20 dicembre 2009

Quella «I» come «italiano» che la scuola ha trascurato

Croce sbagliava: insegnare la letteratura non basta
di Paolo Di Stefano
Un documento della Crusca e dei Lincei lancia l'allarme: i ragazzi ignorano la lingua madre
L'italiano a scuola è minac­ciato. Da chi? Da tutti (o quasi): dalla politica, e cioè dalle riforme previste o, meglio, minacciate, dagli allievi che non vogliono saperne di regole in gene­rale, figurarsi di quelle grammaticali, persino dai professori, e vedremo per­ché. L’insegnamento dell’italiano è mi­nacciato anche (o soprattutto) dalla so­cietà, che offre poli di attrazione ben di­versi dall’approfondimento della lin­gua-madre: immagini, tecnologie, inter­net, l’immancabile televisione eccetera.
La riforma, si diceva: per alcuni indiriz­zi della scuola superiore prevede una ri­duzione. Ma non è questo quel che conta davvero: a preoccupa­re è l’atteggiamento di genera­le superficialità con cui si guar­da alla nostra lingua. Per esem­pio, a molti addetti ai lavori è sembrata una provocazione, con questi chiari di luna, la re­cente crociata leghista per il dialetto nelle scuole. I chiari di luna sono quelli che impietosa­mente emergono dalle classifi­che internazionali (Ocse-Pisa) riguar­danti le competenze linguistiche dei no­stri giovani, collocati agli ultimi posti. Per queste buone ragioni, le due mag­giori accademie italiane, la Crusca e i Lincei, hanno deciso di lanciare un ap­pello su Lingua italiana, scuola, svilup­po, partendo da un principio solo appa­rentemente assodato: «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed eco­nomico ». Assodato? Niente affatto, sa­rebbe meglio non dare niente per scon­tato. Vi ricordate il famoso slogan delle tre «I» su cui un passato governo Berlu­sconi fondava la prospettiva di una scuo­la rinnovata? C’era di tutto (inglese inter­net impresa) salvo che l’italiano che pu­re aveva la stessa iniziale.
L’appello degli accademici, steso da Francesco Bruni, sostiene che «una co­noscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comu­nicativi primari, elementari (...) è una precondizione per un Paese civile». Quel che si propone è insomma «un de­ciso rafforzamento dell’italiano nell’in­segnamento scolastico». Con una sotto­lineatura: che le ore dedicate alla lingua siano tenute ben distinte da quelle ri­guardanti la lettura dei testi. Il che ridu­ce l’antica prevalenza crociana della let­teratura come disciplina regina, per ri­partire più terre à terre dalla lingua d’uso. Il paradosso vuole addirittura che studenti Erasmus venuti da noi do­po aver imparato l’italiano all’estero sia­no più preparati dei nostri sulle struttu­re morfologiche e sintattiche e persino sul lessico.
Il filologo Cesare Segre, pro­fessore universitario di lungo corso, co­nosce bene le carenze degli studenti: «Sanno poche parole, non sono capaci di costruire frasi complesse e fanno er­rori di ortografia gravissimi, insomma non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà, perché la lingua è il modo che abbiamo per metterci in contatto con il mondo: e se non sei capace di esprimerti non sei capace di giudicare. Per di più la civiltà dell’immagine in genere usa la lingua per formulare slogan e non ragionamen­ti». C’è poi la questione della presunta concorrenza dell’inglese: «Se non pos­siedi la struttura della tua lingua non sei in grado di imparare le altre, per que­sto le campagne a favore dell’inglese non hanno senso se non si legano a un miglioramento dell’italiano».
Basterà rivedere i programmi? Ag­giungere un’ora? O mantenere le attua­li? Il presidente d’onore della Crusca, Francesco Sabatini, punta su un aspetto che definisce paradossale: «Non c’è nes­sun collegamento tra la formazione uni­versitaria e l’immissione degli insegnan­ti nella scuola: si richiederebbe una competenza linguistica e tecnico-didat­tica specifica. Un tempo poteva insegna­re italiano nelle superiori anche un lau­reato in giurisprudenza che aveva fallito la carriera di avvocato oppure un laurea­to in pedagogia. Ma ancora oggi se io chiedo a cento professori di italiano quanti hanno studiato linguistica o sto­ria della lingua, rispondono positiva­mente soltanto in dieci. Il predominio della letteratura è un tardo influsso cro­ciano». Non per niente Sabatini ha scrit­to già un paio d’anni fa un saggio intito­lato Lettera sul ritorno alla grammati­ca. Ma contro la grammatica sembrano schierarsi persino i professori, che for­se sarebbero i primi a doverla imparare: «È vero, c’è un blocco dei docenti, i qua­li sostengono che chi sa bene la lettera­tura può insegnare tranquillamente la lingua. Per non dire poi dei ministeri, che ignorano persino l’esistenza di una disciplina che si chiama linguistica». In­somma, ci vorrebbe, secondo Sabatini, una politica mirata all’insegnamento dell’italiano, tenendo conto del fatto che l’italiano serve a tutti i cittadini e a tutti i professionisti: non solo ai docenti di italiano, ma ai magistrati, agli avvoca­ti, ai medici, agli ingegneri eccetera.
E il dialetto? «È importante culturalmente, storicamente, strutturalmente. Va bene presentarlo, ma insegnarlo sistematica­mente sarebbe una follia: il dialetto si impara, non si insegna». Bisogna andare sul campo, come si dice, per avere una voce ancora più net­ta sulla questione. Carla Marello è glot­todidatta all’Università di Torino e si oc­cupa molto dell’insegnamento a stranie­ri. Una prospettiva diversa? «No, tutto ciò che vale nell’insegnamento dell’ita­liano agli stranieri, serve a maggior ra­gione per i parlanti nativi. Oggi poi...». Oggi? «Con le classi multilingue l’inse­gnamento dell’italiano è cambiato per forza. Se poi sentiamo in televisione il Grande Fratello, si capisce subito che la lingua dei giovani è diversa da quella delle antologie scolastiche e dalle scrit­ture artificiali che si richiedono nei te­mi». Dunque? «La scuola continua a in­segnare un italiano fittizio, c’è un distac­co enorme tra l’esempio che diamo e ciò che gli allievi sono in grado di rece­pire. Dunque se vogliamo che l’italiano scritto dei nostri ragazzi migliori dob­biamo impegnarci a farli scrivere di co­se concrete, con un insegnamento mol­to pratico che non guardi più alla lingua letteraria come al solo modello». Bandi­re la letteratura? «No, si arriverà alla let­teratura come massimo grado di utilità e bellezza, ma prima punterei su forme di scrittura meno belle e più concrete, senza ostinarmi a perseguire norme uto­piche e senza dare per scontato nien­te». Proprio niente? Neanche la differen­za tra scritto e orale? «Tra scritto e parla­to c’è uno scollamento enorme: puntan­do sul parlato, alzeremo anche il livello dello scritto. Sempre meglio dire: 'se lo sapevo non venivo' piuttosto che 'se non lo saprei non verrei'. Che bisogno c’è di pretendere a tutti i costi 'se l’aves­si saputo non sarei venuto'? Pazienza se non sarà lo scritto di Igor Man o di Scal­fari, ma quello più realistico della Littiz­zetto! ».
«Corriere della Sera» del 18 dicembre 2009

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