19 dicembre 2009

Borgese: Costantinopoli città «globale»

di Massimo Onofri
Il delizioso librino che ora l’editore Carocci ripropone con una prefazione di Annamaria Cavalli e un attrezzatissimo saggio di Ambra Meda, Giuseppe Antonio Borgese lo licenziò nel 1929. Vi si racconta il soggiorno a « Stàmbul » dello scrittore e critico nell’ottobre del 1926. Da qui il titolo, Autunno di Costantinopoli, che, però, non ha solo un significato letterale, ma si porta dietro gli echi d’esotismo e decadenza di tutta una tradizione, culminata, in Italia, nei due celebrati tomi di Edmondo De Amicis del 1877- 78. Borgese arriva in Turchia attratto da un evento che ha incuriosito e preoccupato il mondo occidentale, in particolare l’Italia, dove, nello stesso giro di anni, s’erano consumati eventi, non dico analoghi, epperò paragonabili per impatto eversivo. Mi riferisco alla rivoluzione di chiaro stampo occidentalista attraverso cui, nel 1923, Mustafa Kemàl Atatürk ( Borgese lo chiama « il Licurgo e Pietro il Grande della Nuova Turchia » ), deposto Maometto VI, impose la repubblica presidenziale, il suffragio universale e la parità dei sessi, provandosi a rescindere con fanatismo laicista e autoritarismo sultanale (è il caso di dirlo) le radici islamiche della nazione cui aveva pure restituito unità, indipendenza e dignità internazionale.
C’è un passaggio di questo resoconto di viaggio che anticipa quella condizione di perplesso incanto cui Borgese approderà una volta sul Bosforo. Arrivando al porto, lo scrittore è in piedi e « volto verso prua » . Lo incuriosisce, dentro la sua impazienza, quella di chi arriva a Costantinopoli, « il più bel posto del mondo » , la pazienza rassegnata d’un inglese sulla sedia a sdraio, che a Costantinopoli c’è nato: « – Pensa di restarci a lungo? – Quindici venti giorni– fo io appena intimidito. – Troppi - e ricade in spleen » . Colpisce, in queste pagine, l’intelligenza entusiasta ma insieme disillusa con cui Borgese si rapporta alla città: al punto da anticipare, come nota benissimo Ambra Meda, la descrizione di quel sentimento di « tristezza » dominante di cui avrebbe parlato, più di ottant’anni dopo, niente di meno che Orhan Pamuk nel libro mirabile dedicato alla sua città. Di più: se tutti gli occidentali ( compreso il grande Flaubert) in vena di orientaleggiare avrebbero pagato dazio a quel complesso di stereotipi che Edward Said ( altro nome giustamente evocato da Meda) ha stretto nel concetto di « Orientalismo » , Borgese, pur non del tutto esente, pare davvero il meno implicato di tutti, il più libero e indipendente.
Basterà vedere come sa ironizzare sulle mitologie sessuali da Mille e una notte, odalische e danza del ventre: « ' Harèm!, Harèm?' domanda, franco ed ingenuo, il turista americano » . Mentre lucidissimo – nonostante certi inaspettati cedimenti alla prosa d’arte dei nemici rondisti – resta l’avvertimento incredibilmente precoce di quel processo che avremmo poi chiamato globalizzazione. Così di fronte ai cambiamenti della nuova Turchia presidenziale: « come poteva l’Occidente vincere se non fecondando l’Oriente? E se l’ha fecondato come può poi stupirsi? » .
Borgese, con la sua robusta formazione classicista, la strepitosa conoscenza delle letterature classiche e contemporanee, il gustoso e raffinatissimo anacronismo delle sue citazioni, sta tutto dalla parte dell’avvenire: e si augura di vedere in futuro tante ciminiere quanti sono ora ( e insieme ad essi) i minareti della città, finalmente risollevata dalle sua macerie dentro un destino di modernità.
Epperò non c’è nulla, in lui, della ferocia d’uno sprezzatore delle tradizioni come Atatürk: augurandosi così che Costantinopoli riesca a ritrovare un suo modo antico per essere moderna. Di fronte ai tribalismi e ai particolarismi, il tollerante Borgese, come già gli accadde per la questione dalmata dopo la prima guerra mondiale ( cosa che i fascisti gli fecero pagare amaramente), sceglie di stare dalla parte dell’universalismo cristiano e illuminista: « Fra poco sarò nella mia patria, nell’Occidente dov’è la mia vita » . Una lezione, oggi, necessaria più che mai.
«Avvenire» del 19 dicembre 2009

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