22 dicembre 2009

Gli animali non sono «cose», gli embrioni umani ancor meno

Le sperimentazioni di laboratorio e il diritto all'obiezione
di Francesco D'Agostino
Si potrebbe rinunciare alla sperimentazione scientifica sugli animali o addirittura proibirla?
No. Non è immaginabile farsi operare da un chirurgo che non abbia acquisito una completa padronanza del bisturi attraverso la sperimentazione su animali. Non è immaginabile far assumere a un malato farmaci, la cui assoluta innocuità non sia stata dimostrata attraverso la sperimentazione sugli animali. Ciò non toglie, però, che sia auspicabile ridurre nei limiti dello strettamente indispensabile quelle sperimentazioni che provochino la morte o comunque sofferenze a carico di animali e che sia molto apprezzabile la legge, in vigore nel nostro ordinamento fin dal 1993, che riconosce ai ricercatori, che potrebbero essere destinati a fare sperimentazione sugli animali, il pieno diritto all’obiezione di coscienza. Più in particolare, sono da valutare positivamente tutti i tentativi di individuare metodologie sperimentali alternative, anche se fino ad oggi i tentativi per metterle a punto hanno dato risultati molto ridotti o hanno più che altro favorito l’individuazione di metodi non alternativi, ma complementari.
Bene ha fatto dunque il 'Comitato Nazionale per la Bioetica' ad approvare il 18 dicembre un documento su questa tematica, che ribadisce il dovere etico di rispettare nei limiti del possibile la vita e il benessere degli animali, in nessun modo assimilabili a 'cose' che sia legittimo utilizzare, sfruttare, distruggere, uccidere, da parte dell’uomo, senza adeguate e ben fondate ragioni. Questo documento, aggiungendosi ad altri, approvati in anni precedenti, dimostra come continui ad essere viva e condivisa nel nostro Comitato l’attenzione per la bioetica animalista. Chi leggerà il documento prenderà anche atto, con soddisfazione, che la maggior parte dei membri del Comitato (anche se purtroppo non tutti!) ha voluto prendere esplicitamente le distanze dalle opinioni di quegli scienziati che ritengono che una tra le legittime modalità alternative alla sperimentazione sugli animali possa essere il ricorso all’utilizzazione di embrioni o comunque di materiale cellulare ricavato dalla distruzione di embrioni umani. Se si ritiene eticamente conturbante fare sperimentazioni scientifiche, che sacrifichino la vita di animali, fino al punto da riconoscere legalmente il diritto all’obiezione di coscienza contro queste modalità sperimentali, non può che apparire paradossale proporre come alternativa una metodica che sacrifichi la vita umana, ancorché nelle prime fasi del suo sviluppo.
Quello che il 'Comitato Nazionale per la Bioetica' non ha invece ritenuto, dopo un’accanita discussione, di dover rilevare è il paradosso implicito nella già citata (e lodata) legge 413 del 1993. Questa legge, riconoscendo il diritto all’obiezione di coscienza, esonera dalla sperimentazione tutti coloro che 'per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi'. Così si esprime, in modo un po’ farraginoso, ma efficace, l’art. 1 della legge. Perché allora questa legge non ha esteso il diritto all’obiezione anche ai ricercatori cui venga richiesto di collaborare a sperimentazioni che coinvolgano non solo animali, ma anche persone umane, ove essi ritengano queste sperimentazioni inaccettabili, per ragioni di coscienza? Questa lacuna dà da pensare. Non si può scartare completamente l’opinione malevola, secondo la quale i politici che hanno votato la legge 413/1993, abbiano incentrato tutte le loro attenzioni sul benessere degli animali, perché in definitiva indifferenti al bene umano, da essi non ritenuto primario rispetto al bene di qualsiasi altro essere vivente. In ogni modo è certo che l’impegno biopolitico è ben più complesso di quanto non si ritenga comunemente e che richiede una continua profusione di energie intellettuali e morali, anche in contesti apparentemente meno rilevanti di quelli, su cui tanto e giustamente si dibatte, della procreatica o delle questioni di fine vita.
«Avvenire» del 22 dicembre 2009

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