la fondatezza dei documenti, decidendo poi di pubblicarli? Sono anche loro degli angeli vendicatori e dei martiri della libertà? Hanno anche loro agito in modo irresponsabile non pensando al rischio che molte persone correvano? O hanno adempito al loro ruolo di cani da guardia della democrazia e controllori del potere nell’interesse dell’opinione pubblica?
Domande a cui certamente non è facile rispondere. Ci ha provato Stephen Engelberg ex national security reporter in una accurata e approfondita analisi sul sito di ProPublica dal titolo “How Wikileaks Could Change the Way Reporters Deal with Secrets” nella quale ammette che è sempre stato difficile trovare un equilibrio tra le esigenze che impone la Sicurezza e quelle che prevede un sano giornalismo. Gli ufficiali superiori dell’intelligence non sono mai stati tranquilli al pensiero che la stampa avesse il diritto di prevaricare la loro decisione su cosa fosse segreto. Dal canto loro i giornalisti hanno sempre temuto che loro gonfiassero i pericoli di una eventuale pubblicazione al fine di bloccare storie imbarazzanti.” (“It has always been difficult to find a balance between the demands of security and robust journalism. Senior intelligence officials were never comfortable with the notion that the press had a right to overrule their judgment of what should be kept secret. For their part, reporters worried that officials would exaggerate the dangers of publication to block embarrassing stories.”)
A suo avviso, a rendere più precario e difficile l’equilibrio tra le due parti si aggiungono le potenzialità della rete. Un tempo infatti, dice il giornalista, gli ufficiali governativi che volevano passare delle notizie dovevano stabilire un contatto con il giornalista, costruire con lui un rapporto di fiducia e fisicamente sottrarre i documenti dai loro uffici per portarli in un posto sicuro. Un redattore aveva poi il compito di studiare il materiale e decidere se meritevole di essere pubblicato.” (“Government officials hoping to leak classified material once had to make contact with a reporter, build trust and physically carry documents out of their offices to a safe location. An editor would then study the material and decide whether it was newsworthy.”).
Da quello che abbiamo appreso in questi giorni, Wikileaks ha agito in questo modo, sottoponendo, prima di pubblicarli, i documenti alle redazioni del Guardian, del New York Times e del Der Spiegel. Informandone anche la Casa Bianca.
Il problema piuttosto è che oggi, aspiranti leaker, non hanno più bisogno dell’aiuto di un giornalista o della redazione di un giornale per fare circolare le informazioni: basta trovare il modo di bypassare le procedure di sicurezza del governo e zippare un e-mail ad un server sicuro.
E come ha scritto Sergio Romano, nulla di più facile da quando lo “scorso giugno il Parlamento islandese, aderendo alla proposta di una deputata anarchica, ha approvato all’unanimità una legge che garantisce uno scudo legale a chiunque diffonda, da una server situato in Islanda, documenti segreti sottratti per un interesse pubblico ad autorità pubbliche, banche e aziende.”
Alla luce di tutto questo appare evidente come sia complessa la vicenda e difficile darne una lettura univoca e sistematica.
Di certo c’è che l’affare Wikileaks ha messo in moto un processo irreversibile. E come ogni processo porta in sè qualcosa di buono e di meno buono. Di buono a mio avviso c’è che la rete ancora una volta ha dimostrato il suo punto forza: condividere e diffondere informazioni. Tra gli utenti certo, ma prima ancora con chi l’informazione la fa di mestiere, dimostrando che il lavoro di squadra con I giornali è possibile e vincente. Dimostrando che internet è fatto anche di siti e organizzazioni serie e valide che non pescano sempre a caso e pubblicano senza verificare. E soprattutto che l’autorevolezza oggi rimane una prerogativa della carta stampata piuttosto che di internet e della tv.
Per il resto c’è ancora molto da fare e da regolamentare. Sia da parte delle istituzioni e dei governi che dei mezzi di informazione. E come dimostra il dibattito incadescennte sollevato in questi giorni, siamo solo all’inizio. L’importante è credere nel cambiamento, nel miglioramento e, soprattutto, imparare dagli errori. Sbaglia chi crede di poter risolvere tutto “fermando Wikileaks”.
Articolo apparso sul sito «L’Osservatorio europeo di giornalismo» del 5 agosto 2010