24 novembre 2009

L'ispirazione ormai fa paura: così la letteratura diventa finta

Saggio sulle tecniche narrative
di Paolo Di Stefano
Parazzoli: conta il marchio, non il valore dell’opera
Inventare un mondo, inventare l’altro mon­do, che è quello della letteratura. In realtà, il titolo del nuovo libro di Ferruccio Paraz­zoli è Inventare il mondo (Garzanti, pp. 135, e 14). Un saggio a suo modo — con il sottoti­tolo «Teoria e pratica del racconto» — che non parla solo di tecniche narrative ma che è un per­corso dentro le passioni di lettura di uno scritto­re più che di uno studioso. Quindi, saggio a suo modo, testimonianza, racconto, a sua volta, di tanti incontri immaginari con i grandi autori: Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Proust, Kafka, Céline, Beckett, Joyce, Hemingway, Ingeborg Ba­chmann, Kawabata e tanti altri. Non tutti ovvi, come sarebbe in un qualunque manuale di scrit­tura: qui ci sono anche Fruttero & Lucentini, Pontiggia, Moresco, Pincio, Saviano e persino Moccia e Melissa P. Senza puzze sotto il naso da accademici. «Perché — dice Parazzoli, seduto sul divano della sua casa milanese, che guarda dall’alto piazzale Loreto — la ripercussione, dai narratori che hanno fatto scuola, arriva fino a og­gi ».
Il tutto per accompagnare il lettore (ma an­che l’aspirante scrittore) nella creazione lettera­ria, nel sottile rapporto tra realtà e linguaggio, tra cronaca e narrazione, tra mondo reale e mon­do immaginato. Romano di 74 anni, lunga carriera alla Monda­dori come responsabile degli Oscar, autore di una decina di romanzi (ultimo Il tribunale dei bambini ), oltre che di indagini di argomento religioso, Parazzoli spazia con generosità nel fare letteratura, dando consigli a proposito del tabù della pagina bianca, della scansione, delle tonali­tà e dei ritmi narrativi, soffermandosi sui generi letterari, sulla posizione dell’io narrante nel rac­conto, sui dialoghi, sugli «attimi di verità» che si possono trarre dalla cronaca.
Già, come si usa la cronaca? «La cronaca, come i sentimenti, può essere utilizzata come strumento di arredamen­to: spesso i giallisti sbagliano, perché prendono un intreccio della realtà e lo travasano nella nar­razione in modo orizzontale, facendone una pu­ra questione di ricostruzione poliziesca degli eventi. È una paraletteratura bestselleristica ma­scherata da letteratura. Invece la cronaca può as­sumere una dimensione verticale, variare dal­l’abissale al sublime, acquisire un valore esisten­ziale ». E come si fa a distinguere l’orizzontale dal verticale? «La Bachmann individua nell’uso del linguaggio l’inevitabilità dello scrittore. La lingua, per uno scrittore, non è mai ovvia, scon­tata: la lingua dei gialli da classifica è morbida, penetrabile, adatta al mercato e al lettore debo­le, che vuole essere consolato o eccitato. Il letto­re vero cerca nella letteratura un mezzo per deci­frare il mondo e battersi contro il caos».
Il racconto, dice Parazzoli, nasce da uno «sta­to di tensione», da una concentrazione di ener­gie. Questa tensione, che forse appartiene più al­la vita che alla letteratura, precede le preoccupa­zioni strutturali. Il «brusio del mondo» è l’hu­mus da cui germoglia l’opera letteraria. I consi­gli pratici di Parazzoli sono preziosi: dal bloc no­tes per gli appunti alla prima fase della scrittura, che serve a dar sfogo a quella prima energia, ai vari modi possibili «di attaccarsi al treno che corre» (l’ispirazione, diciamo). Una scaletta? «Oggi si sente forte la necessità di avere una spe­cie di concept da cui si sviluppa la trama, ma quando nel pensiero di chi scrive subentrano le richieste dell’editoria, si parte male. L’editoria oggi vuole dei bollini da marketing, un marchio riconoscibile da vendere: vuole la violenza o il sublime, l’aggancio alla realtà o il suo opposto, la trama forte eccetera. L’idea, piccola o immen­sa, da cui nasce un’opera letteraria scatta invece nel punto esatto in cui la linea orizzontale del­l’esperienza interseca quella verticale dell’arte. Per Pavese è il ronzio della mosca dentro a un bicchiere...». Quella che una volta si chiamava ispirazione: «Sì, oggi è una parola out, che nes­suno osa più pronunciare, un moto sentimenta­le che ti spinge a scrivere e ti conduce dove vuo­le. Purché non sia il piccolo patema individua­le... » .
L’editoria chiede più paraletteratura che lette­ratura? È così? «Una volta nell’editoria c’era il di­rettore letterario che non doveva rispondere a nessuno. Oggi il direttore letterario è anche di­rettore editoriale: non giudica più sulla base del valore ma sulle richieste del marketing. Il suo giudizio non è letterario ma editoriale e attiene alla vendibilità e alle possibilità di essere visibili nei mass media. Così succede che piove sempre sul bagnato: i libri si pubblicano se danno la ga­ranzia di poter approdare alla televisione e quan­do si pubblicano si sa già che andranno sicura­mente in tv».
E gli altri? «Gli altri magari escono ma sono destinati all’oblio». Parazzoli distingue tra scrittore-sciamano («un medium che va cercando a tentoni, può piacerti o no, ma ti segna irrimediabilmente»), scrittore-giullare («quello che intrattiene il pub­blico, oggi è il caso più frequente») e scritto­re- homo faber («che è scomparso, perché ave­va a che fare con un’ideologia, diciamo un po’ alla Vittorini»). Qualcuno accusa le scuole di scrittura di produrre solo autori-intrattenitori, pronti per il mercato. Parazzoli ci crede, ai corsi creativi? «Se uno non ha talento, si può diverti­re, ma tutto finisce lì. Se il talento c’è, lo si può indirizzare e mettere a frutto: ma il compito di un corso di scrittura è far capire l’utilità della lettura e anche dell’imitazione, cogliere i truc­chi del mestiere, far capire che anche uno scrit­tore di talento deve lavorare, lavorare, lavora­re ».
«Corriere della sera» del 23 novembre 2009

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